sabato 20 agosto 2016

UN DIBATTITO FRANCO? CONTRO LE FALLACIE DEL FRONTE PROIBIZIONISTA


UN DIBATTITO FRANCO?
Contro le fallacie del fronte proibizionista

A questo illuminismo non occorre altro che la libertà; e precisamente la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione, in tutti i campi. Ma da tutte le parti odo gridare: non ragionate! L’ufficiale dice: non ragionate, fate invece esercitazioni militari! L’intendente di finanza: non ragionate, pagate! Il prete: non ragionate, credete!
(Immanuel Kant, Risposta alla domanda:
che cos’è l’Illuminismo, 1783)


Avevo promesso di offrire qualche esempio pratico di “fallacie logiche” per mostrare quanto esse siano presenti in quello che, nel nostro disastrato Paese, continua ad essere pomposamente chiamato dibattito politico. Diciamo subito (per sintetizzare in modo efficace ciò che ho già lungamente illustrato) che le fallacie logiche equivalgono, in un ragionamento, a quelli che sono i falli in una partita di calcio
Ho scelto la notizia diramata dall’Agenzia DIRE sulla conferenza stampa delle comunità terapeutiche avvenuta negli ultimi giorni di luglio. La si può leggere al seguente link: http://www.dire.it/26-07-2016/67580-cannabis-asociazioni-del-no-con-la-legalizzazione-1-milione-di-zombie/http://www.dire.it/26-07-2016/67580-cannabis-asociazioni-del-no-con-la-legalizzazione-1-milione-di-zombie/
L’articolo a firma di Antonio Bravetti, giornalista professionista, riporta diverse dichiarazioni virgolettate: quindi è un po’ difficile che abbia letto male. 
La conferenza indetta contro la proposta lanciata da un intergruppo parlamentare per la legalizzazione della cannabis e dei suoi derivati è un bell’esempio di un concentrato di combinazioni di fallacie diverse. Normale: i cattivi argomentatori di solito ne usano molte insieme.
Per quanto le comunità di recupero facciano un ottimo lavoro, del tutto stimabile, sorprende quanto realmente dichiarato dai loro rappresentanti che inanella una serie di “fallacie logiche”, ossia modi di argomentare falsi, fuori tema, irrilevanti e non validi. Trattandosi di addetti ai lavori e pertanto non privi di nozioni di psicologia, c’è di che dolersi del fatto che quello che hanno detto in questa occasione non sia per nulla all’altezza di ciò che fanno quotidianamente e in modo benemerito.
Vediamo una per una le fallacie argomentative presenti nelle loro dichiarazioni riportate in corsivo. Essendo studiate fin dall’Antichità come ho in precedenza spiegato, quasi tutte hanno conservato il vecchio nome latino.

 “Liberalizzate le canne e avremo un milione di giovani zombie, incapaci di distinguere i contorni della realtà, con i tempi di reazione alterati, con la percezione distorta della realtà e degli affetti”.

Questa fallacia è nota con la locuzione latina argumentum ad consequentiam. Consiste nell’utilizzare uno schema argomentativo (causale) inadeguato che conduce a rigettare un punto di vista descrittivo in ragione delle sue conseguenze indesiderabili.
Il “punto di vista descrittivo”, evidentemente manipolatorio, è dove si parla di “liberalizzazione” e non di “legalizzazione” di una sostanza che si trova in ogni dove e viene consumata, più o meno abitualmente, da almeno quattro milioni di persone nel nostro Paese. In buona sostanza il mercato criminale di massa, illegale, non è mai stato stoppato e pertanto il milione di “giovani zombi” paventato da Meluzzi circola già da decenni nel nostro Paese. Sarebbe dunque il caso di essere risparmiati dalle visioni alla Romero e di restare a contatto con la realtà.


L’intento è quello quindi di dissuadere da una seria analisi: invece di presentare ragioni contrarie a una determinata azione, le premesse come le conseguenze offrono un pretesto per non discuterne affatto ed evitare di affrontare i punti critici della questione.
Il fulcro della questione infatti sarebbe, in questo caso di tipo quantitativo, discutere le conseguenze della legalizzazione che può avere logicamente solo tre effetti: il numero dei consumatori diminuirà o aumenterà o resterà stabile.
Poiché ogni parte di questo ragionamento (se A allora B) non è garantito da nulla e abbiamo dimostrato l’invalidità della premessa A e anche della conseguenza B sotto il profilo quantitativo concentriamoci sugli aspetti qualitativi-descrittivi. Ci troviamo di fronte a un’altra fallacia di pertinenza chiamata “della brutta china” (o “fallacia della china scivolosa” o in altri modi similari quali, ad esempio, “del piano inclinato”, “della china pericolosa”,del pendio scivoloso” che traducono l’espressione inglese slippery slope argument). È quella in cui si trae una conseguenza presentata come inevitabile, inarrestabile e disastrosa ma, in realtà, del tutto arbitraria: le frasi chiave potrebbero essere “gli dai un dito si prendono un braccio” oppure “di questo passo dove andremo a finire”. Possono esprimere saggezza e buon senso popolare, ma anche al tempo stesso un rifiuto immotivato ad articolare razionalmente le proprie scelte morali. Ci si basa infatti su una predizione che deve essere supportata dai fatti o su evidenze empiriche con significative probabilità per essere considerata rilevante.
In questo modo si giunge a una conclusione finale inaccettabile con la quale si intende rigettare come altrettanto irricevibile la tesi di partenza. Si tratta di uno strumento retorico, molto utilizzato dai politici conservatori e dai moralisti a buon mercato, inteso a creare falsi allarmi sociali ogni qualvolta si tratta di polemizzare con qualche innovazione da essi ritenuta inaccettabile. È stato molto utilizzato in occasione dell’introduzione del divorzio e dell’aborto ed è tuttora utilizzato quando si parla, per esempio, di eutanasia o di sperimentazione sulle cellule staminali e fecondazione assistita (in quest’ultimo caso, invece degli zombi si evoca Frankenstein). L’argomento qui utilizzato somiglia infatti a quello contro l’eutanasia quando si afferma che, se venisse introdotta, i medici potrebbero uccidere chiunque e in particolare disabili, invalidi e anziani, che i familiari sarebbero spinti a sbarazzarsi dei congiunti vecchi e ammalati e che gli infermi sarebbero spinti a chiedere la morte per non spendere in medicine e cure: se A allora B e poi C, fino a giungere alla “china scivolosa” dei campi di sterminio; assomiglia ancora a quello delle staminali e della fecondazione assistita che porterebbero a forme di clonazione riproduttiva per ragioni eugenetiche non diverse da quelle sognate da Hitler. Ovviamente laddove l’eutanasia è permessa o dove la cannabis è legalizzata non accade nulla di quanto si paventa con una buona dose di determinismo (del futuro) catastrofico e orribile. Ma ai cattivi politici fa comodo che la gente lo pensi. Insomma, una buona fallacia per questioni etiche e bioetiche con accuse infamanti che sarebbe bene smascherare decisamente e sulle quali non perdere tempo.
E comunque questa fallacia è particolarmente “squisita” sotto il profilo dell’errore argomentativo. Infatti non è solo una “fallacia di pertinenza o di rilevanza” (sono dette così perché manca un nesso logico tra la premessa e la conclusione che si intende sostenere, sono cioè “irrilevanti”). L’argomento della china scivolosa implica quasi sempre anche un altro tipo di fallacia, quella che fa appello alle emozioni e ai sentimenti. Abbiamo qui infatti quello che viene definito argumentum ad metum o argumentum in terrorem, l’appello alla paura, una variante dell’argomento ad consequentiam, al quale spesso si sovrappone.
Consiste nell’evocare conseguenze terrificanti o comunque negative per far accettare all’interlocutore la propria opinione o per influenzare il suo comportamento nella direzione sostenuta, attraverso la paura e il pregiudizio. Fa appello alle parti più irrazionali delle persone e circonda di un alone di paura molte delle discussioni popolari sulle più varie questioni. È dunque un ottimo strumento di persuasione usato molto spesso in politica per diffondere allarme sociale. Il problema connesso all’impiego di questo argomento è che scatenare la paura induce i destinatari dell’appello a saltare istintivamente alle conclusioni invece di guardare realisticamente ai fattori coinvolti in una decisione: la paura, offuscando la lucidità mentale, annebbia il comportamento razionale e il calcolo delle probabilità. Proprio per questo il suo impiego può implicare oltre a riflessioni logico-argomentative anche una valutazione morale (e, talvolta, addirittura legale se concorre in reati come la truffa) data la sua finalità di compromettere la comprensione di un problema. Occorre, di nuovo, opporsi a questo genere di appelli in quanto, con intenti se non truffaldini certamente manipolatori, spostano l’attenzione dagli argomenti. Anche quando l’appello alla paura fosse legittimo, è ragionevole bilanciarlo con reali prove o serie ragioni che mostrino chiaramente quanto asserito.


“La cannabis è dannosa e la legalizzazione non funziona: laddove è stata legalizzata la prostituzione c’è stato un aumento della domanda che non ha ridotto il mercato nero. Abbiamo visto che anche i terroristi di queste ultime settimane erano sotto effetto di stupefacenti”.

Eccezionale! Qui abbiamo una bella sfumatura del famoso argumentum ad hominem. Non si discutono le argomentazioni di chi propone la legalizzazione, ma si associa indebitamente il consumo della cannabis prima alla prostituzione e poi al terrorismo. L’irrilevanza di questi argomenti è facilmente dimostrabile: è altamente probabile che “i terroristi di queste ultime settimane” fossero lettori del Corano, bisogna dunque proibire questo libro? Chi avanza argomentazioni di questo genere, cerca di ottenere il consenso sulla propria posizione screditando la proposta rappresentandola innanzitutto come inutile e immorale e poi pericolosa per la nostra incolumità (associare il consumo della cannabis al terrorismo – lo dice la parola stessa – è di nuovo un argumentum in terrorem). Anche in questo caso, anziché criticare e confutare una tesi su di un piano logico-razionale, si attacca chi l’ha proposta attribuendogli inesistenti “colpe per associazione” con una forte carica emotiva e retorica. Si tratta di un vecchio arnese retorico, molto ben indagato per sviare dalla sostanza dell’argomento: una tattica oratoria efficacemente e ironicamente chiamata reductio ad Hitlerum. Con questa argomentazione fallace può essere considerato non etico, o comunque condannabile o deprecabile, dipingere, amare i cani o essere vegetariani, tutte attività e inclinazioni in cui era coinvolto il dittatore nazista.
Risulta lampante che argomentazioni di questo tipo sono un disperato tentativo di sostenere la propria posizione in mancanza di argomenti validi. Tuttavia se si riflette bene ci si accorge, ancora una volta, che chi gioca questa carta non ha come reale destinatario di questa fallacia la controparte della discussione, ma una terza parte, l’uditorio o i lettori (a nessuno dei quali piace essere associato ai clienti delle prostitute o ai terroristi). L’intento è quello di demonizzare gli avversari associandoli con il male e di far così deragliare qualsiasi corretta discussione.



“Con il disastro in cui versa l’Italia, con le minacce che incombono sull’Europa, il flagello dell’immigrazione incontrollata, l’assedio alla cultura cristiana, è possibile che la politica senta come grande emergenza la legalizzazione delle canne? Se un extraterrestre si affacciasse ora sulla Terra resterebbe inorridito. Credo che serva un rigurgito di saggezza contro questa deriva folle”.

E i due marò? Ce li vogliamo dimenticare?
Qui sopra abbiamo l’esempio di una delle più note fallacie: l’ignoratio elenchi (la sua traduzione approssimativa è “ignorare la questione”), forse la più nota mossa scorretta nel gioco dell’argomentazione, la più grave violazione delle sue regole: proporre questioni senza alcun rapporto col tema della discussione. Questa tecnica nasconde bene il mancato utilizzo del modo adeguato di argomentare che consiste invece nel citare dei fatti concreti che dimostrino il torto della tesi avversaria. L’importante è andare fuori tema ed è perfetta per la distrazione di massa. Si ignora bellamente la questione in argomento ed è abitudine per chi se ne avvale di accompagnare la mancanza di confutazione della tesi con una bella manciata di sdegno e di insulti quanto basta, senza che i giudizi su altre questioni non pertinenti (“il disastro in cui versa l’Italia, con le minacce che incombono sull’Europa, il flagello dell’immigrazione incontrollata, l’assedio alla cultura cristiana”) siano supportati dalla benché minima dimostrazione, pur potendo in sé anche essere validi. Nel caso qui esaminato (ma valido per tutte le fallacie di ignoratio elenchi) si giunge a una conclusione irrilevante per l’argomento in corso: in breve le priorità sono altre (concetto ribadito da uno dei due ineffabili ministri presenti alla conferenza). Infatti, oggi si preferisce definire questa fallacia di rilevanza con un neologismo recente: “benaltrismo”. Da tempo invece, nei Paesi di lingua inglese, questo tipo di fallacia volta a confondere e distrarre è chiamata red herring (aringa rossa), perché l’aringa affumicata veniva utilizzata per distogliere dalla traccia i cani dei cacciatori concorrenti sviandoli su false piste.
Nel contesto politico è diffusissima e spesso usata in modo deliberato, è una manovra diversiva per far ignorare e far tralasciare l’argomento, si introduce un disordine concettuale che mescola altre questioni non pertinenti e non correlate all’argomento in oggetto con la funzione di distrarre da esso. Ancora una volta si fa leva su argomenti retorici, populisti e qualunquisti, generici e fondati su luoghi comuni per evitare l’obiettivo di una discussione razionale sul tema in argomento.

“Ci pare schizofrenico che da una parte ci sia la legge sull’omicidio stradale e dall’altra si voglia legalizzare la cannabis”.

Qui abbiamo una fallacia strutturale: la falsa analogia. In un’analogia, due elementi sono presentati come simili per il fatto di avere in comune una qualche proprietà. Ma un’analogia non può avere estensione illimitata e, soprattutto, non può fondarsi sulla condivisione di una sola proprietà. Infatti le analogie in sé non sono né vere né false, presentano tra esse semplicemente diversi gradi, che vanno dalle strette somiglianze alle estreme differenze. Nel caso contrario si parlerebbe d’identità o di diversità.
Nel caso in esame la legge sull’omicidio stradale e la proposta di legge sulla legalizzazione della cannabis hanno in comune l’elemento che in entrambe si parla di sostanze stupefacenti o psicotrope, ma hanno fini e obiettivi diversi. Limitandoci all’elemento comune, come per l’alcol la legalizzazione della cannabis non comporta l’attenuazione delle norme e delle pene previste dal delitto di omicidio stradale, e neppure delle sanzioni previste dal Codice della strada per la guida in stato di alterazione psico-fisica. Perciò tra omicidio stradale e legalizzazione della cannabis non esiste alcuna proprietà significativa in comune come evidenziata nell’argomentazione. In questo caso si dice che è basata su un’analogia troppo debole o difettosa o impropria per poter sostenere il fine prefissato che, qui, è un giudizio negativo sulla legalizzazione.
Le analogie deboli sono quasi sempre un’alternativa retorica alla mancanza di altre prove o evidenze e andrebbero sempre evitate in una corretta discussione politica. In una falsa analogia non è necessario concludere il ragionamento, anzi a fini persuasivi è più utile non farlo. Infatti, ciò che c’è di forte, per così dire, in questo argomento è che si insinua e si suggerisce che con la legalizzazione della cannabis si avrà un aumento degli omicidi stradali: un ennesimo argumentum in terrorem sopra esaminato. La scorretta enfasi posta con la messa in rapporto alla legge sull’omicidio stradale induce chi legge a questo errore: anche questa è un’altra fallacia di ambiguità chiamata “fallacia di enfasi”.
A proposito, dimenticavo … c’è una falsa analogia anche nella dichiarazione sopra riportata dove si equiparano gli effetti della legalizzazione della prostituzione con quelli della legalizzazione della cannabis. Chiedetevi qual è l’elemento in comune per chi ha posto l’analogia. Forse perché si tratta di rendere leciti dei piaceri voluttuari, ovvero, per un moralista, dei “peccati”?


“Il 99% di persone che abbiamo avuto e abbiamo oggi in trattamento [nella comunità di San Patrignano, ndr] hanno avuto il primo contatto con la cannabis. Purtroppo tra i giovani si sta diffondendo l’idea che la cannabis non sia dannosa, il primo danno di questo dibattito è già fatto”.

È da circa trent’anni che sento questo argomento: è un mantra di San Patrignano. Di tutte le argomentazioni fallaci fin qui esaminate a prima vista potrebbe sembrare la più seria perché finalmente, in qualche maniera, si affronta l’argomento. Purtroppo si tratta di un “paralogismo”, ossia un sillogismo, un ragionamento concatenato fallace.
Un sillogismo perfetto funziona così: A implica B (premessa maggiore), B è vero (premessa minore), dunque A è vero. Il classico esempio è: (premessa maggiore) tutti gli uomini sono mortali,  (premessa minore) tutti i greci sono uomini; (conclusione) dunque tutti i greci sono mortali.
Accade purtroppo che se anche le due premesse sono vere, la conclusione non lo è necessariamente. In un paralogismo si dice che tale conclusione è un non sequitur (di nuovo un espressione latina che significa “non ne consegue”).
Nel caso in esame l’affermazione precedente assumerebbe questa forma: il 99% dei tossicodipendenti ha avuto il primo contatto con la cannabis (premessa maggiore); le persone consumano la cannabis ritenendo che non sia dannosa (premessa minore); quindi il 99% delle persone che consumano cannabis diventeranno tossicodipendenti (conseguenza fallace). A onor del vero nella dichiarazione originale (anche qui come già nel caso esaminato della “falsa analogia”) la conseguenza è utilmente nascosta ma è altrettanto subdolamente inserita in quanto intenzionalmente implicita.
Nella figura i due insiemi rappresentano la quantità di consumatori di marijuana (ellisse più grande) e di eroinomani (cerchio più piccolo). La maggioranza dei tossicodipendenti ha consumato anche marijuana, ma, vedendo il grafico, non si può concluderne che i consumatori di cannabis diventeranno in maggioranza (anzi al 99%) eroinomani.


Nel complesso siamo di fronte a un mancato argomentare che pensiamo di aver esplicitato per quanto possibile. Benché la questione della legalizzazione della cannabis possa essere per molti controversa, il modo in cui è stata affrontata non può che generare indignazione. È stato ignorato il modo corretto di ragionare che caratterizza una buona discussione e infranta ogni regola di buona condotta nell’argomentazione. Si resta perciò basiti o meglio stupefatti (per restare in tema) nel leggere, alla fine dell’articolo oggetto della nostra indagine, che la ministra Lorenzin ha osservato: “Spero che questa sia l’occasione per aprire un dibattito aperto e franco…”, seguita dal collega il ministro Costa che ha auspicato: “Credo che non ci debbano essere forzature parlamentari, che ci debba essere un dibattito sereno”. Chi dunque desidera la dissoluzione di qualsiasi corretto confronto politico non può che augurarsi che l’Italia sia governata da ministri simili.
Per concludere, sempre che abbiate ancora la testa tutta intera dopo aver letto questo lungo articolo, occorre stare molto attenti al significato e al senso dei discorsi. Conoscere le fallacie di ragionamento aumenta la probabilità di smascherarle ed evitarle. Ma soprattutto permette di comprendere i motivi per cui un argomento è debole oppure no, valido o no, razionale oppure no
Allenatevi a riconoscerle.
E diffidate dei politicanti e dei loro gregari che ne fanno uso.



martedì 16 agosto 2016

CONTRO LE FALLACIE DELLA COMUNICAZIONE POLITICA

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Sarebbe davvero bello, Agatone se la sapienza fosse in grado di scorrere dal più pieno al più vuoto di noi, quando ci mettiamo in contatto l’uno con l’altro, come l’acqua che scorre nelle coppe attraverso un filo di lana da quella più piena a quella più vuota.
(Platone, Simposio, 175 D)


Sarebbe bello. Ma da molto tempo so che non è così. La sapienza non si trasmette come un fluido. È un’esperienza personale che si può solo vivere e non è possibile travasarla bella e pronta, meccanicamente. Occorre una grande motivazione interiore, lo sforzo individuale e un’inesauribile passione per il dialogo tra persona e persona, l’avvio della comunicazione filosofico-maieutica attraverso il serrato metodo dialettico.
Ma se uno è non “gravido”, vale a dire spiritualmente vuoto? Se non c’è un brandello di onestà né intellettuale né esistenziale, se non si trova un frammento di domanda, se non si scorge una briciola di problematicità, anche nella peggiore distorsione e nella banalizzazione più infima, far emergere dall’anima dell’interlocutore qualcosa di vitale è un’impresa impossibile.
Socrate parla di maieutica (maieutiké significa ostetricia) perché la sua tecnica è un’opera analoga a quella dell’ostetrica. È un metodo che non vuole immettere la verità nell’animo ma intende estrarla: è come un modo per far partorire le menti. Non lancia programmi di redenzione e non pretende di trascinarsi torme di seguaci, perché la conoscenza può solo sgorgare dalla propria anima. La maieutica, attraverso il discorso, si limita ad orientare il pensiero dell’interlocutore verso la verità.
Chi segue quest’arte non ha nessun intento di redenzione, non gli appartiene lo spirito del missionario. Si può esercitare infatti solo con chi è in uno stato di aporía nel quale consiste l’inizio della “gravidanza” intellettuale. Occorre che l’interlocutore che si ha di fronte sia disponibile ad ascoltare un’altra tesi e sia spinto da questa a cercare definizioni sempre più precise dell’argomento in discussione, fino al momento in cui entrerà nell’aporía (che significa letteralmente “strada senza uscita”). A questo punto dichiarerà la sua incompetenza sulla questione e riconoscerà come infondata la sua certezza iniziale. Il riscatto dalla schiavitù mentale è dunque un fatto del tutto personale, e questa fase volta alla liberazione dal falso sapere, dalla convinzione cioè di avere delle verità certe, è una bella cosa perché indica la voglia di sapere: nella perplessità del vicolo cieco è da vedere un compito ed un invito ad approfondire la ricerca, vale a dire che l’aporía è la prima leva del processo conoscitivo. Volendo, se ne può trarre un profitto straordinario e, come spiega Socrate nel Teeteto, “è chiaro che da me non hanno imparato nulla, bensì proprio e solo da se stessi molte cose e belle hanno trovato e generato; ma d’averli aiutati a generare, questo sì, il merito spetta al dio e a me”.
Questa incertezza che coglie l’individuo che si accorge della insufficienza del valore intrinseco della propria opinione, fa sì che per alcuni sia molto difficile affermare il proprio imbarazzo e altrettanto sgradevole confessare la propria ignoranza. L’abitudine a non mollare le proprie convinzioni riprende il sopravvento come se esse non fossero mai state vagliate ed esaminate. La messa in discussione delle proprie iniziali certezze è per loro sempre inquietante per non dire destabilizzante e provoca comprensibilmente ostilità e irritazione. 


Del resto Socrate nell’Apologia paragona se stesso a un tafànoappiccicato dal dio ai fianchi della Città come ai fianchi di un grande cavallo di razza, ma proprio per la sua mole un po’ pigro e bisognoso di venir pungolato”. C’è dunque chi si fa stimolare, rimbrottare e, finalmente, svegliare, ma altri – e sono i più – colpiranno e condanneranno a morte il fastidioso tafàno.
Si sarà compreso che anche io ritengo che la politica sia essenzialmente la virtù di rendere gli altri migliori. E, inoltre, che utilizzo la griglia interpretativa della filosofia antica e di Platone specialmente a causa della sua duttilità e mobilità, non solo per una scelta morale di definire una verità a fondamento del reale ma anche come condizione di senso per la reinterpretazione del presente, essendo innegabilmente una fonte inesauribile per la riflessione, un patrimonio imprescindibile e tuttora attuale che non deve andare perduto. Riconoscendo che, anche nell’attualità, la visione della verità, o comunque un suo avvicinamento, possa fondarsi solo sul dialogo e sulla dialettica, perché non si dà verità se non nell’orizzonte del ricercare e dello spiegare le ragioni pertinenti di ogni autentico dialogo.
Ma se uno è, come si diceva, spiritualmente vuoto, se è amico della protervia e dell’impostura e partorisce aborti, mostri, fantasmi o menzogne, invece di qualcosa di vitale o vero, il dialogo va soppresso oppure il sedicente interlocutore va mantenuto alla distanza di sicurezza indispensabile in quanto dannoso e irresponsabile allo stesso modo in cui scorpioni e serpenti non sono responsabili del veleno che portano con sé.
Socrate, negli ultimi momenti della sua vita, raccomanda a Critone nel Fedone: “Tu sai bene che il parlare scorretto non solo è cosa per sé sconveniente, ma fa male anche alle anime”.
Il “parlare scorretto” o, tecnicamente, la fallacia argomentativa, la manipolazione del discorso, cagiona del male all’anima. Chi ha in odio i ragionamenti, il “misologo”, è il malato più degno di compianto. Chi non possiede la tecnica del ragionare e non si esprime correttamente rinuncia al desiderio di conoscenza. La “misologia” – quasi sempre associata alla misantropia che tutti odia e insulta e denigra e che con tutti ha disaccordi – ben si concilia con lo scontro polemico, recalcitra dal tema in oggetto sottraendosi all’esigenza di mantenere la discussione nei confini di una ricerca condivisa: “Costoro, infatti, quando discutono di qualche cosa, non si preoccupano di sapere come stiano veramente le cose su cui verte la loro discussione, ma desiderano unicamente che ciò che essi affermano essere vero sembri tale anche a quelli che sono presenti” (Platone, Fedone, 91 A).
La malattia dell’anima è l’ignoranza, la forma peggiore di malanno che possa capitare a un uomo. Chi ne è portatore ci turba e va tenuto a debita distanza per restare in salute non lasciandoci contaminare dai falsi ragionamenti. Tanto meno avremo relazioni con costoro e tanto più resteremo assicurati al nostro sapere e non saremo contaminati, deteriorati e corrotti dalla loro cattiva natura. Il suo stadio meno curabile è quello in cui il malato crede di esser sano e si comporta come se lo fosse. Ho l’abitudine, anzi la regola, se mi imbatto personalmente con chi inquina la verità, di tracciare una linea invalicabile del dialogo e di non estenderla oltre, poiché non mi interessano le chiacchiere insensate, mere assurdità e robacce varie. Spiego, espressamente e con pazienza, che un ulteriore rapporto rischia di spingermi in basso. In un ragionamento la cosa non accade nella solitaria indagine in prima persona. Ma nella ricerca del come stanno le cose su un tema necessita anche l’apprendimento da altri: il percorso insieme verso la ricerca ha come strumento privilegiato il dialogo. Se vogliamo proseguire con la metafora del basso/alto, il dialogo tra chi sta in alto permette di ricostruire una visione più ampia e panoramica perché la frequentazione reciproca, gli scambi tra esperienze diverse, la condivisione delle idee, in breve l’intreccio delle diverse prospettive concorre a superare la limitatezza dello sguardo di ciascuno.
Per questo quando qualcuno dice qualcosa ho l’abitudine di stare attento, soprattutto se dice qualcosa di interessante e poiché sono desideroso di apprendere, gli faccio domande, torno sull’argomento e confronto le cose dette per capire meglio. Se invece chi parla è un uomo senza valore, che non sa né cosa né come deve ricercare, sono poco interessato a riprendere le questioni, una volta fatto cadere l’avversario vittima del proprio presunto sapere. Seneca nel De ira raccomandava di non essere animosi nelle discussioni se si entra in conflitto con degli ignoranti che non hanno mai imparato e neppure vogliono imparare. Non li correggerai, bensì li bacchetterai e ferirai. Non va esaminato solo se ciò che dici è vero, ma anche se colui al quale ti rivolgi è in grado di intendere la verità. La persona di valore accoglie i rilievi, ma chi non lo è difficilmente accetterà la mano tesa del tuo discorso.
Il grande problema di oggi è che coloro che ragionano bene, parlano correttamente e argomentano a tono sono pochi. Per quanto, come ci dicono, ci si trovi nell’epoca della comunicazione, una grandissima percentuale delle nostre relazioni, dalla politica ai giornali, dai social-media alle assemblee condominiali, è pervasa da modi di ragionare errati e non validi da cui tutti, chi più chi meno, siamo trascinati. Gli Antichi, fin dai tempi di Aristotele, chiamavano “fallacie logiche” questi modi di argomentare falsi, fuori tema, irrilevanti e non validi e, benché erronei, spiegavano come fossero attraenti e seducenti a causa dei loro trucchi, inganni ed espedienti. I molti, in quanto “massa”, sono inesperti e vedendo le cose da lontano, come spiega Aristotele, prendono per oro ciò che è soltanto giallastro. Per quanto debole o facile da confutare possa essere un argomento, esso può permettere che una persona raggiunga il suo obiettivo. Convincendo, appunto.
Siccome continuo a sperare che i “molti” non siano impermeabili all’azione educativa, questi modi vanno smascherati e resi patrimonio comune di quante più persone possibili. L’ignoranza è qualcosa di molto simile al buio. Capisco che le mie potrebbero sembrare una condotta e una prospettiva per così dire “illuministiche”, ma “educare” viene da e-ducere che significa “trarre fuori” e quindi abbiamo di nuovo a che fare con la maieutica: estrarre una conoscenza che tutti possediamo e che non è imposta da altri. Ecco perché occorre coniugare partecipazione dal basso con condivisione dall’alto. A maggior ragione, perché una volta scoperti i trucchi delle fallacie, ci accorgiamo che gli “errori” di logica sono dappertutto. Chi ha poi degli interessi personali utilizza e strumentalizza le “fallacie” alla grande e senza scrupoli, perché chi è ignorante e incapace cerca sempre di soverchiare i suoi molti simili e i suoi pochi opposti. L’esperto, il bravo e il giusto, al contrario, mai vuole avere partita vinta sui suoi simili né vuole avere alcun vantaggio sui suoi pari.
Il rapporto con gli altri, prima nella cura di sé e poi nell’azione di formazione di soggetti nella e della politica, è sempre più necessario. Prima se ne proclama la necessità e prima si comincia a tradurlo effettivamente in pratica.


Nonostante tutto non sono pessimista. Scorgo molta voglia diffusa di ripristinare nella politica i concetti di preparazione e di competenza, sempre più persone si dedicano alla buona logica in politica e ne descrivono errori e scorrettezze e vedo infine riaffiorare il concetto del lavoro di gruppo a discapito di quello di caporioni mediocri, imbonitori e imbroglioni, allestitori di spettacoli Se la politica riuscirà a scrollarsi di dosso il problema degli enormi effetti persuasivi delle argomentazioni invalide che si insinuano con grandissima facilità nei nostri processi di pensiero, condizionando emozioni, comportamenti e scelte politiche ed economiche, se una nuova politica si porrà l’obiettivo costante di smascherare l’enorme potere persuasivo di buona parte della propaganda e il conseguente consenso che ne deriva, vedo qualche spiraglio nel futuro per far affermare sempre di più la conoscenza e meno le opinioni di questo o quell’“ego” che spara verità assolutamente astruse da competenze reali nei problemi in discussione.
Il disvelamento dei giochi linguistici ovvero la rivelazione dell’armamentario del populista, del demagogo e del politico sofista è un’istruzione che serve non solo nel campo strettamente politico, ma è un’armatura protettiva nei confronti del resto del mondo. Fin dai tempi della logica aristotelica si tratta di capire quando argomenti che sembrano essere dialettici invece non lo sono. Aristotele definisce la “refutazione sofistica” come un metodo puramente distruttivo: non si applica per dimostrare una propria contro-tesi ma per distruggere quella dell’avversario. In questo caso le fallacie possono essere attribuite a persone che hanno tutta l’intenzione di ingannare: in questo senso le comunicazioni difettose hanno un intento manipolatorio. Molti altri dei nostri interlocutori, invece, le impiegano inavvertitamente: sono all’oscuro di cosa sia un ragionamento logico, una prova, una documentazione o di cosa costituisca in genere un ragionamento oggettivamente preciso, coerente e rilevante. Per questo le fallacie logiche sono così seducenti e attraenti ed è per questo che spesso sono utilizzate con malizia e premeditazione. A queste insensatezze e idiozie quotidiane che ci circondano siamo quasi tutti assuefatti.
E invece io sostengo che logica e politica devono andare a braccetto. Di più, devono baciarsi appassionatamente, proprio perché la politica è concretamente costituita di tesi e argomenti che si confrontano: l’argomentazione è la sostanza della democrazia e una corretta argomentazione, in grado di difendersi dall’ignoranza e dalla manipolazione, fa di una democrazia un sistema autentico e legittimo.
Un’introduzione, molto sommaria, alle più comuni fallacie di ragionamento può essere utile per migliorare il livello generale di discussione e soprattutto per capire i “trucchi” di parole con cui spesso la gente viene imbrogliata.
Del trucco più applicato ne parla Platone nel Protagora. È sufficiente replicare con lunghi discorsi, eludendo gli argomenti e non volendo darne una confutazione argomentata, tirando anzi in lungo finché la maggioranza degli astanti si dimentichi su cosa verteva la discussione.
Questo il motivo per cui va preferita la dialettica alla retorica, perché la dialettica permette di chiedere e rendere ragione di ciò che viene affermato. Con la dialettica si discute, la retorica impone la contesa. La discussione avviene con comprensione tra alleati o amici, mentre tra avversari e tra nemici si compete. Una delle maniere di chi vuol contendere e non discutere è allentare le redini ai discorsi: si sciolgono tutte le vele e abbandonandosi al vento, si fugge nel mare delle parole, perdendo di vista la terra dell’argomento. Nella discussione dialettica occorre la disponibilità verso l’oggetto su cui si discorre e, nello stesso tempo, l’apertura verso l’interlocutore.
La politica contemporanea e le moltitudini che la seguono non si pongono come fine primario la loro e propria educazione né si pongono quello di costituirsi un’adeguata base filosofica attraverso il metodo della dialettica, fondamento necessario per ogni adeguata decisione politica che ha veramente a cura l’umanità e non la massima utilità personale o di alcune oligarchie di cui si fa parte.
La disciplina che, anche quando crede di aver trovato risposte, chiede ancora è la filosofia. Essere filosofi non è, come il mondo d’oggi ci porta a credere, una prerogativa o un’esclusiva specifica dei filosofi di professione (che anzi temo fortemente che oggi nella stragrande maggioranza non lo siano). La filosofia non è un’oziosa esercitazione per qualche accademico, ma un’arte del vivere, un atteggiamento coscienziale. La terapia che qui suggerisco è dunque dedicarsi alla dialettica, una teoria dell’argomentazione orientata alla filosofia. Nata nelle città della Grecia e della Magna Grecia nel V/IV sec. a.C. con la logica e l’arte dell’argomentazione come norma per salvare le ragioni, la competenza logica e argomentativa è un metodo di cui tutti i cittadini, oggi, devono disporre per argomentare bene e saper riconoscere le fallacie di quegli argomenti che, pur essendo scorretti, appaiono psicologicamente persuasivi. Filosoficamente, è cattiva politica ed è politica totalitaria (da qualunque parte provenga) ogni politica che non pratica e non accetta il corretto e libero confronto, il dialogo franco e la serena ricerca.
Ma certamente per usare il metodo dell’argomentazione in modo divergente rispetto alla prassi del nostro tempo, oggi ben esercitata in tutti i dibattiti politici, occorre una chiara consapevolezza volta alla verità e alla vita associata o, più precisamente, occorre da un lato la coscienza antidogmatica della fragilità delle conoscenze insieme alla precisa consapevolezza di ciò che fa di un argomento un buon argomento, e dall’altro che il reale destinatario nelle situazioni controversiali democratiche, ossia il popolo, che è sovrano rispetto alla verità pubblica, si appropri di tutti gli strumenti che possono servirgli per permettergli di esercitare razionalmente la sua sovranità. Dal momento che la nostra vita sociale si svolge attraverso il linguaggio e il discorso, il loro degrado e manipolazione accompagna e condiziona il degrado e manipolazione dei modi di vivere sociali e su questi inganni e auto-inganni occorre intervenire, magari cominciando a offrire una cassetta degli attrezzi, un kit utile a chi sia seriamente interessato a riflettere sulla comunicazione e sulla politica.


Di questi strumenti, ossia dei mezzi per riconoscere alcuni dei tranelli e fallacie logiche, ci occuperemo dunque in seguito, accompagnandole con qualche esempio pratico, per mostrare quanto sia prezioso un collegamento tra le teorie che riguardano dialettica versus retorica e fallacie logiche e la realtà della vita e delle cose, che palesano quale possa essere l’utilità della filosofia anche fuori dall’ambiente universitario e dall’erudizione fine a se stessa.
Questo per far meglio comprendere come i criteri di validazione (ossia del controllo di correttezza) del dibattito politico e sociale devono avvenire su base epistemologica. Vale a dire che l’esattezza e la precisione dovrebbero informare non solo l’attività dei politici ma ogni scelta razionale della troppo sciatta, svagata e sfiduciata esistenza del popolo sovrano. Più semplicemente è importante (ed è sempre importante) ragionare bene.
Ovviamente se non si vuole essere una particella di una massa gregaria manipolata da capi demagoghi e loro gregari ma parte attiva di quella costruzione che, secondo la nostra bella Costituzione, rimuovendone gli ostacoli consente “il pieno sviluppo della persona umana”.

mercoledì 3 agosto 2016

LA DIALETTICA CI RIGUARDA



A L.S., senza la cui “ignoranza”
mai mi sarebbe venuto in mente un tale articolo.


Credo sia molto più bello l’impegno serio rivolto a questi argomenti, quello che si profonde facendo uso dell’arte dialettica e prendendo un’anima adatta nel piantarvi e seminarvi discorsi con conoscenza che siano in grado di venire in aiuto a se stessi e a chi li ha piantati, che non restino privi di frutto, ma ricchi di seme da cui germoglino altri discorsi ancora in altri uomini, così da rendere immortale questo seme facendo in modo che chi lo possiede attinga al massimo di felicità possibile per un uomo. (Platone, Fedro, 276 E-277 A)


Secondo quella che piace a me e ad altri studiosi definire la Tradizione unica, cioè le verità della filosofia perenne, una delle virtù senz’altro da praticare è la mansuetudine (praiótēs), a sua volta una delle sotto-virtù della virtù cardinale chiamata fortezza (andreía). Oggi con sinonimi più in voga si preferisce chiamarla gentilezza, mitezza o tolleranza, allo stesso modo in cui, sempre odiernamente, invece di fortezza si predilige la locuzione “forza d’animo”.
Per quanto si cerchi la maestrìa che non è altro se non la padronanza di se stessi, vale a dire la capacità di aggiustare e rettificare quelli che sono i nostri pregiudizi, preconcetti e opinioni per sentito dire, sappiamo bene che non siamo padroni dell’anima del prossimo. Se, avviando un dialogo con un’altra persona, non siamo in grado di convincerla dei suoi errori e della bontà delle nostre ragioni, siamo noi che non siamo stati capaci di spiegarci bene, adattandoci al suo livello di coscienza, e non lui che non ci ha capito. O, più in generale e di solito, abbiamo fatto finta di non capire che la persona a cui ci siamo rivolti era del tutto inadatta al dialogo. Dobbiamo pertanto rimproverare solo noi stessi ed è del tutto inutile irritarsi con l’altro. Occorre renderci conto che i suoi errori sono delle fissazioni.
Vanno davvero chiamate così: fissazioni, perché un neurobiologo vi dirà che l’uomo medio elabora circa 60.000 pensieri al giorno. Il che è sorprendente! Ma altrettanto desolante è che la quasi totalità di questi sono quelli di ieri. Ognuno di noi è, malinconicamente, un fascio di riflessi condizionati, di nervi costantemente scatenati da persone e circostanze che producono esiti prevedibili, un organetto meccanico che troppo spesso ripete il medesimo ritornello. Un fisico vi direbbe che colmare la distanza tra apparenza e scienza è uno sforzo enorme. Un metafisico – dell’Occidente o dell’Oriente non importa – vi spiegherebbe che l’apparenza, l’opinione, l’ignoranza, l’illusione, sono tutti veli che celano il piano della Realtà e della Libertà.
Ciononostante vi sono sempre stati comunque uomini che anelano alla conoscenza. Persone che non si limitano alle apparenze, né tantomeno a pensare sempre quelli che credono essere i propri pensieri, ma che spesso, nel modo rappresentato da Orwell nel Grande Fratello, sono invece controllati e manipolati. Persone che vogliono prestare attenzione a tutto quanto viene di volta in volta e da altri propri simili pensato nel tentativo di scorgere direzioni, orientamenti, sensibilità, svolte, trasformazioni, crescite. Persone che sono dotate di grande apertura e di capacità di ascoltare e di interloquire, che non credono di essere possessori della verità, ma che, privi di qualsiasi insulsa tracotanza, pensano che alla verità e al bene ci si possa avvicinare dandosi modi di vita realmente liberi improntati alla partecipazione, trasparenza e onestà intellettuale e assegnando per primi al loro movimento di hillmaniana “fare anima” un sistema “inclusivo”. Proprio come salmoni che risalgono la corrente contraria e avversa dell’attuale e diffuso mainstream che è la crescente tentazione di chiudersi, di ripiegarsi nelle consuete abitudini e in un’identità, di restringere il proprio mondo a un insieme circoscritto e autoreferenziale, falsamente rassicurante e criminalmente quasi tribale di comode coordinate che li istigano a parlare anche di cose di cui nulla conoscono.
Ci sono invece persone che cercano di costruirsi, che si interrogano sul proprio rapporto con la società e il mondo che li circondano e che si chiedono cosa possono fare per primi per cambiarli e migliorarli, mettendo a confronto esperienze, stili, convinzioni, tesi e giungendo, dopo molte discussioni, a conclusioni e, ancor meglio, a conseguenti azioni condivise, realizzando un perfetto accordo tra pensiero e opere.
Da sempre il pensiero filosofico – e quello politico che, idealmente, ne dovrebbe essere la sua espressione pratica più alta – trae la propria forza dalla capacità di integrare una pluralità di forme e attività di pensiero, senza chiudersi nelle mura di un pensiero unico, ma spalancando le porte della propria mente e scardinando molti dei riflessi ben condizionati che ci fanno guardare le cose in modo convenzionale e ottuso. È una disciplina che gli Antichi, meno distratti e molto meno manipolati di quanto noi oggi siamo, avevano già investigato a fondo. Gli Antichi (che come già detto quasi sempre avevano ragione) avevano compreso che la conoscenza non è solo un patrimonio individuale ma anche comunitario. Non è fatta solo di un lavoro singolo, di ricerca e studio, di riflessione e meditazione, ma anche di confronto e dialogo, di comunanza di vita: la nostra stessa cultura “occidentale” o addirittura “italiana” include elementi significativi che provengono da altre culture. Il vero “investigatore” (della verità) scompiglia le carte delle nostre rassicuranti e ottuse certezze, cerca di vedere e mostrare le cose da più punti di vista, di notare i dettagli e percepire le sfumature, non inclina ai giudizi sommari e soprattutto si munisce di una dote fondamentale: la capacità di nutrire dubbi, di ascoltare altre ipotesi in ogni momento, di accoglierle e di mettere in discussione con intelligenza le proprie certezze, di moltiplicarsi e di allargare i propri orizzonti. Consapevoli o meno, anche oggi, siamo tutti, chi più chi meno (ma anche, ahimè, molti chi per niente), platonici. La conoscenza viene prima dell’etica e anche della politica, e non può non influenzarle. Ed è con essa, presto o tardi, che dobbiamo fare i conti, anche nelle nostre convinzioni più radicate, i “pregiudizi”, che sono solo l’ebete adattamento conformistico tipico di chi, chiuso in una botte di ferro, accetta l’apparente in forma irriflessa. O i nostri valori si piegano alla verità, o la verità si piega ai valori: delle due la seconda si è sempre rivelata la soluzione più violenta ed oscurantista.
Per Platone il grado più basso della conoscenza è l’eikasía (la congettura, l’apparenza) cui segue la pistis (la credenza): entrambi i gradi appartengono agli individui non discriminanti sotto il profilo logico, non intuitivi e dominati essenzialmente dai sensi e dalla doxa (l’opinione). Per uscire dal mondo dell’opinione (sempre mutevole e, come dice la parola stessa, opinabile), bisogna ascendere a quello dell’epistéme (la scienza, la conoscenza). Era questo l’insegnamento che Platone applicava nella sua Accademia. Questo metodo è esposto anche nel suo maggior scritto, noto come Repubblica, ma che meglio sarebbe chiamare col suo titolo originale greco Politéia, ossia il miglior sistema politico, quello che ha a che fare con l’interiorità della comunità, mentre tutti gli altri regimi sono fazioni, governi del disaccordo. L’Accademia non era solo un posto dove tutti insieme si faceva filosofia, dove si discuteva per lungo tempo e insieme tra amici (e amiche) scelti, su argomenti e questioni in ogni campo. Non era solo semplicemente una scuola, in cui regnava la libertà di pensiero e dove ciascuno poteva tenere corsi sulle materie di cui era competente. Il suo scopo principale, come già era stato per la scuola di Pitagora (di cui si voleva che l’Accademia fosse la diretta erede), era la formazione di politici.
Platone nella sua Accademia,
xilografia da un dipinto di Carl Johan Wahlbom (1810-1858)
in “Svenska Familj-Journalen”, vol. 18, fasc. 3, 1879, p. 73

Il suo programma formativo era fondato sul metodo dialettico, l’arte del dibattimento speculativo che, superando le ipotesi, innalza la mente immersa nell’ignoranza e la eleva dalle opinioni volgari alla salda conoscenza del vero. Chi non è capace di un ragionamento dialettico, vale a dire chi non è in grado di rendere ragione di qualche cosa né a se stesso né a un altro, manca d’intelligenza ed è schiavo del mondo, immerso in una “melma barbarica”, preda di chiunque, in quel momento e in un dato luogo, esercita il potere. La conoscenza, al contrario, è un bene che salva e che rende l’uomo, in quanto essere pensante, libero e indipendente.
Se l’uomo invece è misura di tutte le cose, come pensavano i sofisti al tempo di Platone e come è nell’epoca moderna, i saperi, tutti i saperi, possono essere corrotti da qualsiasi scopo. La dialettica, la discussione (il dialegesthai, da cui deriva il nome “dialettica”) non usata giustamente può diventare un gioco mentale e quel che è peggio un gioco in cui esercitare il potere per i propri scopi. Se la dialettica pura è uno scioglimento dalle catene, la sua degenerazione ne aggiunge delle nuove. Questa degenerazione, che non è arte (techne) ma solo lusinga, è chiamata da Platone “retorica”. Oggi per noi è sinonimo di “discorso vuoto”, ma ai tempi di Atene era l’eloquenza utilizzata per raccoglier voti nelle assemblee pubbliche (e nei tribunali), un’affinata forma di discorso.
La politica, così come la conosciamo, è stata inventata nell’antica Grecia. Idealmente avrebbe dovuto essere la pubblica e ordinata riflessione, discussione e determinazione delle scelte nella loro comunità. Il termine deriva da polis (città). Quando Aristotele (che fu discepolo di Platone da quando aveva 17 anni e fino alla morte di questi e quindi per venti anni) definisce l’essere umano come zôon politikon (animale politico) connette due idee che sono fondamentali nel pensiero greco antico: la prima, che tutti gli esseri umani, diversamente dalle bestie che possono vivere isolate, vivono in comunità perché non sono autosufficienti; la seconda, che una delle funzioni principali degli uomini è quella di partecipare alla vita politica. La politica, dunque, non era solo l’espressione dei limiti e dei bisogni umani, ma anche il modo più elevato di realizzare l’essenza dell’essere umano e il miglioramento continuo delle nostre capacità. In quest’ultimo senso è anche il costante tentativo di ciascuno, dialogando con se stesso e con i suoi simili, di delineare diversamente la morfologia del reale in opposizione alle logiche conservatrici del potere e al comune sentire adattativo che accetta il mondo non perché sia buono o giusto in sé, ma perché, per apatia e indifferenza, assume che non possa essere altro da quello che è. Nel primo senso, la realizzazione dell’essenza, mira alla formazione delle anime.
Assieme alla politica nasce la retorica: l’utilizzo della parola e del discorso non più fondato sulla conoscenza ma sul potere della persuasione. Non è un’arte come la dialettica, ma solo pratica ed abilità. Non ha un’utilità come la prima, anzi è dannosa dal momento che, negando la verità, nega anche la giustizia. Il primo è un discorso corretto, il secondo è soltanto convincente. La retorica essendo volta alla persuasione spesso porta ad oscurare la correttezza dell’argomentazione privilegiando gli argomenti più idonei a ingenerare il convincimento dell’uditorio. La prima ha il fine di dimostrare come stanno le cose, la seconda di addomesticare l’uditorio o, come diremmo oggi, di conquistare il consenso pubblico che procuri immediatamente accesso all’influenza politica e alla conseguente occupazione del potere politico, finalizzata non al vero e al giusto, ma al risultato e all’utile di qualcuno. La retorica, per Platone, è la contraffazione dell’arte di rendere giustizia. Esiste anche una retorica che per Platone è “la vera retorica” e che è semplicemente l’argomentazione adatta alla migliore esposizione di ciò che è vero e che è legittima quando ha un intento educativo, ma di essa qui non ci occuperemo.
Sono idee – ne converrete – che ci possono essere utili anche oggi nell’agire politico. Se ne possono aggiungere altre, o sfumature delle precedenti idee, sostenute dai detrattori della retorica, a partire dallo stesso Platone, sull’incompatibilità tra il metodo filosofico della dialettica e la retorica propria dei parolai, demagoghi e populisti. Sono quelle che poggiano sui postulati che la prima è razionale e dirige i suoi argomenti nel campo della logica, la retorica è irrazionale e si rivolge alla folla degli individui; la dialettica è bi- e multilaterale, la retorica è fondamentalmente unilaterale perché non richiede discussione ma consenso acritico (oggi diremmo che si appaga di un like); la prima è aperta alla critica, la seconda la aborre e, se le è possibile, tenta di eliminarla con ogni mezzo; la dialettica richiede uno scambio fecondo tra i suoi interlocutori, la retorica è un’attività sterile dal punto di vista della ricerca della verità e della conoscenza; la dialettica dichiara i suoi metodi, la retorica cerca di nasconderli; la prima è espressiva di coscienze che si confrontano alla pari, la seconda è manipolatrice delle coscienze altrui; l’una è sincera e spontanea, l’altra, al contrario, è un imbroglio e una distorsione del linguaggio; la prima può anche dire cose sgradevoli, la cruda verità, la retorica non dice mai nulla che possa mettere il popolo contro di essa, ma dice solo cose che possano piacere agli elettori; la dialettica rende migliori gli uomini, la seconda è amorale; la prima si serve della ragione e della conoscenza, la seconda è serva di preconcetti ed emotività. La retorica in breve è un insieme di artifici, menzogne, frodi, fallacie, forme vuote, apparenze, il belletto con cui si ammantano gli interessi più biechi. Compromette le fondamenta della politica, permettendo di ingannare il popolo, e favorisce una strisciante tirannia. Ma come spiega Socrate nel Gorgia, coloro che sanno non saranno mai persuasi da un retore.
Un osservatore acuto si sarà accorto che oggi il discorso retorico, che sostanzialmente celebra o denigra e di rado argomenta, non vive soltanto nella propaganda politica, ma anche nel discorso pubblicitario, rivolto a tessere l’elogio di un certo prodotto per persuadere il pubblico della sua bontà e indurlo all’acquisto. Quando parliamo di pubblico, parliamo di moltitudine, ossia di una folla indifferenziata. È ad essa che si rivolge la parola ridotta a slogan e merce, quand’anche non a volgarità. E così che disoccupazione diventa “flessibilità”, lavoro nero “economia sommersa”, sfruttamento “legge di mercato”, licenziamenti “ottimizzazione delle dimensioni aziendali”, straniero “clandestino”… e ci rende sempre più segregati dalla realtà, dall’altro, da noi stessi… Piegato agli usi e agli abusi del potere, il pensiero unico esercita la sua signoria totale in un vuoto ontologico-morale, la cui potenza su persone cognitivamente immature è annichilente anche nei confronti di coloro che amano il sapere (letteralmente i filo-sofi).
Non sono sicuro se il parallelo che sto per fare valga o meno. Innanzitutto perché è un accostamento che elude ben oltre due millenni e vanno fatte salve, ovviamente, tutte le diversità, tra una società premoderna com’era quella ateniese del V/IV secolo a.C. e una moderna società complessa quale la nostra.
Se leggo che, secondo più ricerche, nella classifica mondiale dell’analfabetismo funzionale il nostro paese è al vertice perché circa la metà della popolazione italiana è funzionalmente analfabeta, vale a dire che è in grado di scrivere e leggere un testo ma è incapace di comprendere il contenuto di una questione, mi domando innanzitutto cosa si nasconda sotto l’espressione ipocritamente retorica di “analfabeta funzionale”. Una definizione formalmente cortese di quelli che non capiscono niente o capiscono quello che vogliono loro sulla base di una o due parole che attirano la loro attenzione? che credono alle cose più assurde purché servano a rafforzare le loro opinioni e i loro pregiudizi? di quelli che tirano conclusioni in un attimo, con sicumera, su qualunque argomento, soprattutto su temi di spaventosa vastità e di abissale profondità? di quelli che attribuiscono ad ogni loro minuscola esperienza diretta valore di verità universale? di quelli a cui interessa solo insultare e mai discutere? di quei livorosi con la bava alla bocca pronti ad esaltare chiunque offra loro un bersaglio su cui scaricare le loro frustrazioni e travasi di bile? di quelli che per qualunque cosa c’è un complotto universale che spiega tutto? di quelli che non sanno seguire un filo logico?
Tante domande ma un’unica risposta con una sola definizione e qualche suo sinonimo. Dal momento che la questione riguarda anche la massa dei decisori, l’elettorato, gli americani a questo proposito sono più diretti ed espliciti. Ecco perché un noto polemista, David Harsanyi, lo scorso maggio, ha aperto una discussione sul Washington Post con un articolo intitolato “We must weed out ignorant Americans from the electorate”. Estirpare il voto degli ignoranti può sembrare un argomento a prima vista razionale, ma in ultima analisi insostenibile. Dovrebbe invece essere un dovere civico sottrarli all’ignoranza. La patente per poter votare è certamente un’assurdità, ma anche gli elettori che non sanno un accidente e che danno retta al populista totalitario di turno non sono una faccenda da prendere alla leggera, ma un problema enorme sul quale occorre far qualcosa.
Dietro l’analfabetismo, sfilano populismo, bufale rampanti, distrazioni di massa, benaltrismo e complottismi d’ogni tipo che fanno presa su un elettorato chiamato invece a decidere questioni fondamentali, a partire dal governo dei territori per finire al destino dell’Europa, passando dall’assetto costituzionale italiano al sistema elettorale. Purtroppo l’analfabetismo è oggettivamente un instrumentum regni, un mezzo eccellente per attrarre e sedurre molte persone con corbellerie e mistificazioni. I voti vengono pilotati da demagoghi bravi a far leva sull’irrazionalità degli italiani, in particolare alimentando e cavalcando il loro odio verso presunti nemici oppure sfoderando promesse irrealistiche, puntualmente destinate a non essere mantenute, come l’attuale mito della “governabilità”, mito paradossalmente antidemocratico perché volto in realtà a restringere la partecipazione popolare. E sull’odio: cosa c’è di logico in esso? il nemico non è chi ha fame ma chi affama, chi getta nella disperazione i popoli e non chi è disperato, chi costringe gli esseri umani a fuggire, non chi fugge; è il massimo dell’opera della retorica del potere quando si crede che il nemico sia chi sta più in basso di noi e non chi sta sopra di noi.
Secondo Socrate “c’è un solo bene: il sapere. E un solo male: l’ignoranza”.
E vengo, finalmente, al confronto che avevo promesso di fare. Se penso alla percentuale del 47% di analfabetismo funzionale e all’altra bella fetta di popolazione capace di capire questioni solo molto semplici, mi viene in mente il processo contro Socrate, che fu uno dei primi processi “politici”, un modo alquanto criminale di esercitare, attraverso la legalità e il principio maggioritario, un controllo sul pensiero difforme. Un disturbante critico del conformismo politico e della vita politica della comunità fu giudicato da cinquecento cittadini tirati a sorte. 

 
Jacques-Louis David, La morte di Socrate, olio su tela, 1787, Metropolitan Museum of Art, New York


È un bell’esempio del fastidio e della molestia in una “opinione pubblica” paga dei suoi valori e delle sue certezze e pronta a difendere gli uni e le altre con la forza del proprio essere “maggioranza”, annientando anche voci critiche importanti, che, più razionalmente, si sarebbero dovute considerare una risorsa. Si rincuora stringatamente Voltaire nel VII capitolo del Trattato sulla tolleranza quando scrive: “Sappiamo che in un primo momento ebbe duecentoventi voti a favore. Il tribunale dei ‘Cinquecento’ aveva dunque duecentoventi filosofi: è molto”.

La prima maggioranza fu per la colpevolezza. La seconda maggioranza ancor più schiacciante, trecentosessanta voti, fu per la pena di morte con la cicuta. Certamente per la provocazione con cui Socrate propose al tribunale come pena per se stesso una pensione statale a vita per i suoi meriti nei confronti della polis come insegnante. Socrate è forse il più terribile esempio che si possa addurre contro l’intolleranza (ignorante) della maggioranza (ignorante e semi-ignorante) verso la libertà di parola e l’azione dialettica, ossia, più o meno, verso la regola del dialogo e l’esercizio della coscienza critica.
Se il principio maggioritario fosse solo un principio utile per il governo o anche un principio buono e giusto i Greci non seppero rispondere. Determinarono per primi tuttavia un problema le cui soluzioni hanno per il quesito un certo valore: il problema della capacità intellettuale della moltitudine. Che, come abbiamo visto, è un problema delicato e ha una china scivolosa. Senofonte nei suoi Ricordi dedicati a Socrate a proposito della sua attività filosofica e del suo rifiuto ad assumere incarichi pubblici ci riferisce che il filosofo riteneva di fare più per la città, invece che impegnarsi come singolo nell’agone politico, nello sforzarsi di rendere capaci di fare politica il più grande numero possibile di esseri umani. Dunque, nessun elitismo, bensì l’impegno faticoso di accrescere la capacità di intendere e di valutare delle persone per poter finalmente scegliere consapevolmente, ovvero autodeterminarsi, cioè – diremmo oggi – in una sempre più diffusa ed efficace educazione politica che dovrebbe essere un requisito etico posto a fondamento della politica. Il proposito è arduo: la ricostruzione della politica come educazione o cura delle anime, di cui la folla non è certo esperta a farle diventare migliori. La controprova della correttezza di questa impostazione ci viene dal dilagare e dalle travolgenti, e a prima vista inopinate, fortune e seduzioni degli odierni movimenti oscurantisti e antiegualitari, i quali conseguono la maggioranza (e talvolta addirittura prendono il potere), attraverso una vasta, capillare ed efficace diseducazione di massa resa possibile nelle società cosiddette avanzate o complesse dalla potenza, oggi illimitata, degli strumenti di comunicazione e di manipolazione delle menti attraverso stereotipi e paure (sia nelle società dove forte è la presa dell’oscurantismo arcaico a base religiosa di movimenti anche elettoralmente vincenti sia nelle società dove le politiche identitarie innalzano muri in un mondo globalizzato dove manca la consapevolezza cosmopolitica).  
La ragione per cui Platone condanna severamente la democrazia è che questa è egualitaria, cioè mette sullo stesso piano coloro che sanno e coloro che non sanno. Non è molto diversa dalla ragione per cui, nel giugno del 2015, Umberto Eco, durante un incontro all’università di Torino, a una domanda di un giornalista, criticava Facebook, dicendo tra l’altro questo: “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”. Ai tempi di Socrate e Platone gli Ateniesi si riunivano nell’agorà. Agorà viene da ageirô, “raccogliere insieme”, e l’agorà era il luogo aperto in cui i Greci si radunavano pubblicamente non solo per il mercato (agorazô significa “comprare”) ma anche luogo di assemblea politica per discutere gli affari della città (agoreuô significa “parlare pubblicamente”). Non è forse Facebook l’agorà contemporanea? un luogo non troppo diverso dalla piazza di Atene dove i comuni Ateniesi, per natura così inclini alla conversazione, si levavano tutti a parlare, fabbri e marinai, ricchi e poveri, calzolai e commercianti, competenti e incompetenti, filosofi e demagoghi.
 
Orazione funebre di Pericle nell'agorà di Atene, illustrazione di Philipp von Foltz, 1852

La democrazia non rispetta certo la competenza e la preparazione ed è spesso brodo di coltura della tirannide, come mostra l’origine dei totalitarismi moderni, quasi tutti nati da movimenti di popolo e di frequente legittimati da regolari elezioni.
Ma è anche vero che la critica platonica della democrazia suppone un concetto di filosofia in cui l’opinione non ha alcun valore, in cui cioè conta solo la scienza, intesa come conoscenza sicura della verità e del bene. Questa concezione della filosofia non era quella professata dai sofisti e dai retori del suo tempo e nemmeno da Aristotele, il quale, pur essendo propriamente un conservatore, considerava tuttavia la democrazia come una specie di male minore tra i regimi più diffusi e più facilmente realizzabili, precorrendo in tal modo il famoso giudizio di Churchill: “la democrazia è la peggior forma di governo possibile, eccezion fatta per tutte le altre”.
Occorre riconoscere al filosofo greco il merito di aver individuato che la politica sarebbe certamente migliore se ciascuno adottasse l’impegno di sottoporre al vaglio della ragione ogni suo pensiero, ogni sua scelta e azione. Anche se le scelte possono essere sbagliate rispetto all’oggetto (capiterà di scambiare per bene quello che è male), mai saranno errate le scelte iniziali che sono di agire nel modo reputato giusto attraverso la consapevolezza e l’esercizio del senso critico.
So bene che il mio utilizzo delle categorie del vero, del bene, del giusto, al modo degli Antichi, possa essere irriso dai più e che meglio sarebbe stato se avessi usato categorie più convenzionalmente accettate. Ma queste non sono categorie “religiose” o “moralistiche” come si potrebbe pensare, bensì categorie filosofiche che costituiscono gli assoluti, mentre il meglio o il peggio, il più o il meno, l’imperfetto piuttosto che il niente, sono i relativi. Occorre preliminarmente la conoscenza dell’Assoluto, in quanto il relativo è tale solo in relazione all’assoluto, mentre il pensiero dominante ritiene di poter conoscere il relativo senza conoscere l’assoluto.
In questa situazione paradossale, in cui la dialettica si rivolge ai pochi e alle minoranze che distinguono apertamente ciò che è il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, il vero e il falso, mentre la retorica, basata su instabili opinioni, non molla la sua presa sulla moltitudine e sulla maggioranza narcotizzata, che fare?
È indubbio che le cose grandi hanno bisogno di tempo e di gruppi ristretti per poter essere apprese e praticate. Quello che si può fare è creare una rete, un solido network di pensiero di tali percorsi collettivi strettamente legati a singole battaglie che nascano come strumenti per la difesa dei diritti civili e sociali. Percorsi dove il dialogo si afferri solo col parteciparvi, in una mescolanza che non si può dividere, moltiplicando le minoranze fino al punto di farle diventare se non maggioranze (posto che ogni minoranza è destinata a diventare tale nell’avvicendarsi dei cicli) quantomeno elementi importanti nell’agorà politica, rivendicando le condizioni sociali e politiche che smascherino le retoriche con le quali il potere si dilunga sui problemi ma non li risolve e consentano il confronto, che operino per rendere la politica e le sue scelte partecipate e trasparenti e che coinvolgano sempre, e non solo nelle scadenze elettorali, i cittadini nel prendere scelte importanti che sostengano il processo per dare dignità alla vita. Scelte che devono e possono essere rappresentate dalla creazione di forme di vita alternativa in spazi di formazione autogestiti. Scelte che si nutrono delle libertà: libertà dalla povertà, libertà dal bisogno, libertà dalla malattia, libertà dallo  sfruttamento, libertà dal sopruso della criminalità e dalla sopraffazione dei pubblici poteri, libertà dall’ignoranza, libertà dall’altrui pretesa di imporre convinzioni religiose o morali e di interferire in ambiti privatissimi e riservati.
Queste scelte che sono anche luoghi in cui si contrappone non solo un’altra visione del mondo, ma in cui deve nascere il fermento del confronto con le retoriche imperanti verso una dimensione nella quale si possa raggiungere un accordo, dopo una radicale messa in discussione della idoneità dei modelli politici imposti da una democrazia troppo spesso predisposta alla demagogia.
Questo mi pare possa essere l’itinerario dischiuso che si apre a quel pensare che è innanzitutto un ospitare interpretazioni per un passare oltre verso la conoscenza. In questo senso la politica, come la filosofia, è “scienza regia”, perché col pensiero non agisce ma esercita la sua autorità sulle altre conoscenze particolari che hanno la capacità di agire, incidere e sedimentare e che a essa le sono sottomesse. Questa la concezione classica della politica che ha in sé un enorme potenziale rivoluzionario perché educa e risveglia la mente. Da essa e da un passato che non passa vanno riacquisiti i pensieri e le descrizioni delle virtù se si vuole poter far vivere agli uomini e alle donne contemporanei le modalità sociali come “luoghi” in cui sia possibile essere felici o quantomeno sia possibile arginare la “barbarie” dell’odio e dell’ignoranza. Pensieri e descrizioni esatte e non mistificatorie capaci di nominare, attraverso la ragione e l’informazione accurata e documentata, questo presente così globale eppure così frantumato, così estraneo eppure così invadente, così comunicativo eppure così ingannevole.  
Non so, dunque, se questa nuova grande innovazione, o meglio rivolgimento, possa emergere da questi “luoghi” esistenti a fatica e di altri tutti da costruire. Sappiamo che può venire fuori da persone, uomini e donne, degne, che possono costituire un fondamento di una prossima grande pedana sociale da cui innalzarsi, dove educazione, libertà di pensiero e autodeterminazione conducano a una società realmente democratica, dove non prevalgano gli interessi della maggioranza ma, come sarebbe auspicabile, l’interesse generale. Ma verrà fuori: perché alla fine una società ha bisogno di sapere come stanno veramente le cose e cosa può fare.