martedì 27 novembre 2012

Tetraktys: introduzione alla Tradizione




Questa conversazione vuole essere il distillato o meglio vuole rappresentare alcuni estratti di un opuscolo che sto preparando (e che spero potrà essere pubblicato) col titolo Tetraktys: introduzione alla Tradizione, che è un trasparente omaggio a un celebre libro di Elémire Zolla, Le meraviglie della natura: introduzione all’alchimia.



Gli antichi Pitagorici, oltre a considerare, come ci riferisce Aristotele, che i numeri fossero «l’essenza primordiale di tutto l’universo fisico» e «cause delle sostanze e dell’essere», si resero conto di un altro importante principio del Numero. È esemplificato, nella miglior maniera possibile, nella figura della Tetraktys che, per loro, non solo fungeva da parola di passo (oggi diremmo password) ma, come forse dovremmo dire ancora nel linguaggio odierno, funge da paradigma numerico della totalità dell’universo come pure di interi sistemi, come si vedrà nel prosieguo.

In contrasto col presente, in cui i numeri sono considerati astratte unità aritmetiche, sappiamo che i Pitagorici erano abituati a sistemare i numeri in forme geometriche ed esiste una varietà di descrizioni che ci sono state trasmesse dall’Antichità di numeri triangolari, quadrati, oblunghi, tetraedici,  pentagonali e di altri numeri figurati e delle loro proprietà. 




Questa peculiare maniera di rappresentare i numeri ha certamente avuto il grande risultato di scoprire diversi teoremi geometrici, il primo dei quali è il noto teorema di Pitagora (assunto per inciso, in Massoneria come emblema nel gioiello del collare del Ex Maestro Venerabile). Inoltre, l’osservazione che le relazioni tra differenti tipi di «numeri geometrici» seguono sempre certi definiti modelli deve aver favorito l’assunto pitagorico che lo studio della matematica fosse un importante percorso di instradamento che conduce alla comprensione di leggi universali.
L’esempio più noto di «numero figurato» è la famosa Tetraktys pitagorica (parola traducibile in «Quaternità» o «Quaternario», insieme di quattro cose), consistente nei primi quattro numeri interi sistemati in un triangolo di dieci punti. La Tetraktys è dunque un modo di disporre dieci punti, in modo che sia evidente il conteggio 1+2+3+4, nella forma di un triangolo equilatero, dove ogni lato è formato da quattro punti e al suo centro vi è un solo punto. Perfetta ed esemplare riduzione del numerico allo spaziale e dell’aritmetico al geometrico, la Tetrattide è il simbolo del Pitagorismo allo stesso modo in cui la croce lo è per il Cristianesimo. È lecito pensare che i Pitagorici lo utilizzassero – tra le altre sue funzioni, in primis il giuramento con cui il nuovo iniziato si impegnava a non rivelare le dottrine pitagoriche – come un simbolo psichico, così come in Oriente accade per lo sri yantra, simbolo dell’unità e totalità. 
I settantuno esametri che furono conservati dai discepoli di Pitagora, noti sotto il titolo di Versi aurei (Chrýsa Epe o in latino Carmen aureo) e che ci rimangono principalmente attraverso il Commento di Ierocle, un filosofo del V sec. che aveva studiato nell’Accademia platonica di Atene e insegnato nella Scuola di Alessandria, sono un componimento contenente una raccolta di regole di vita e di comportamento e sono paragonati all’oro, il più puro dei metalli. In uno di essi ci si riferisce al comando di onorare il giuramento, mentre un altro concerne lo stesso giuramento sul quaternario o Tetraktys. I Pitagorici riverivano al massimo questo simbolo perché includeva «l’intera natura dell’universo». Si può perciò dire che per i Pitagorici i numeri non sono solo elementi costitutivi della realtà, ma anche che i numeri e i loro rapporti sono la chiave per spiegare l’ordine della natura e l’universo.
Per i Pitagorici la Tetraktys simboleggiava la perfezione del Numero e degli elementi che lo comprendono. In un certo qual modo sarebbe corretto dire che la Tetraktys simboleggia un’immagine differenziata dell’Unità; nel caso della Tetraktys, si tratta di un’immagine di unità che comincia dall’Uno, procedendo attraverso quattro livelli di manifestazione, e che ritorna all’unità, cioè al Dieci. Il Dieci è il numero perfetto, anzi perfettissimo, il «ricettacolo», perché «la Decade contiene ogni principio, ogni proporzione e ogni forma del numero» (Porfirio, Vita di Pitagora, 52; Sesto Empirico, Contro i matematici, VII, 94-100). Anche Dante aveva questa idea del dieci come numero perfetto: «Dal diece in su non si va[da] se non esso diece alterando cogli altri nove e con se stesso» (Dante, Convivio 2, XIV, 3), volendo anche dire che le successive decine non sono altro che ripetizioni della prima, in virtù della numerazione decimale. Il numero 10 rappresenta la base del sistema numerico (unità, decine, centinaia, ecc.) e il concomitante principio del ciclico rinnovamento, ulteriore manifestazione dell’unità degli elementi matematici, naturali e cosmologici.
Vi è anche una geometrica congruenza o meglio coincidenza tra la decade in forma di Tetraktys e la forma del Delta (∆), quarta lettera dell’alfabeto greco. Questa relazione simbolica tra il numero 10 e la forma del Delta – fortemente influenzata dal modo di pensare greco e pienamente comprensibile solo in questo contesto – era probabilmente rafforzata dalla derivazione della prima lettera iniziale della parola greca Deka, dieci.
Nella sfera della geometria, Uno rappresenta il punto, Due rappresenta la linea, Tre rappresenta la superficie, e Quattro il tetraedro, la prima forma tridimensionale. 



Nell’ambito dello spazio, quindi, la Tetraktys rappresenta la continuità che collega il punto senza dimensione con la manifestazione del primo corpo solido; la figura della Tetraktys rappresenta anche la gerarchia verticale di relazione tra Unità e la Molteplicità emergente. Nel campo puramente dimensionale possiamo anche dire che contiene in una forma originaria l’intera catena di unità-lunghezza-larghezza-profondità. Nel campo musicale, si vedrà, pur senza entrare nei dettagli, che la Tetraktys contiene anche i rapporti sinfonici che sottostanno all’armonia matematica della scala musicale: il rapporto 1:1 è l’unisono; il rapporto di 1 a 2 (1:2), l’ottava; di 2 a 3 (2:3), la quinta giusta; e di 3 a 4 (3:4), la quarta giusta; ognuno di questi rapporti corrisponde alla sequenza di livelli della Tetraktys. La Tetraktys e le sue ragioni musicali sono illustrate nella Scuola di Atene di Raffaello.





Ma torniamo ora alla concezione pitagorica delle sostanze. La sostanza non è altro che una semplice polarità. Si può dire che l’Uno, il non nato, l’incausato e il senza tempo, proiettando un suo riflesso, crea il due o, passando dal piano aritmetico a quello geometrico, che il punto, sdoppiandosi, forma la linea. La simbologia di Adamo ed Eva è, a questo riguardo, cospicua: Eva-sostanza nasce dalla costola di Adamo-essenza. Mentre l’Uno è l’Essere in quanto è e non diviene, qui abbiamo il suo primo movimento, l’origine del tempo (in quanto distanza che separa) ma anche della causa o principio da cui tutto emerge. Si può dire che il Due sia la prima determinazione o specificazione dell’Essere-senza secondo o dell’Uno metafisico non ancora manifestato. 
Si trova scritto che: 

«l’Uno, spezzandosi, appare due (somma di 1+1), il due appare tre (1+1+1) e il tre quattro …
Si è detto che l’Uno appare il due, non si è detto che l’Uno si “trasforma” o si “cambia” nel due, e in ciò v’è una considerazione filosofica.
L’Uno, se veramente è tale, non può cambiare natura e trasformarsi in due o in altra natura. La natura dell’Uno, in quanto Realtà-principio, non può tradire se stessa, non può snaturarsi perché diversamente crollerebbe la manifestazione che ha oggettivato. Il due, il tre, ecc., sussistono e trovano la loro ragion d’essere perché l’Uno permane nella sua costante realtà. L’Uno, dunque, può apparire due, tre, ecc., ma in realtà esso sottostà ad ogni cifra senza sminuirsi; esso rappresenta il sostrato e l’essenza in abscondito dell’intera serie numerica. Il Vedànta direbbe: Brahman appare il mondo molteplice, ma non è il mondo molteplice. L’Uno non è il due, il tre, ecc.; l’Uno è sempre uno e sempre sarà uno e non può essere che uno se la sua natura è tale.
La mente, per quanto possa proiettare (si veda soprattutto nel sogno) indefiniti dati, tuttavia rimane la stessa mente senza esaurirsi nella sua apparente molteplicità ideata.» (Raphael, Orfismo e Tradizione iniziatica, Edizioni Āśram Vidyā, Roma, 1985, pp. 121-122)

Tutte le tradizioni ortodosse affermano la dottrina dell’Unità. Un punto fondamentale a tutte comune è l’affermazione secondo cui il Principio di ogni cosa è Uno. Sallustio afferma che 

«la causa prima conviene che sia una poiché l’unità precede ogni molteplicità e supera tutto in potenza e bontà.» (Sallustio, Sugli dèi e il mondo, V, 2)

D’altra parte Plotino mostra che per il principio di tutte le cose 

«è necessario che prima della molteplicità ci sia l’Uno, dal quale anche la molteplicità deriva; infatti in ogni serie numerica l’unità è prima.» (Plotino, Enneadi, V 3, 12, 9-10)

Mentre l’unità era detta parimpari, perché, aggiungendosi all’impari lo rende pari, e viceversa, è evidente a tutti che i numeri si dividono in pari e dispari. Se la sostanza delle cose è numero, conseguentemente anche nella totalità del mondo si verifica questa polarità corrispondente all’impari e al pari. L’interazione tra limite e illimite (due) mette dunque in moto armonia (tre), o il flusso dell’universo. Questa scambievolezza mandata avanti da armonia è destinata a produrre il mondo manifestato (quattro), generato dai quattro elementi. La somma di tutti questi numeri dà dieci che rappresenta la massima estensione della manifestazione, dato che il dieci può essere ridotto a uno, costituendo il germe di una nuova serie e rivelando con ciò la sua riunione alla Divinità come punto di origine e di destinazione.
I Pitagorici chiamavano il due, il primo numero pari, binario indefinito (o illimitato), non intendendo con ciò il numero 2, definito in se stesso e determinato, ma ciò che corrisponde alla voce bis, vale a dire due volte ovvero la replicazione dell’unità. Per cui, posta l’unità e replicandosi continuamente, per via di questa illimitata replicazione, o di questo indefinito binario, avviene la generazione di tutti i numeri. Il binario era anche chiamato materia per un paio di motivi convenienti. Da una parte come la materia è il principio della pluralità, così il binario, ossia la replicazione dell’unità, è lo stesso nei numeri. E poiché la materia in sé non ha forma ed è indefinita, ossia in potenza ha qualunque forma, altrettanto il binario, ossia la ripetizione dell’unità, potendosi estendere all’infinito, non è limitata in se stessa. Pensando poi al binario geometrico, ossia alla linea retta, ci rendiamo conto della sua mancanza di figura spaziale. La linea è instabile e mobile, dato che la replicazione dell’unità non ha un limite determinato in cui arrestarsi, ma può sempre scorrere oltre.
Aristotele (Metafisica, I, 5, 986 a 22 ss.) ci fornisce una tavola costituita di dieci coppie di elementi principiali corrispondenti all’impari e al pari, al limite e all’illimitato, in cui il positivo sta sempre dalla parte dell’impari: 1) Limite, Illimitato; 2) Impari, Pari; 3) Unità, Molteplicità; 4) Destra, Sinistra; 5) Maschio, Femmina; 6) Quiete, Movimento; 7) Retta, Curva; 8) Luce, Tenebre; 9) Bene, Male; 10) Quadrato, Rettangolo. Nondimeno questa tavola degli opposti dieci supremi va presa con le molle, sia perché mancano delle coppie citate nella letteratura pitagorica, sia perché alcune sembrano essere state inserite arbitrariamente. Lo scopo di Aristotele nei confronti dei suoi predecessori è quasi sempre denigratorio e si noterà che la tavola in sé è talora folcloristica. 
L’importante è comprendere e intuire che l’impari è permeato dell’Uno o Monade e il pari dalla Diade, dove risiede l’illimitato e il disordine ed ogni privazione di forma in sé. Ciò che più importa è che un unico filo conduttore attraversa e unifica tutte queste qualità indicate come attive, luminose, diurne, maschili, calde, solari, tendenti alla forma (limite) e alla quiete, cioè verso la causa efficiente e formale, vale a dire l’Intelletto, la Divinità. Lo stesso accade per le qualità opposte: passive, oscure, notturne, femminili, fredde, lunari, tendenti all’informale (illimite) e al movimento, ossia protese verso la causa passiva e materiale, vale a dire il mondo visibile. I due fili conduttori sono l’Identico e il Diverso, dove il primo, Identità, è Essere mentre il secondo, Alterità, è non essere, in quanto altro dall’Essere.
Vi sono altri modi di illustrare l’uno-due-tre-quattro a somma dieci. L’uno è talvolta rappresentato come il punto centrale all’interno di un circolo, ovvero il Cerchio centrato, del grado di Maestro nella tradizione anglosassone. 

Infatti nella Tradizione il valore numerico di un centro o Punto è uno, e quello della circonferenza è nove, che simboleggia la totalità degli stati della manifestazione; tale simbolismo suggerisce l’ipotesi che la Decade rappresenti la perfezione relativa allo spazio-tempo circolare, ovvero l’immanenza divina. Ma l’immanenza della circonferenza del movimento e del relativo richiama la trascendenza del centro immutabile e costante dell’Essere e non dovrebbe essere difficile comprendere il vero significato del viaggio da Oriente a Occidente del Maestro Massone alla ricerca della Parola perduta, poiché, come viene chiaramente affermato nel rituale Emulation, tale viaggio ha come meta proprio tale «punto al centro del cerchio, dal quale ogni parte della circonferenza è equidistante».
La Tetraktys rappresenta perciò il dispiegamento della manifestazione e ci offre una visione sintetica, racchiusa in un simbolo di immediata comprensione, per chi sappia intenderlo, di quello che è fisico e metafisico. 
È noto che con metafisica (dal greco metà ta physikà, «dopo i libri di Fisica», ma anche «al di là delle cose fisiche») si intende una serie di trattati scritti da Aristotele nel IV sec. a.e.v ed in seguito raccolti sotto questo titolo. Per lo Stagirita la metafisica è una scienza o conoscenza che verte sulle cause e sui princípi primi o supremi. Tutte le scienze sono scienze di cause, di cause particolari di certi fenomeni. La metafisica si differenzia da tutte le altre perché ha per oggetto di studio non le cause particolari, ma le cause prime o supreme. Se ad esempio si studiano le cause e le ragioni dei fenomeni celesti, si avrà la scienza astronomica, se si hanno di mira le cause e i princìpi dei fenomeni atmosferici si avrà la scienza meteorologica. Si ha la scienza metafisica quando si studiano e si conoscono le cause generali che spiegano non questo o quell’ente, questo o quel settore particolare dell’essere e della realtà, bensì la totalità delle cose, il complesso della realtà, tutte quante le cose, il tutto, l’intero, la totalità. Perché non mira alle cause particolari ma, come abbiamo già detto, alle cause prime o supreme, le quali sono le cause generali che spiegano non questo o quell’ente, questo o quel settore particolare, bensì la totalità delle cose, il complesso della realtà, il tutto, l’intero. La metafisica è, dunque, il tentativo che l’uomo compie di rispondere alla domanda sul perché ultimo di tutte le cose
Un’altra definizione di Aristotele (libro IV della Metafisica) che chiarifica e approfondisce la precedente, è questa: la metafisica è scienza dell’essere e, più precisamente, dell’essere in quanto essere. Il raffronto con le altre scienze ci torna di nuovo utile per comprendere come la metafisica sia scienza di ciò che all’essere compete in quanto tale. Ogni scienza particolare studia, ovviamente, ciò che è particolare, ossia un essere, ma, appunto, una sola determinata parte dell’essere, un solo settore della realtà, non la realtà in quanto totalità. Lo specialista si immerge e si perde nel particolare; il metafisico, invece, studia la realtà in quanto tale, vale a dire nella sua totalità, ossia l’intero dell’essere, nella sua integralità e assolutezza
Un’altra definizione ancora (libri VI e XI, e, più in specifico, nel XII) è quella che qualifica la metafisica come teologia o scienza teologica. Questa definizione è chiaramente sottintesa nelle altre che abbiamo considerato. Studiare le cause prime significa ricercare la Causa suprema, l’Assoluto, significa quindi cercare Dio, giacché «tutti ammettono che Dio sia una causa e un principio». Il metafisico che indaga l’essere in quanto essere (l’intero dell’essere) è diverso dal fisico e «sta più in su del fisico», perché fa oggetto della sua ricerca non solo la parte fisica dell’essere ma anche il genere dell’essere che è superiore ad essa, ossia l’essere della sfera del divino. Da qui i due punti di vista: sacro e profano. In breve significa domandarsi in fin dei conti se esista solo la sfera del sensibile materiale, o corporale, oppure anche una sfera sovrasensibile, ossia enti al di sopra di quelli fisici e quali essi siano: «il che significa domandarsi se esista o no un divino trascendente, che è, appunto, problema teologico».
Torniamo, dopo queste necessarie premesse, alla nostra Tetraktys che racchiude in un simbolo la sfera della metafisica e quella fisica.
La metafisica è la scienza dell’essere di per sé, di ciò che è assoluto e costante, puro e sovrano, ingenerato, che ha in sé la ragione e il fine della propria esistenza e il cui essere è il primo. Si può definire la scienza dell’«aseità» o «perseità» o «inseità», volendo dire col primo termine l’Essere che non dipende da altro, col secondo che esiste di per se stesso e non in vista di altro, con l’ultimo che non esiste in altro o come modo di altro (quest’ultimo caso è identico alla formula advaita «neti neti» – «non questo, non quello» – con cui si indica la totale diversità della realtà del brahman nei confronti di qualunque altro esistente relativo). Tutte le caratteristiche nominate sono qualità del Divino. Ekam Sat vipra bahuda vadanti: «Uno solo esiste, anche se i saggi lo chiamano in molti modi».
La fisica invece si interessa del relativo, del contingente, di quello che dipende da altro ed è generato, di ciò che trova in altro la ragione del suo esistere: è la scienza dell’«abalietà», per usare un termine filosofico medioevale (der. da ab alio, «da altro»). E anche quella dell’«inalietà», nel senso che la sostanza che inerisce all’ente dipende da modi accidentali (es. il fatto che io abbia barba e baffi è una proprietà accidentale del mio essere uomo); ed è la scienza della «peralietà», cioè quella che tratta di enti le cui proprietà derivano sempre da altre cose e che sono per così dire successivi e perituri, fanno parte del divenire, non esistono per sé e non persistono nel tempo: gli enti per alio sono ciò che sono in virtù della natura di qualcosa che è altro da essi, sono sempre soggetti alla generazione, alla mutazione e alla corruzione, e la loro è una sorta di identità illusoria, sono enti contingenti, incapaci di essere principio del proprio esistere e di permanere identici e stabili. Sono un’ombra dell’Essere, della Realtà al punto che un filosofo americano del secolo appena trascorso ha definito questi enti, che esistono nel piano materiale e sensibile o nella manifestazione corporea, ontological parasites (parassiti ontologici). In indù si direbbe che sono maya, imperfettamente traducibile con illusione.
Per avere una giusta visione di quello che è fisico e metafisico, riportiamo uno schema, una tabella che dimostra il dispiegamento della manifestazione secondo alcune dottrine tradizionali: Vedānta, Buddhismo, Pitagorismo, Platonismo, Abramismo, Taoismo e Qabbālāh.

L’osservatore non si affannerà a constatare che la visione filosofica e la Realtà suprema esposta da Pitagora non sono affatto differenti da Platone (e questo può essere ovvio perché vi è stata anche una catena di trasmissione tra le due Scuole filosofico-iniziatiche), ma anche da Gauḍapāda (VIII sec.), da Śaṁkara (788-820), come pure dalla tradizione estremo-orientale e da quella buddhista tibetana; né differisce dalla Tradizione delle religioni abramitiche dove la Tetraktys è espressa fin dalle prime parole della Genesi, e nemmeno dalla dottrina dei cabalisti, in cui la manifestazione dell’universo è spiegata come un processo di quattro stadi o quattro mondi – Aziluth, Briah, Yezirah, Assiah, che possiamo tradurre, molto imperfettamente, come emanazione, creazione, formazione, azione.
Ma tutto questo è, del resto, la conferma dell’esistenza di una sola Realtà, di un solo Essere, e dell’esistenza dell’Unità della Vita e, contemporaneamente, del fatto che esse possono rivestire forme e sviluppi concettuali differenti da popolo a popolo e diversi nel tempo e nello spazio. Con ciò si vuole affermare che la Tradizione filosofico-metafisica è una e universale, in quanto non è un prodotto della mente umana, ma emanazione diretta del Principio, che pure trova diversi adattamenti nelle varie epoche e secondo le persone che la esprimono. Ne consegue che le forme tradizionali sono sentieri che conducono tutti allo stesso scopo: il raggiungimento dell’Identità suprema. Infine per realizzare questo passaggio al divino o, pitagoricamente, ascesa all’Uno, si constata l’esistenza di diversi sentieri o differenti veicoli secondo le predisposizioni e attitudini di ciascuno, per quanto la qualificazione a tale ricerca sia unica.
Ciò significa che la Tradizione, essendo unica, è a disposizione di tutti, anche se non è per tutti. Ciò che conviene, a chi è deciso di seguirla, è non utilizzare forzature, né prospettare un ramo della Dottrina come il solo e l’unico attendibile contrapponendosi ad altri, meno ancora avere la presunzione di voler dare ad altri ciò che spesso neanche si ha, né viene richiesto con la scusa che rappresenterebbe il loro bene. 
È bene intendersi sul significato di Tradizione, perché molto confusioni sono nate e molte – in buona o malafede – ne nasceranno ancora. In Occidente Pitagora, poi Platone, Plotino e i Platonici hanno insegnato la Conoscenza tradizionale, altri lo hanno fatto in Oriente. Come si è detto e come si pensa di aver mostrato per cenni, la Tradizione, pur essendo una, ha molte ramificazioni. La si può paragonare a un albero, dove il tronco è la vita una della Tradizione, la radice è l’antica sapienza (Sophia) di origine sovrumana, mentre i rami rappresentano le varie presentazioni o adattamenti spazio-temporali. Questo non vuol dire che certi rami non abbiano subito degenerazioni di varia natura.
Attraverso la Tetraktys, ci viene, in ogni modo, rappresentata la Filosofia dell’Essere, definita anche Tradizione Primordiale, che è pure universalis, ovvero eredità comune a tutto il genere umano senza eccezioni. La si conosce ancora con i nomi di prisca Theologia o prisca Philosophia o ancora Philosophia perennnis, che verte sui princìpi, ma che può anche essere applicata al mondo contingente. È essa, infatti, che ci insegna, a comprendere la Trascendenza e l’immanenza, la Soprannatura e la natura, l’Immutabile e il mutevole, il Costante e l’incostante, l’Uno e i molti, l’Identità e la diversità, l’Indiviso e il diviso, la Sovralogica e la logica, la Compiutezza e l’alienazione, il Bene Supremo e il bene sensoriale.
Tutti i Rami, sia occidentali che orientali, della Tradizione riconoscono che l’Essere/Uno si esprime sul piano della manifestazione in diversi stati vitali, in differenti forme esistenziali o con modalità molteplici. Abbiamo veduto nello schema proposto che in sintesi l’insegnamento della Tradizione enuncia tre stati dell’Essere che, schematizzando, possiamo chiamare, partendo dal più basso, il piano fisico e empirico, grossolano, quello sottile e quello causale, più un Quarto (Primo da un’altra prospettiva) che si riferisce allo stato metafisico e trascendente. 
È questo stato, quello germinale, quello da cui si originano le determinazioni della manifestazione; è il punto geometrico che, per quanto senza dimensioni, origina la linea, il piano, il solido. Dall’altra parte estrema c’è il mondo dei corpi che è quello dei bisogni, dei desideri, delle tensioni, dei conflitti, poiché è essenzialmente il mondo delle privazioni, delle povertà, degli insuccessi e delle negazioni, è il mondo più distante dal Principio e quindi, nel suo digradare dalla pienezza dell’essere quasi caduto nel non-essere. Così l’oscurità, il buio, secondo l’esempio che dà Proclo, non ha causa positiva o, detto in termini platonici, nel mondo delle Idee non esiste l’idea dell’oscurità; essa è semplicemente una privazione della luce che pure trova la sua causa nel sole.
Finora abbiamo soprattutto parlato dell’Uno e del Due. Soffermiamoci un po’, dicendo alcune cose, sul Tre e sul Quattro (lo stesso grembiule del Massone è un adattamento del tre e del quattro o del triangolo e del quadrato) e vi risparmierò i Numeri dal Cinque al Dieci, gli altri numeri della dekas (decade o denario), che pure rappresentano importanti Idee generali e il cui simbolismo circoscrive l’intero sviluppo dell’universo.
Anche la triade che, come abbiamo veduto, forma il triangolo o trigono (da tri – tre – più gonia – angolo) era pregna di implicazioni pitagoriche. Il tre era considerato un numero ideale, in quanto avendo un inizio, un mezzo e una fine simboleggiava la perfezione. Inoltre, il tre è il più piccolo numero di punti che può determinare una figura piana e i Pitagorici associavano il triangolo ad Apollo. Apollo, naturalmente, è il numero uno, la Monade, nella formazione della Tetraktys ed è il vertice del triangolo. Apollo è il nome simbolico con cui i Pitagorici indicavano l’Uno, in quanto negazione della pluralità  e ripudio del molteplice, come testimonia Plotino alludendo al suo significato etimologico (aalpha privativa, negativa – più pollón – molto, molteplicità). Abbiamo veduto anche come uno dei modi di chiamare la Tetraktys fosse quaternario. Qui l’attenzione si concentra sul numero quattro, primo numero quadrato, e numero su cui essa si basa e che, con i numeri che la precedono, genera il 10. A cominciare da Ierocle ci imbattiamo in una certa ambiguità lessicale: troveremo spesso la parola tétras, tetrade, e la parola Tetraktys. A rigore, la tetrade è il numero quattro, come la monade è il numero uno, la diade il due e la triade il tre, mentre la Tetraktys è esattamente la loro somma sotto forma di figura di numero triangolare. 


Uno sguardo alla figura della Tetraktys ci mostra subito gli stretti legami che uniscono la tetrade alla Tetraktys. Infatti, non solo ha tre lati ciascuno di quattro punti, ma la somma dei primi quattro numeri genera la decade o, se si vuole, la decade. Da qui a dire che la tetrade genera la Tetraktys basta poco e infatti non è insolito trovare nei testi pitagorici la parola tétras che, a rigor di termini avrebbe dovuto essere riservata al numero quattro (come le altre parole formate in medesimo modo designano i numeri corrispondenti) frequentemente impiegata per rappresentare l’insieme dei primi quattro numeri; ciò è a dire che spesso tetrade e Tetraktys sono considerati termini equivalenti e talvolta vengono tradotti con la parola quaternario.
Il perché i due termini siano divenuti intercambiabili è certamente dovuto all’importanza del quaternario nella spiegazione delle leggi naturali che distribuisce tutti gli enti in serie di quattro. Se la Tetraktys è il Demiurgo, la tetrade è lo svolgimento della sua opera o il suo irradiamento teofanico, dunque il tempo o i cicli. Lo svolgimento non si addice all’Uno principiale, o Uno senza secondo che è immutabile e costante; il suo significato è una proiezione successiva, nel cosmo, della quaternità principiale, cristallizzata in quattro gradi.
In primo luogo probabilmente, come ci spiegano i pitagorici Nicomaco e Teone di Smirne, perché il quattro era anche il simbolo delle quattro stagioni e dei quattro elementi; anzi, il principio pitagorico dei quattro elementi doveva essere noto in tutto il mondo antico secondo quanto ci illustra Vitruvio e afferma Teone. Il medesimo Teone dedica un capitolo di un suo libro a spiegare il modo in cui ogni aspetto dell’universo si manifesta attraverso una classificazione quadruplice, nota come quaternario. Oltre ai quattro elementi (fuoco, aria, acqua e terra) e le quattro stagioni (primavera, estate, autunno, inverno), vi sono quattro età dell’uomo (infanzia, adolescenza, maturità e vecchiaia), quattro livelli della società (uomo, famiglia, città, stato), quattro facoltà di giudizio (intelletto, scienza, opinione, sensazione), le tre parti dell’anima (razionale, irascibile e concupiscibile) e il corpo, quattro numeri (1, 2, 3 e 4), vi sono, poi, l’unità, il lato, il quadrato e il cubo e quindi il punto, la linea, la superficie e il solido, quattro solidi (piramide, ottaedro, icosaedro e cubo), il principio, la lunghezza, la larghezza e la profondità, così sintetizzando fino a undici esempi, al modo di un modello universale che è alla base di ogni realtà, dalle prime entità numeriche alla vita del Sé, unite in un campo esteso di parentela. 
I filosofi-matematici Pitagorici, poi, – riducendo musica e astronomia al numero e legando le prime ad aritmetica e geometria –, riunivano insieme le quattro discipline, parte del curriculum scolastico fino ai tempi del Medioevo, che Boezio in seguito avrebbe chiamato il quadrivium – appunto aritmetica, geometria, musica e astronomia – attraverso la conformità di numero e osservazione che esse rivelavano. Poiché nella natura tutto è numero, pitagoricamente i numeri sono princìpi assoluti in aritmetica, princìpi applicati nella musica, grandezze in quiete in geometria e grandezze in movimento in astronomia o, in altre parole, all’uno, origine del numero, è collegata l’aritmetica, al due, origine della linea e quindi del tempo, la musica (o armonica, una forma di matematica «udibile con le orecchie»), al tre, origine del triangolo e cioè delle figure piane, è collegata la geometria e al quattro, origine dello spazio, l’astronomia (o sferica, una forma di matematica «visibile con gli occhi»).
Vedete bene che, sull’esempio di Teone, gli esempi e le combinazioni si potrebbero moltiplicare in maniera indefinita: le quattro virtù cardinali classiche (prudenza, giustizia, fortezza, temperanza), le quattro cause aristoteliche (materiale, formale, efficiente, finale), i quattro umori di Ippocrate (bile nera, flegma, sangue, bile gialla), i quattro temperamenti (melanconico, flemmatico, sanguigno, collerico), le quattro qualità elementari (secco, umido, freddo, caldo), i quattro punti cardinali (oriente, meridione, occidente, settentrione corrispondenti, nell’ordine, all’aria, al fuoco, all’acqua e alla terra), i quattro venti principali (levante, ostro, ponente, tramontana), le quattro fasi lunari (luna nuova, primo quarto, luna piena, ultimo quarto), i quattro quarti del giorno e quelli dell’ora, le quattro sezioni di 90° del circolo, i quattro bracci della croce, i quattro quartieri della città romana divisa da cardo e decumanus, le quattro operazioni dell’aritmetica, le quattro figure geometriche di base (linea, triangolo, quadrato, cerchio)... Persino nel gioco delle carte il quadrante degli archetipi si squaderna in forma di Re, Regina, Cavaliere e Fante e nei quattro semi – bastoni, spade, coppe e denari. Pensiamo ancora a putrefazione – calcinazione – distillazione – sublimazione nel caso di un solido e, nel caso di un liquido, a riscaldamento - evaporazione - raffreddamento – condensazione. O ancora ai quattro ingredienti alchemici: sale zolfo mercurio azoto; e alle quattro fasi alchemiche dell’opera: nigredoalbedocitrinitasrubedo.
Questo elenco di fenomenologie della quaternità o della tetranomia ha, verosimilmente, reso esausto il lettore. L’esposizione presentata da Teone di Smirne e alcune delle varianti della Tetraktys qui presentate, come altre che, inevitabilmente, ci potrebbero venire in mente, offrono l’opportunità di precisare un fatto importante. I numeri, e in particolare quelli della Decade pitagorica si possono considerare nella loro estensione in verticale o nel loro sviluppo in orizzontale, secondo il punto di vista adottato; nel primo caso, o un numero dato è preso per rappresentare un livello gerarchico specifico, oppure può essere considerato come presente simultaneamente su un piano. Nel secondo caso, su uno stesso piano della realtà considerata separatamente, il numero instaura, oltre al primo aspetto «cosmogenetico», un espansione che rappresenta la struttura intima di quel piano. Inoltre l’arte combinatoria garantisce la presenza dei quattro costituenti fondamentali delle realtà o enti e, con il loro inserimento nel ciclo naturale, è quindi mostrata la necessità della loro collocazione temporale. In altre parole ognuno dei quattro componenti ottiene un posto e una funzione irrinunciabile in un ordine. Vale a dire che ogni volta che si parla di un elemento, implicitamente si rinvia ai tre mancanti.
Come diceva Giamblico:

«Tutte le cose del mondo, nel loro aspetto generale e in quello particolare, così come tutta la realtà dei numeri, e insomma ogni cosa di qualsiasi natura, sembra che trovino il loro compimento nell’accrescimento naturale che giunge fino al 4 …» (La Teologia dell’Aritmetica, 20)

Un sistema di regola a base quadruplice dà un senso di soddisfazione, di completezza e di totalità che offre anche quell’esperienza di necessità e di sufficienza che è richiesta ad ogni spiegazione. Logico o no, razionalmente dimostrabile o meno, l’utilizzo di un principio quadruplice è così soddisfacente al massimo grado e così continuamente ricorrente nella spiegazione di fenomeni circoscritti da risultare autoevidente e tale da includere in sé la propria dimostrazione. La Tetraktys, così, è essenzialmente un mezzo universale e uno schema generale per organizzare ogni realtà. La base dei quattro princìpi, un sistema di considerazione reciproco, appare essere non soltanto un filosofico a priori, ma anche, quel che è più importante dal punto di vista dell’anima, uno psicologico a priori. Quante cose ci apparirebbero incomplete e inconsuete se non avessero quattro lati … porte, finestre, stanze, facciate, libri, quadri …
Perciò Dante, quando nell’ultimo canto ha la mirabile visione di Dio, dice:

«Nel suo profondo vidi che s’interna
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna:

sustanze e accidenti e lor costume,
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch’i’ dico è un semplice lume.» (Paradiso XXXIII, 85-90)

In questa grandiosa e vigorosa immagine che indica l’unità divina in cui si conciliano e si unificano tutte le pluralità o antinomie dell’universo, è adombrata, in maniera molto esplicita per il vero iniziato, l’immagine della Tetraktys, che si latinizza col termine quaterna o quaternario. Lo squadernamento dell’unico volume è la virtù intrinseca ed attiva dell’Uno Supremo, sorgente dell’armonia universale.
Questa conoscenza d’intuitiva percezione raccoltasi nei secoli dei secoli è chiamata anche Antica Sapienza ed è contenuta nella Tetraktys. Abbiamo veduto come uno dei modi di definire la Tradizione applica alla filosofia o teologia il qualificativo «prisca», che significa «antica, veneranda, delle prime età».
Possiamo anche collegare i «principi primi», i «fondamenti del pensiero» (loghikaì archaì) allo «studio delle antichità» (archaiologìa): come se ciò che è «primo» per la logica e più saggio per la conoscenza debba anche essere il più antico nel tempo. Dalla logica si può trasmigrare nella cronologia. Come ricorda Giamblico, Pitagora mostrava 


«…come nel mondo e nella vita e nelle città e in generale nella natura ciò che precede è più stimato di ciò che segue nel tempo, ad esempio il sorgere rispetto al tramontare del sole, l’aurora rispetto alla sera, l’inizio rispetto alla fine, la generazione rispetto alla corruzione, …» (Giamblico, La Vita Pitagorica, VIII, 37)

La Tradizione mette in luce come sia largamente diffusa nei più svariati popoli della terra, senza distinzione di razza, posizione geografica, cultura, filosofia e religione, una profonda nostalgia evidenziata nei miti di stratificazione più antica – la cosiddetta «nostalgia delle origini» – che rimanda ad un’ormai perduto e comune momento paradisiaco iniziale. Miti o scritture sacre ricordano all’uomo che è esistito un paradiso in terra. Questa epoca del paradiso terrestre è nota come l’Età dell’Oro, e in indù Krita yuga.
Secondo la forme indù di questa dottrina, ogni ciclo cosmico più ridotto che concerne soltanto una umanità particolare si compone di quattro yuga, il primo corrispondente a ciò che i Greci chiamavano l’Età dell’Oro (il Krita yuga delle scritture indù) e l’ultimo costituente l’Età del Ferro (Kali yuga), la cui fine segna anche la conclusione del presente ciclo terrestre. In un solo ciclo diviso secondo la Tetraktys – vale a dire, secondo la proporzione 4, 3, 2, 1 –, essendo l’Età dell’Oro la più lunga e l’Età del Ferro la più breve, il processo del divenire – o ciò che noi interpretiamo come lo scorrere del tempo – è molto lento all’inizio e accelera via via che il ciclo progredisce di modo che il tempo, lungi dall’essere lineare e uniforme, conosce esso stesso delle modificazioni qualitative durante i diversi yuga
Numerosi Maestri, quali René Guénon, Julius Evola, Arturo Reghini, ci hanno indicato senza dubbi che viviamo nell’ultima Età, quella del Ferro, l’oscuro Kali yuga, anzi che siamo nelle sue ultime fasi. Il mondo moderno ha messo esclusivamente l’accento sul corpo, sulla materialismo, sul consumo, sulla linearità del tempo, sulla confusione e il disordine. Questo stadio di vita, com’è sotto gli occhi di tutti, rappresenta un diffuso stato di coscienza dell’umanità attuale.
Qui bisogna essere molto chiari per quanto sgradevoli. Non ci sono dubbi che l’umanità sia una e una sola, con gli stessi problemi esistenziali e la stessa meta. Ma quanti pretendono di «operare per il bene e il progresso dell’umanità», devono rendersi conto che, se prima non ci trasformeremo, non potremo avere una migliore umanità. Se non si hanno già le bisacce piene, cosa potremo dare alla società? Se invece di proiettare il bene e il progresso, lo compissimo entro di noi, il mondo esterno non potrebbe non cambiare, ma soprattutto non dovremmo attendere con l’orologio in mano l’Età dell’Oro, perché essa sarebbe già nei nostri cuori.
Oltre al piano cosmologico e metastorico, un’altra trasposizione della Tetraktis è di tipo socio-antropologico e la effettua Platone nella sua Repubblica. Qui si parla di prole d’oro, prole d’argento, prole di bronzo e prole di ferro, riferendosi all’ordine sociale ideale. Sono elementi che possono anche essere mescolati tra loro e non sono ereditati dall’ambiente o dai genitori, ma sono inerenti allo stato coscienziale, alla particolare natura, qualificazione o predisposizione naturale individuale. In quello che è chiamato un «mito fenicio», Platone narra che, per quanto tra i cittadini viga la fratellanza, chi è d’oro, dovrebbe essere governante (il filosofo), chi d’argento guardiano, chi di bronzo e ferro lavoratore, artigiano e agricoltore.
È evidente la corrispondenza col sistema indù del Chāturvarṇa, le quattro caste tradizionali, cioè brāhmaṇa, kṣatriya (o rajanya), vaiśya e śūdra, vale a dire sacerdoti, guerrieri (o principi), creatori di ricchezza e lavoratori manuali. Nel Ṛgveda, il più antico dei Veda, l’origine dei varṇa o caste è considerata come lo smembramento del Puruṣa, la forza cosmogonica primordiale che abbraccia tutta la terra, il complemento passivo del principio creatore attivo della Prakriti: «la sua [del Puruṣa] bocca diventò il brahmano, le sue braccia si trasformarono nel rajanya, le sue cosce nel vaiśya, dai suoi piedi nacque lo  śūdra» (Ṛgveda X, 90, 12). 
Sia quello platonico sia quello vedico sono quattro ideali tipi di temperamento fra gli uomini con corrispondenti funzioni sociali che risultano in una quadruplice divisione dell’umanità in seno a una composita vita sociale.
Nella Tradizione occidentale, la Tetraktys come struttura archetipica trova anche il suo riflesso e la sua incarnazione nelle forme di governo: al primo posto abbiamo l’aristocrazia, nel suo senso etimologico (e non storico) di «governo dei migliori», i filosofi; al secondo la timocrazia, ovvero governo dell’onore (dal greco timé); i filosofi sono sostituiti dai guardiani, che danno vita a uno stato di tipo militare; al terzo posto si ha una costituzione di tipo oligarchico, che Platone chiama anche plutocrazia, ovvero governo basato sulle ricchezze (dal greco ploùtos); ai guardiani si sostituiscono uomini amanti del commercio e del lusso; all’ultimo posto si ha la democrazia, che rovescia il governo dei pochi ricchi con quello dei molti poveri; è la situazione più lontana dal governo filosofico, dove ogni componente assolve una sua funzione ben precisa che offre alla persona e allo Stato benessere e armonia; malgrado le parole giustizia, libertà, bene comune, ecc. siano sulla bocca di tutti, esse restano solo suoni vuoti; l’eccesso della democrazia è ben presto destinato a sfociare nel suo opposto, la tirannide.
Si sarà ormai compreso che nel pensiero pitagorico la Tetraktys giunse a rappresentare un paradigma inclusivo del modello quadruplice, un modello cioè che comprende in sé quello che soggiace a classi diverse di fenomeni, come esemplificato da Teone di Smirne e da altri Pitagorici e come abbiamo avuto modo di vedere con alcuni esempi. Non solo alla base di ogni classe vi è modello quadripartito, che mostra quattro direzioni energetiche, che coordinate e integrate conducono a un ordine armonico, ma, come vedremo, ogni livello è in un certo modo analogo o proporzionatamente simile allo stesso livello in ogni altra classe di fenomeni. Sotto molti aspetti la filosofia Pitagorica è una filosofia dell’analogia.
In effetti, si potrebbe sostenere che il paradigma della quaternità possegga un valore più grande di quello di tipologie più arbitrarie in quanto, basandosi sui princìpi di ordine naturale, il modello «pitagorico» è più intrinsecamente in comune con i fenomeni che cerca di classificare rispetto ad altre tipologie che sono di invenzione meramente umana. Come si può comprendere, non sono dunque immeritate le qualifiche di sacra e di divina concessa alla Tetraktys!
Mentre altri modelli qualche volta falliscono, il simbolismo cosmologico pitagorico sembra particolarmente adatto a dimostrare come le parti si riferiscano a un insieme più ampio, illustrando in tal modo il principio di unità che sta a fondamento della diversità.
Si sarà, spero, compreso, attraverso questi cenni sulla Tetraktys, la raffinatezza del pensiero simbolico-speculativo del Pitagorismo che attinge a un patrimonio induttivo-intuitivo e analogico che è ben altro che il pensiero pre-scientifico e sciamanico o al più proto-scientifico che alcuni hanno voluto attribuire al Pitagorismo, quasi sempre con intento denigratorio. Si tratta peraltro di un’idea assolutamente ingannevole e basata non su fatti ma sull’impressione che tutto ciò che è spirituale debba essere più antico – e quindi più rozzo e primitivo nella sua accezione negativa – di ciò che è scientifico. La natura erronea di questo approccio dualistico alla metafisica non richiede spiegazioni dettagliate, dal momento che è sotto gli occhi di tutti il declino dell’Occidente (kali yuga) che ha la sua causa remota nell’incapacità di capire che cosa sia e che cosa significhi la metafisica. 
In un lontano numero di Hiram dell’agosto 1980 si può leggere un interessante articolo di Ugo Poli, teosofo e massone milanese, che si riallaccia a questo paradigma di simbolica speculativa:

«La realizzazione iniziatica consiste in uno sviluppo coscienziale tale da ripristinare lo stato d’essere, il livello spirituale primordiale che era patrimonio dell’umanità durante la prima fase del ciclo, cioè nell’età dell’Oro, secondo la denominazione della tradizione greco-latina. Ma come questa perdita è avvenuta gradualmente e in fasi successive, così il ricupero dovrà avvenire per gradi, percorrendo in senso inverso le stesse fasi fino a raggiungere lo stato iniziale. In altre parole, per restaurare in noi lo stato primordiale dobbiamo, in un certo senso, ripercorrere a ritroso, con la nostra coscienza, la strada compiuta dall’uomo, partendo dall’attuale età del Ferro, passare per l’età del Rame prima, poi per quella dell’Argento, per giungere, infine, all’età dell’Oro.
Partendo da questo assunto, è possibile ricercare nel simbolismo muratorio le indicazioni per la realizzazione dell’operazione interiore di risalita allo stato iniziale, cioè principiale. Si tratta di trasferire, analogicamente, quanto avviene a livello macrocosmico, cioè del mondo; a livello del microcosmo, e cioè dell’uomo.
Ogni ciclo revolutivo passa attraverso le quattro fasi e, mediante l’analogia, è possibile determinare una corrispondenza tra le quattro età dei cicli dell’umanità e le quattro stagioni dei cicli annuali della natura terrestre, il luogo dove vive l’umanità. Così si può far corrispondere l’Età dell’Oro alla Primavera, quella dell’Argento all’Estate, quella del Rame all’Autunno e l’ultima, l’Età del Ferro, all’Inverno.
Il cammino iniziatico a ritroso deve perciò partire, simbolicamente, dall’Inverno, che corrisponde nella fascia zodiacale, sempre procedendo a ritroso, ai segni dei Pesci, Acquario, Capricorno, per passare all’Autunno, segni del Sagittario, Scorpione, Bilancia, all’Estate con Vergine, Leone, Cancro, ed infine alla Primavera con Gemelli, Toro e Ariete.»

Possiamo ancora fare ricorso al simbolo della Tetraktys, perché in un certo modo Essa è come la Regina di tutti i simboli, le analogie e le equivalenze. 
A partire dalla sua forma triangolare, occorre ricordare che il triangolo col vertice in alto è il simbolo del Fuoco che ricorda la fiamma protesa verso l’alto e che termina a punta, alludendo al suo moto ascendente e di crescita, verticale e conquistatore. Anche il Tempio o meglio ogni Tempio (anche Chiesa, Moschea e Pagoda) indirizza le energie terrene all’unità celeste. La sua struttura inferiore, che offre lo spazio a chi prega e chiede, è confacente alla legge della quaternità e del tutto conforme al terreno della fisicità, in alto, però, tutto si orienta verso il punto dell’unità. La meta di ogni Tempio è quella di avvicinare ogni suo inquilino alla coscienza dell’unità e alla chiave di volta del celeste.
Come ormai sappiamo, a ogni livello della Tetraktys corrisponde uno dei quattro elementi, i principi cosmogonici identificati secondo i filosofi della natura presocratici – intendiamo i 4 Elementi tradizionali: Fuoco, Aria, Acqua, Terra – e la stessa, complessivamente, rappresenta l’intero sistema dell’universo; infine può rappresentare separatamente i quattro principi di essenza, generazione, emanazione, creazione e denotare, concordemente, il Grande Demiurgo dell’Universo. 
La Tetraktys infatti può anche essere letta come i quattro gradini esoterici della scala dell’elevazione spirituale dell’Uomo.
Possiamo vederla in questa tabella in senso discendente:


Così come nell’Antichità lo Stato e i Sapienti miravano alla formazione del kalòs kagathós che praticava il «conosci te stesso» e il «nulla di troppo» ed era geometrizzato, internamente equilibrato, «tetragono» come scrive Simonide e ricorda Platone, la metafora della libera muratoria è quella della pietra cubica. L’immagine metaforica dell’uomo tetragono di Simonide è con buona probabilità derivata dai Pitagorici. La pietra quadrata, stabile in ogni suo lato che in qualsiasi scuotimento non cade, sempre uguale da qualunque lato la si metta, salda nella fortuna e nella disgrazia.
In senso contrario, ossia ascendente, si tratta delle stesse prove e della stessa sequenza a cui si veniva sottoposti in molte delle iniziazioni antiche e ancora e tuttora nell’iniziazione muratoria. Nella tabella formuliamo alcune equivalenze analogiche (alcune delle quali potrebbero essere scambiate con altre).

«Il viaggio di mille miglia s’inizia con un passo solo» osservò Lao-Tzu.
Si tratta naturalmente di semplici accenni alle indicazioni operative del compimento della realizzazione iniziatica. 
La Tetraktys ce lo indica in modo strutturale attraverso i numeri e le forme. In questo senso c’è una frase di Plutarco che riassume in maniera perfetta il modo in cui l’Intelligenza demiurgica, il Divino Architetto, opera, riferendoci che Platone affermava che «Dio geometrizza sempre», volendo significare che punto, linea, superficie, struttura tridimensionale, in quanto enti intelligibili, combinati e mescolati con la materia sensibile danno origine a tutti gli enti sensibili, imbrigliando la materia di per sé caotica.
Secondo l’Epinomide di Platone – ma molti altri suoi dialoghi sono permeati di concezioni pitagoriche –, l’importanza del numero è talmente grande da costituire una necessità che permette al genere umano di comprendere la bontà e l’armonia. Si tramanda che sulla porta della sua Accademia Platone aveva posto la scritta «Non entri chi non è geometra». Nel Gorgia per bocca di Socrate, l’uomo è invitato a non trascurare la geometria, perché solo ciò che è sostanziato di ordine e armonia può produrre il bene, la giustizia e la temperanza che sono modelli per la vita morale e sociale, che deve avere una dimensione cosmica, ricordando che cosmo significa ordine. 
Se, come ci spiega il Cusano nel De mente, la stessa mens è mensura, mente divina e mente umana misurano e quantificano secondo i numeri con un comune processo gnoseologico e dunque, in maniera innata, la mente dell’uomo riconosce il processo dell’explicatio (ossia della creazione) per via numerale come un’immagine nello specchio si moltiplica. 
In genere per ricomporre questo specchio ci si avvale di rituali e di tecniche che procedono all’imitazione dell’archetipo, all’abolizione del tempo profano, alla ripetizione di gesti paradigmatici e pieni di significato, in grado di far passare dalla condizione profana a un’esistenza nuova, dalla disintegrazione della complessità all’attualizzazione entro la partecipante coscienza della Prima Fonte.
La Tradizione non fa altro che indicare una soluzione a questa scissura o «caduta» (termine usato dalle religioni, inclusa quella cristiana) e insegna all’individuo irrequieto e conflittuale come «riunire ciò che è sparso», come trovare la via del ritorno all’unità, come ridare le ali all’anima caduta nella generazione e farla ritornare nella sua vera patria, per usare una terminologia che è orfica, pitagorica e platonica. Tutta la simbologia tradizionale, che ha una sua meravigliosa rappresentazione nella Tetraktys, riguarda questo processo di scissura e la sua conseguente ricomposizione, che significa liberazione e realizzazione o vera Iniziazione. Tale è la simbologia del mito di Iside e Osiride nell’Antico Egitto e quella dell’Orfismo e dei Misteri dionisiaci in Grecia. Tutti rappresentano lo «smembramento» dell’Uno nei molti. 
Il più importante significato della Tetraktys scaturisce nella seconda parte del giuramento pitagorico, in cui è descritta come «la radice e la fonte della Natura che sempre scorre». Non vi sono migliori parole per esprimere quella che va considerata come l’autentica e genuina concezione pitagorica del processo col quale l’Uno discende nel mondo manifestato. La Tetraktys non è, così, solo un simbolo dei rapporti statici che collegano le diverse parti del cosmo, ma contiene anche tutti i movimenti cosmologici della vita, emanando dall’originaria Unità l’armonizzata struttura del Tutto. È una fonte di vita perenne. «[Pitagora] diceva che la natura del numero è la decade; infatti tutti, Greci e Barbari, contano fino al dieci e, qui giunti, di nuovo ritornano all’uno».
Vorrei attirare l’attenzione sulla parola «ritornano» (anapodóo), 
Così come tutta la natura delle cose, tutte le proprietà essenziali della Physis sono contenute nella Tetraktys, allo stesso modo nella «fonte della perenne natura» è contenuto il periodico moto della vita. Dall’unità originaria del numero 1, l’Essere si divide e si differenzia secondo uno schema armonico, che si conclude col numero 10, nuova unità da cui può ricominciare il processo, in un ciclo senza fine. Ciò che il giuramento pitagorico insegna è, pertanto, che Physis è un ciclo senza inizio né fine di generazione e ricomposizione dell’unità perduta, in cui gli esseri viventi vengono a trovarsi nel mezzo, intrappolati fra le parvenze della molteplicità, che li spingono a ritenersi irrimediabilmente separati dall’Uno. Questo stato è tuttavia una mera opinione: la verità è che non esiste separazione che non venga ricomposta, e che anzi la separazione stessa nella molteplicità fa parte dell’Essere. Nella Tetraktys è quindi incarnata la fondamentale rappresentazione della palingenesi. Non ci sono dubbi che Pitagora ereditò la musica di Orfeo così come la dottrina dionisiaca della reincarnazione. Dai Misteri Orfici Pitagora tramise anche la dottrina della caduta dell’anima dal suo primigenio perfetto stato di unione col divino, la sua degradazione nell’oscurità del mondo delle ombre fenomenico e la sua finale purificazione col ritorno alla pace e all’unità.
In Occidente abbiamo quindi una tradizione misterica, venuta alla luce con Pitagora, proseguita con Parmenide, Platone, Plotino, ecc., rinata nel Rinascimento con Giorgio Gemisto Pletone, Bessarione, Nicola Cusano, Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Giordano Bruno, ecc., e nomi meno noti quali l’alessandrino Alessandro Farra (ca. 1540-ca. 1577, per la precisione nativo di Castellazzo), un neoplatonico poco conosciuto, nel suo Settenario dell’humana riduttione (1571) in cui illustra, con grande attenzione alla numerologia, le tappe che l’uomo deve percorrere per raggiungere la beatitudine divina, descrive in modo affascinante il primo solido: 

«La forma di questo mondo ideale secondo Pitagora, è a guisa di piramide tetragona; percioche considerando sopra la Tetracti intelligibile la soprema unità di sopra ricordata, la quale co’l suo infinito splendore la cuopre, & illumina, uiene a farsi una piramide, la cui base è il quaternario piano detto alloggiamento de gli eterni Iddij, il cui tetto è Vnità, le cui mura sono Trinità, & la cui superficie è Tetracti, in figura di piramide, figura apropriata al fuoco, come scrive Timeo locro Pitagoreo nel libro dell’Anima»

Tradizione resa purtroppo completamente profana dai vari interpreti saggisti, sofisti e filosofi dianoetici (quelli che parlano di filosofia ma non la vivono), per cui i pochi che la professano seriamente, nel modo di vivere e di essere, sono restii dall’uscire allo scoperto. La Filosofia dell’Essere, infatti, è teoria e prassi, Verità e disciplina.
In breve, la Tradizione è una simbologia degli antichi Sacri Misteri Occidentali e Orientali (specie quelli vedici-upanishadici). La morte e la rinascita iniziatica, di cui, per esempio, la Massoneria conserva in Occidente le vestigia, rappresentano un profondo e ammirevole simbolo. Occorre morire a ciò che non si è e rinascere a ciò che si è.
Abbiamo ormai veduto come la Tetraktys possa essere applicata come base generale per dare sistematicamente risposte alla questione degli enti e come il suo schema possa essere utilizzato anche per tracciare la trama e illustrare tutti gli elementi costitutivi, fasi e singole procedure del processo di determinazione ontologico.
La Tetraktys esprime le meraviglie della nostra trasformazione, una prodigiosa possibilità che ci è offerta dalla Tradizione.
La Tetraktys ci vuol dire che «morire è bello»: lo spegnersi al solido, l’evaporare al liquido e lo svanire all’areiforme è consono a chi si è posto il problema del ritorno all’Uno. «Morire a se stessi» non vuol dire distruggere qualcosa (il che sarebbe anche antiscientifico: nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma), ma significa comprendere la sintesi. Ogni volta che si verifica un’integrale ed effettiva comprensione, si produce nell’essere un passo decisivo verso la fonte, la rinascita di qualcosa, in breve un’iniziazione. Poiché l’Uno, l’Archetipo, contiene in sé tutte le possibili virtualità che si dispiegano nel tempo e nello spazio, da esse è possibile ritornare all’Uno. Ciò allo stesso modo in cui colui che sogna nel sogno proietta un’indefinita varietà di forme, al risveglio esse si riassorbono nella mente. Ma perché questo si verifichi, occorre risvegliarsi. 
Solo risvegliati cogliamo il frutto della conoscenza sintetica e intuitiva e comprendiamo che tutti gli enti sono aspetti formali fatti a immagine del Principio e della sua essenza; la forma varia nella quantità, ma non varia la loro qualità. Tutte le linee, piani e volumi sono fatti a immagine del punto. L’Uno contiene in se le potenzialità della diversità così come la mente una contiene in sé la possibilità di manifestare molteplici modi di espressione, senza comunque annullare la sua natura. 
Per annullare le nostre limitazioni mentali, occorre innanzitutto «alimentare una conoscenza più sottile». Come viene detto nel Rituale massonico d’ammissione al Grado di Compagno (senza dubbio il più pitagorico dei tre gradi) va aggiunta «alla Forza dell’Intelletto … la Bellezza dell’Immaginazione perché possa suscitarsi … l’Intuizione che trascende il Raziocinio». In altre parole al pensiero razionale, analitico, va aggiunto il pensiero intuitivo, sintetico, per giungere alla Sapienza della visione.
Per farmi capire come vi siano modalità di conoscenza diverse, mi avvalgo di un esempio che un Maestro vivente ha compiuto con un suo «tirocinante realizzativo», che è il seguente:

«Abbiamo di fronte un cubo, un tetraedro e un parallelepipedo; come vedi sono fatti di cartone e rappresentano tre forme-volumi di un’unica sostanza che è appunto il cartone. A seconda della prospettiva dalla quale ci poniamo possiamo avere due punti di vista: l’uno è quello di osservare esclusivamente la forma tetraedro, cubo, ecc., l’altro è quello che osserva la sostanza unica inerente al cartone. Chi vede solo tetraedri, cubi e parallelepipedi si pone dal punto di vista empirico; chi, invece, vede la sostanza si pone dalla prospettiva intuitiva sintetica. Il primo si esprime in termini di molteplicità e di quantità, il secondo in termini di sintesi e di unità. Sono, d’altra parte, due modi di vedere le cose, due atteggiamenti o accostamenti verso la Verità. Diciamo conoscenza intuitiva perché all’occhio sensoriale, che vede solo volumi e forme, la verità entrostante, esprimente l’unità della sostanza-essenza, sfugge; quindi tale verità è frutto di un intuire, non di un percepire-vedere sensorialmente.» (Raphael, Tat tvam asi; Tu sei quello; La Via del Fuoco secondo l’Asparśavāda, Edizioni Āśram Vidyā, Roma, 20013, pp. 43-44)

Ci sono passi della Upaniṣad che dichiarano come

«da un solo pezzo di argilla risulta conosciuto tutto ciò che è fatto di argilla, mentre ogni sua modificazione non è altro che mera denominazione di nome, per cui la sola realtà è l'argilla» (Chāndogya Upaniṣad, VI, I, 4 in Upaniṣad / a cura di Raphael, Bompiani Testi a fronte, Milano, 2010, p. 487)

Ma questo ci fa solo scoprire che la molteplicità della manifestazione formale ha come causa una sola matrice. La grande opera è impresa ben più ardua di una semplice comprensione. Quello che appare scompaginato nella manifestazione fisica, ossia tutto il mondo sensibile che si squaderna mediante la Tetractys nell’universo, con un processo inverso, a chi si accinga alla visione suprema, si interna, relegato, nella profonda e pura interiorità dell’Essere senza secondo, l’Uno. Questo perché, per adoperare ancora il linguaggio del sommo poeta, il fedele d’Amore,

«La contingenza, che fuor del quaderno 
Della vostra matera non si stende 
Tutta è dipinta nel cospetto eterno.» (Dante, Paradiso XVII, 37-39)

L’azione di ascesa è dunque in stretto rapporto con l’analogia numerale al punto che Filolao e i Pitagorici, come riportato da Luciano, chiamavano la Tetraktys «principio di salute».
La nostra conversazione è partita con l’esergo riportante il giuramento sulla Tetraktys. Nei già citati Versi aurei è espressamente menzionato il carattere trasmutatorio del giuramento:

«Lavora duramente su queste cose, queste medita, queste devi con ardore desiderare,
queste ti guideranno sulle orme della virtù divina.
Sì, per colui che impartì alla nostra anima la Tetraktys,
fonte della perenne natura. Accingiti all’opera 
e prega gli dei di garantirne la realizzazione. Se in queste cose avrai la maestria,
conoscerai degli dei immortali e degli uomini mortali
l’essenza e come ogni cosa essa pervade e come ogni cosa dirige.
Giungerai a conoscere per quanto è possibile la natura in ogni cosa a se stessa eguale,
così né tu spererai ciò che non è da sperare né alcuna cosa ti resterà ignota.» (Versi Aurei, vv. 45-53)

Concludo quindi con l’augurio che tutti possano ritornare all’Uno, seguendo il sentiero più adatto alle loro esigenze:

«Cerca il canale dell’anima: da dove o da quale rango (viene), 
quando avrai prestato la servitù al corpo è verso il rango da cui sei scivolato 
che di nuovo salirai, alla parola sacra avendo congiunto l’opera.» (Oracoli caldaici, fr. 110 (Des Places) = Giorgio Gemisto Pletone, Oracoli magici dei magi della Tradizione di Zoroastro, vv. 1-3)


«Ho trovato la lunga, stretta e antica via e l’ho percorsa. 
Tramite essa i saggi conoscitori del Brahman da questo mondo 
raggiungono il mondo celeste allorché sono liberati.» (Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad, IV, IV, 8 in Upaniṣad / a cura di Raphael cit., p. 195)