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lunedì 25 ottobre 2021
mercoledì 19 aprile 2017
sabato 3 dicembre 2016
lunedì 26 settembre 2016
Tornata in grado di Apprendista LA POSA DELLA PRIMA PIETRA
Il Grande Oriente d’Italia - Palazzo Giustiniani, grazie all’opera congiunta delle Officine degli ORIENTI DELLE VALLI ARETINE, con il patrocinio del COLLEGIO DEI MM.·.VV.·. DELLA TOSCANA e del COLLEGIO DEI MM.·.VV.·. DELL’UMBRIA ha rinnovato anche quest’anno la FESTA IN RICORDO DELLA POSA DELLA PRIMA PIETRA DEL TEMPIO DI SALOMONE con una TORNATA RITUALE IN GRADO DI APPRENDISTA che si è svolta DOMENICA 25 SETTEMBRE alle ORE 9,30.
Il Tempio è stato allestito presso il suggestivo e splendido Centro Convegni Sant’Agostino, in via Guelfa 40, a Cortona.
Ha tenuto il maglietto la R:.L:. BENEDETTO CAIROLI N. 119 ALL’ORIENTE DI AREZZO.
PRESENTE IL VENERABILISSIMO GRAN MAESTRO DEL G.O.I. FR.·. STEFANO BISI.
Moreno Neri ha tenuto una Tavola su Ipazia.
Per gli amici e le parti lunari presenti, nel corso della mattinata è stata organizzata una visita guidata al MAEC- Museo dell'Accademia Etrusca e della Città di Cortona.
È seguita, al termine di lavori rituali, alle ore 13.00, un’Agape Bianca nell’incantevole chiostro del Centro.
Dal Sito Ufficiale della Loggia Heredom n. 1224 all'Oriente di Cagliari: http://loggiaheredom1224.blogspot.it/2016/10/posa-della-prima-pietra-tornata-rituale.html
venerdì 14 ottobre 2016
Posa della Prima Pietra.
Tornata Rituale a Cortona col Gran Maestro Stefano Bisi
Domenica 25 settembre, nel convento di Sant’Agostino di Cortona, adibito da diversi anni a sede congressuale, si è svolta la Posa della Prima Pietra, un antico rituale che segnava la ripresa dei lavori muratori dopo la pausa estiva. La tornata con questo rito, ormai diventata consuetudine per le logge della Val di Chiana e delle città che la delimitano, cioè Arezzo, Perugia e Siena, nasce da una idea dell’ex maestro venerabile della Loggia Elia Coppi (930) di Cortona, Francesco Vinciarelli, che ha trovato subito nel Gran Maestro Stefano Bisi un convinto sostenitore.
Alla cerimonia del 25 settembre, condotta dal maestro venerabile della Loggia Benedetto Cairoli (119) di Arezzo, ha preso parte il Gran Maestro insieme a tutte le logge di Arezzo e provincia, rappresentate dai venerabili o dai loro incaricati, e ad alcune logge di Perugia, Siena, Firenze e Rimini. Sedevano all’Oriente anche il Grande Ufficiale Claudio Pagliai, i Giudici della Corte Centrale Raffaello Farsetti e Gianni Petrillo, il Consigliere dell’Ordine Paolo Mercati, il Grande Rappresentante Luca Calugi, I’Ispettore circoscrizionale Gianpaolo Pagiotti, il Presidente del Collegio della Toscana Francesco Borgognoni. L’orazione è stata tenuta da Moreno Neri, noto saggista, della Loggia Giovanni Venerucci (849) di Rimini. L’intervento del Gran Maestro Bisi ha chiuso solennemente la tornata.

L’intervento del Gran Maestro a Cortona

La locandina dell'iniziativa


sabato 20 agosto 2016
UN DIBATTITO FRANCO? CONTRO LE FALLACIE DEL FRONTE PROIBIZIONISTA
UN DIBATTITO FRANCO?
Contro le
fallacie del fronte proibizionista
A questo illuminismo non
occorre altro che la libertà; e precisamente la più inoffensiva di tutte le
libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione, in tutti i
campi. Ma da tutte le parti odo gridare: non ragionate! L’ufficiale dice: non
ragionate, fate invece esercitazioni militari! L’intendente di finanza: non
ragionate, pagate! Il prete: non ragionate, credete!
(Immanuel Kant, Risposta alla
domanda:
che cos’è l’Illuminismo, 1783)
Avevo
promesso di offrire qualche
esempio pratico di “fallacie logiche” per mostrare quanto esse siano presenti
in quello che, nel nostro disastrato Paese, continua ad essere pomposamente chiamato
dibattito politico. Diciamo subito (per sintetizzare in modo efficace ciò che
ho già lungamente illustrato) che le fallacie logiche equivalgono, in un
ragionamento, a quelli che sono i falli in una partita di calcio
Ho scelto la notizia diramata
dall’Agenzia DIRE sulla conferenza
stampa delle comunità terapeutiche avvenuta negli ultimi giorni di luglio. La
si può leggere al seguente link: http://www.dire.it/26-07-2016/67580-cannabis-asociazioni-del-no-con-la-legalizzazione-1-milione-di-zombie/http://www.dire.it/26-07-2016/67580-cannabis-asociazioni-del-no-con-la-legalizzazione-1-milione-di-zombie/
L’articolo a firma di Antonio
Bravetti, giornalista professionista, riporta diverse dichiarazioni
virgolettate: quindi è un po’ difficile che abbia letto male.
La conferenza indetta contro
la proposta lanciata da un intergruppo parlamentare per la legalizzazione della
cannabis e dei suoi derivati è un bell’esempio di un concentrato di
combinazioni di fallacie diverse. Normale: i cattivi argomentatori di solito ne
usano molte insieme.
Per quanto le comunità di
recupero facciano un ottimo lavoro, del tutto stimabile, sorprende quanto
realmente dichiarato dai loro rappresentanti che inanella una serie di “fallacie logiche”, ossia modi di argomentare falsi, fuori
tema, irrilevanti e non validi. Trattandosi di addetti ai lavori e pertanto non
privi di nozioni di psicologia, c’è di che dolersi del fatto che quello che
hanno detto in questa occasione non sia per nulla all’altezza di ciò che fanno
quotidianamente e in modo benemerito.
Vediamo una per una le
fallacie argomentative presenti nelle loro dichiarazioni riportate in corsivo.
Essendo studiate fin dall’Antichità come ho in precedenza spiegato, quasi tutte
hanno conservato il vecchio nome latino.
“Liberalizzate le canne e avremo un milione di
giovani zombie, incapaci di distinguere i contorni della realtà, con i tempi di
reazione alterati, con la percezione distorta della realtà e degli affetti”.
Questa fallacia è nota con la
locuzione latina argumentum ad
consequentiam. Consiste nell’utilizzare uno schema argomentativo (causale)
inadeguato che conduce a rigettare un punto di vista descrittivo in ragione delle
sue conseguenze indesiderabili.
Il “punto di vista
descrittivo”, evidentemente manipolatorio, è dove si parla di
“liberalizzazione” e non di “legalizzazione” di una sostanza che si trova in
ogni dove e viene consumata, più o meno abitualmente, da almeno quattro milioni
di persone nel nostro Paese. In buona sostanza il mercato criminale di massa, illegale,
non è mai stato stoppato e pertanto il milione di “giovani zombi” paventato da
Meluzzi circola già da decenni nel nostro Paese. Sarebbe dunque il caso di
essere risparmiati dalle visioni alla Romero e di restare a contatto con la
realtà.
L’intento è quello quindi di
dissuadere da una seria analisi: invece di presentare ragioni contrarie a una
determinata azione, le premesse come le conseguenze offrono un pretesto per non
discuterne affatto ed evitare di affrontare i punti critici della questione.
Il fulcro della questione
infatti sarebbe, in questo caso di tipo quantitativo, discutere le conseguenze
della legalizzazione che può avere logicamente solo tre effetti: il numero dei
consumatori diminuirà o aumenterà
o resterà stabile.
Poiché ogni parte di questo
ragionamento (se A allora B) non è garantito da nulla e abbiamo dimostrato l’invalidità
della premessa A e anche della conseguenza B sotto il profilo quantitativo
concentriamoci sugli aspetti qualitativi-descrittivi. Ci troviamo di fronte a
un’altra fallacia di pertinenza chiamata “della brutta china” (o “fallacia
della china scivolosa” o in altri modi similari quali, ad esempio, “del piano inclinato”, “della china pericolosa”, “del pendio scivoloso” che traducono l’espressione
inglese slippery slope argument). È quella in cui si trae una conseguenza
presentata come inevitabile, inarrestabile e disastrosa ma, in realtà, del
tutto arbitraria: le frasi chiave potrebbero essere “gli dai un dito si
prendono un braccio” oppure “di questo passo dove andremo a finire”. Possono
esprimere saggezza e buon senso popolare, ma anche al tempo stesso un rifiuto
immotivato ad articolare razionalmente le proprie scelte morali. Ci si basa
infatti su una predizione che deve essere supportata dai fatti o su evidenze
empiriche con significative probabilità per essere considerata rilevante.
In questo modo si giunge a
una conclusione finale inaccettabile con la quale si intende rigettare come
altrettanto irricevibile la tesi di partenza. Si tratta di uno strumento
retorico, molto utilizzato dai politici conservatori e dai moralisti a buon
mercato, inteso a creare falsi allarmi sociali ogni qualvolta si tratta di
polemizzare con qualche innovazione da essi ritenuta inaccettabile. È stato
molto utilizzato in occasione dell’introduzione del divorzio e dell’aborto ed è
tuttora utilizzato quando si parla, per esempio, di eutanasia o di
sperimentazione sulle cellule staminali e fecondazione assistita (in quest’ultimo
caso, invece degli zombi si evoca Frankenstein). L’argomento qui utilizzato
somiglia infatti a quello contro l’eutanasia quando si afferma che, se venisse introdotta, i medici potrebbero uccidere chiunque e in particolare
disabili, invalidi e anziani, che i familiari sarebbero spinti a sbarazzarsi
dei congiunti vecchi e ammalati e che gli infermi sarebbero spinti a chiedere
la morte per non spendere in medicine e cure: se A allora B e poi C, fino a
giungere alla “china scivolosa” dei campi di sterminio; assomiglia ancora a
quello delle staminali e della fecondazione assistita che porterebbero a
forme di clonazione riproduttiva per ragioni eugenetiche non diverse da quelle
sognate da Hitler. Ovviamente
laddove l’eutanasia è permessa o dove la cannabis è legalizzata non accade
nulla di quanto si paventa con una buona dose di determinismo (del futuro)
catastrofico e orribile. Ma ai cattivi politici fa comodo che la gente lo
pensi. Insomma, una buona
fallacia per questioni etiche e bioetiche con accuse infamanti che
sarebbe bene smascherare decisamente e sulle quali non perdere tempo.
E comunque questa fallacia è
particolarmente “squisita” sotto il profilo dell’errore argomentativo. Infatti
non è solo una “fallacia di pertinenza o di rilevanza” (sono dette così perché
manca un nesso logico tra la premessa e la conclusione che si intende
sostenere, sono cioè “irrilevanti”). L’argomento della china scivolosa implica
quasi sempre anche un altro tipo di fallacia, quella che fa appello alle
emozioni e ai sentimenti. Abbiamo qui infatti quello che viene definito argumentum ad metum o argumentum in terrorem, l’appello alla paura, una
variante dell’argomento ad consequentiam, al quale spesso si sovrappone.
Consiste nell’evocare conseguenze
terrificanti o comunque negative per far accettare all’interlocutore la propria
opinione o per influenzare il suo comportamento nella direzione sostenuta,
attraverso la paura e il pregiudizio. Fa appello alle parti più irrazionali
delle persone e circonda di un alone di paura molte delle discussioni popolari
sulle più varie questioni. È dunque un ottimo strumento di persuasione usato
molto spesso in politica per diffondere allarme sociale. Il problema connesso
all’impiego di questo argomento è che scatenare la paura induce i destinatari
dell’appello a saltare istintivamente alle conclusioni invece di guardare
realisticamente ai fattori coinvolti in una decisione: la paura, offuscando la
lucidità mentale, annebbia il comportamento razionale e il calcolo delle
probabilità. Proprio per questo il suo impiego può implicare oltre a
riflessioni logico-argomentative anche una valutazione morale (e, talvolta,
addirittura legale se concorre in reati come la truffa) data la sua finalità di
compromettere la comprensione di un problema. Occorre, di nuovo, opporsi a
questo genere di appelli in quanto, con intenti se non truffaldini certamente
manipolatori, spostano l’attenzione dagli argomenti. Anche quando l’appello
alla paura fosse legittimo, è ragionevole bilanciarlo con reali prove o serie ragioni
che mostrino chiaramente quanto asserito.
“La
cannabis è dannosa e la legalizzazione non funziona: laddove è stata
legalizzata la prostituzione c’è stato un aumento della domanda che non ha
ridotto il mercato nero.
Abbiamo visto che anche i terroristi di
queste ultime settimane erano sotto effetto di stupefacenti”.
Eccezionale! Qui abbiamo una
bella sfumatura del famoso argumentum ad
hominem. Non si discutono le argomentazioni di chi propone la
legalizzazione, ma si associa indebitamente il consumo della cannabis prima
alla prostituzione e poi al terrorismo. L’irrilevanza di questi argomenti è
facilmente dimostrabile: è altamente probabile che “i terroristi di queste
ultime settimane” fossero lettori del Corano, bisogna dunque proibire questo
libro? Chi avanza argomentazioni di questo genere, cerca di ottenere il consenso sulla propria posizione screditando
la proposta rappresentandola innanzitutto come inutile e immorale e poi
pericolosa per la nostra incolumità (associare il consumo della cannabis al
terrorismo – lo dice la parola stessa – è di nuovo un argumentum in terrorem). Anche in
questo caso, anziché criticare e confutare
una tesi su di un piano logico-razionale, si attacca chi l’ha proposta
attribuendogli inesistenti “colpe per associazione” con una forte carica
emotiva e retorica. Si tratta di un vecchio arnese retorico, molto ben indagato
per sviare dalla sostanza dell’argomento: una tattica oratoria efficacemente e
ironicamente chiamata reductio ad
Hitlerum. Con questa argomentazione fallace può essere considerato non
etico, o comunque condannabile o deprecabile, dipingere, amare i cani o essere
vegetariani, tutte attività e inclinazioni in cui era coinvolto il dittatore
nazista.
Risulta lampante che argomentazioni di questo tipo sono un
disperato tentativo di sostenere la propria posizione in mancanza di argomenti
validi. Tuttavia se si riflette bene ci si accorge, ancora una volta, che chi
gioca questa carta non ha come reale destinatario di questa fallacia la
controparte della discussione, ma una terza parte, l’uditorio o i lettori (a
nessuno dei quali piace essere associato ai clienti delle prostitute o ai
terroristi). L’intento è quello di demonizzare gli avversari associandoli con
il male e di far così deragliare qualsiasi corretta discussione.
“Con
il disastro in cui versa l’Italia, con le minacce che incombono sull’Europa, il
flagello dell’immigrazione incontrollata, l’assedio alla cultura cristiana, è
possibile che la politica senta come grande emergenza la legalizzazione delle
canne? Se un extraterrestre si affacciasse ora sulla Terra resterebbe
inorridito. Credo che serva un rigurgito di saggezza contro questa deriva
folle”.
E i
due marò? Ce li vogliamo dimenticare?
Qui sopra abbiamo l’esempio
di una delle più note fallacie: l’ignoratio elenchi (la sua traduzione
approssimativa è “ignorare la questione”), forse la più nota mossa scorretta
nel gioco dell’argomentazione, la più grave violazione delle sue regole:
proporre questioni senza alcun rapporto col tema della discussione. Questa tecnica nasconde bene
il mancato utilizzo del modo adeguato di argomentare che consiste invece nel
citare dei fatti concreti che dimostrino il torto della tesi avversaria. L’importante
è andare fuori tema ed è perfetta per la distrazione di massa. Si ignora bellamente la questione in argomento ed è
abitudine per chi se ne avvale di accompagnare la mancanza di confutazione della tesi con una
bella manciata di sdegno e di insulti quanto basta, senza che i giudizi su
altre questioni non pertinenti (“il disastro in cui versa l’Italia, con le
minacce che incombono sull’Europa, il flagello dell’immigrazione incontrollata,
l’assedio alla cultura cristiana”) siano supportati dalla benché minima
dimostrazione, pur potendo in sé anche essere validi. Nel caso qui esaminato
(ma valido per tutte le fallacie di ignoratio elenchi) si giunge a una conclusione
irrilevante per l’argomento in corso: in breve le priorità sono altre (concetto
ribadito da uno dei due ineffabili ministri presenti alla conferenza). Infatti,
oggi si preferisce definire questa fallacia di rilevanza con un neologismo
recente: “benaltrismo”. Da tempo invece, nei Paesi di lingua inglese, questo
tipo di fallacia volta a confondere e distrarre è chiamata red herring (aringa rossa), perché l’aringa affumicata veniva
utilizzata per distogliere dalla traccia i cani dei cacciatori concorrenti
sviandoli su false piste.
Nel contesto politico è
diffusissima e spesso usata in modo deliberato, è una manovra diversiva per far
ignorare e far tralasciare l’argomento, si introduce un disordine concettuale
che mescola altre questioni non pertinenti e non correlate all’argomento in oggetto
con la funzione di distrarre da esso. Ancora una volta si fa leva su argomenti
retorici, populisti e qualunquisti, generici e fondati su luoghi comuni per
evitare l’obiettivo di una discussione razionale sul tema in argomento.
“Ci
pare schizofrenico che da una parte ci sia la legge sull’omicidio stradale e
dall’altra si voglia legalizzare la cannabis”.
Qui abbiamo una fallacia
strutturale: la falsa analogia. In un’analogia, due elementi sono presentati
come simili per il fatto di avere in comune una qualche proprietà. Ma un’analogia
non può avere estensione illimitata e, soprattutto, non può fondarsi sulla
condivisione di una sola proprietà. Infatti le analogie in sé non sono né vere
né false, presentano tra esse semplicemente diversi gradi, che vanno dalle
strette somiglianze alle estreme differenze. Nel caso contrario si parlerebbe d’identità
o di diversità.
Nel caso in esame la legge
sull’omicidio stradale e la proposta di legge sulla legalizzazione della
cannabis hanno in comune l’elemento che in entrambe si parla di sostanze
stupefacenti o psicotrope, ma hanno fini e obiettivi diversi. Limitandoci all’elemento
comune, come per l’alcol la legalizzazione della cannabis non comporta l’attenuazione
delle norme e delle pene previste dal delitto di omicidio stradale, e neppure
delle sanzioni previste dal Codice della strada per la guida in stato di
alterazione psico-fisica. Perciò tra omicidio stradale e legalizzazione della
cannabis non esiste alcuna proprietà significativa in comune come evidenziata
nell’argomentazione. In questo caso si dice che è basata su un’analogia troppo
debole o difettosa o impropria per poter sostenere il fine prefissato che, qui,
è un giudizio negativo sulla legalizzazione.
Le analogie deboli sono quasi
sempre un’alternativa retorica alla mancanza di altre prove o evidenze e
andrebbero sempre evitate in una corretta discussione politica. In una falsa
analogia non è necessario concludere il ragionamento, anzi a fini persuasivi è
più utile non farlo. Infatti, ciò che c’è di forte, per così dire, in questo
argomento è che si insinua e si suggerisce che con la legalizzazione della
cannabis si avrà un aumento degli omicidi stradali: un ennesimo argumentum in terrorem sopra esaminato. La scorretta enfasi posta con la messa
in rapporto alla legge sull’omicidio stradale induce chi legge a questo errore:
anche questa è un’altra fallacia di ambiguità chiamata “fallacia di enfasi”.
A proposito, dimenticavo … c’è
una falsa analogia anche nella dichiarazione sopra riportata dove si equiparano
gli effetti della legalizzazione della prostituzione con quelli della
legalizzazione della cannabis. Chiedetevi qual è l’elemento in comune per chi
ha posto l’analogia. Forse perché si tratta di rendere leciti dei piaceri
voluttuari, ovvero, per un moralista, dei “peccati”?
“Il 99% di persone che abbiamo avuto e abbiamo
oggi in trattamento [nella
comunità di San Patrignano, ndr] hanno avuto il primo contatto con la
cannabis. Purtroppo tra i giovani si sta diffondendo l’idea che la cannabis non
sia dannosa, il primo danno di questo dibattito è già fatto”.
È da circa trent’anni che
sento questo argomento: è un mantra di San Patrignano. Di tutte le
argomentazioni fallaci fin qui esaminate a prima vista potrebbe sembrare la più
seria perché finalmente, in qualche maniera, si affronta l’argomento. Purtroppo
si tratta di un “paralogismo”, ossia un sillogismo, un ragionamento concatenato
fallace.
Un sillogismo perfetto
funziona così: A implica B (premessa maggiore), B è vero (premessa minore),
dunque A è vero. Il classico esempio è: (premessa maggiore) tutti gli uomini
sono mortali, (premessa minore) tutti i
greci sono uomini; (conclusione) dunque tutti i greci sono mortali.
Accade purtroppo che se anche
le due premesse sono vere, la conclusione non lo è necessariamente. In un
paralogismo si dice che tale conclusione è un non sequitur (di nuovo un espressione latina che significa “non ne
consegue”).
Nel caso in esame l’affermazione
precedente assumerebbe questa forma: il 99%
dei tossicodipendenti ha avuto il
primo contatto con la cannabis (premessa maggiore); le persone consumano la cannabis ritenendo
che non sia dannosa (premessa minore); quindi il 99% delle persone che consumano cannabis diventeranno tossicodipendenti (conseguenza fallace). A onor del vero nella dichiarazione originale (anche qui
come già nel caso esaminato della “falsa analogia”) la conseguenza è utilmente nascosta
ma è altrettanto subdolamente inserita in quanto intenzionalmente implicita.
![]() |
Nella figura i due insiemi rappresentano la quantità di consumatori di marijuana (ellisse più grande) e di eroinomani (cerchio più piccolo). La maggioranza dei tossicodipendenti ha consumato anche marijuana, ma, vedendo il grafico, non si può concluderne che i consumatori di cannabis diventeranno in maggioranza (anzi al 99%) eroinomani. |
Nel complesso siamo di fronte
a un mancato argomentare che pensiamo
di aver esplicitato per quanto possibile. Benché la questione della
legalizzazione della cannabis possa essere per molti controversa, il modo in
cui è stata affrontata non può che generare indignazione. È stato ignorato il
modo corretto di ragionare che caratterizza una buona discussione e infranta ogni regola di buona condotta nell’argomentazione.
Si resta perciò basiti o meglio stupefatti (per restare in tema) nel leggere,
alla fine dell’articolo oggetto della nostra indagine, che la ministra Lorenzin
ha osservato: “Spero che questa sia l’occasione per aprire un dibattito aperto
e franco…”, seguita dal collega il ministro Costa che ha auspicato: “Credo che
non ci debbano essere forzature parlamentari, che ci debba essere un dibattito
sereno”. Chi dunque desidera la dissoluzione di qualsiasi corretto confronto
politico non può che augurarsi che l’Italia sia governata da ministri simili.
Per concludere, sempre che
abbiate ancora la testa tutta intera dopo aver letto questo lungo articolo,
occorre stare molto attenti al significato e al senso dei discorsi. Conoscere
le fallacie di ragionamento aumenta la probabilità di smascherarle ed evitarle.
Ma soprattutto permette di
comprendere i motivi per cui un argomento è debole oppure no, valido o no, razionale
oppure no.
Allenatevi
a riconoscerle.
E diffidate dei politicanti e
dei loro gregari che ne fanno uso.
martedì 16 agosto 2016
CONTRO LE FALLACIE DELLA COMUNICAZIONE POLITICA
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Sarebbe
davvero bello, Agatone se la sapienza fosse in grado di scorrere dal più pieno
al più vuoto di noi, quando ci mettiamo in contatto l’uno con l’altro, come
l’acqua che scorre nelle coppe attraverso un filo di lana da quella più piena a
quella più vuota.
(Platone, Simposio, 175 D)
Sarebbe bello. Ma da molto
tempo so che non è così. La sapienza non si trasmette come un fluido. È
un’esperienza personale che si può solo vivere e non è possibile travasarla
bella e pronta, meccanicamente. Occorre una grande motivazione interiore, lo
sforzo individuale e un’inesauribile passione per il dialogo tra persona e
persona, l’avvio della comunicazione filosofico-maieutica attraverso il serrato
metodo dialettico.
Ma se uno è non “gravido”,
vale a dire spiritualmente vuoto? Se non c’è un brandello di onestà né
intellettuale né esistenziale, se non si trova un frammento di domanda, se non
si scorge una briciola di problematicità, anche nella peggiore distorsione e nella
banalizzazione più infima, far emergere dall’anima dell’interlocutore qualcosa
di vitale è un’impresa impossibile.
Socrate parla di maieutica (maieutiké significa
ostetricia) perché la sua tecnica è un’opera analoga a quella
dell’ostetrica. È un metodo che non vuole immettere la verità nell’animo ma
intende estrarla: è come un modo per far partorire le menti. Non lancia
programmi di redenzione e non pretende di trascinarsi torme di seguaci, perché
la conoscenza può solo sgorgare dalla propria anima. La maieutica, attraverso
il discorso, si limita ad orientare il pensiero dell’interlocutore verso la
verità.
Chi segue quest’arte non ha nessun
intento di redenzione, non gli appartiene lo spirito del missionario. Si può
esercitare infatti solo con chi è in uno stato di aporía nel quale consiste l’inizio della “gravidanza”
intellettuale. Occorre che l’interlocutore che si ha di fronte sia disponibile
ad ascoltare un’altra tesi e sia spinto da questa a cercare definizioni sempre
più precise dell’argomento in discussione, fino al momento in cui entrerà nell’aporía (che significa letteralmente
“strada senza uscita”). A questo punto dichiarerà la sua incompetenza sulla
questione e riconoscerà come infondata la sua certezza iniziale. Il riscatto
dalla schiavitù mentale è dunque un fatto del tutto personale, e questa fase
volta alla liberazione dal falso sapere, dalla convinzione cioè di avere delle
verità certe, è una bella cosa perché indica la voglia di sapere: nella
perplessità del vicolo cieco è da vedere un compito ed un invito ad
approfondire la ricerca, vale a dire che l’aporía
è la prima leva del processo conoscitivo. Volendo, se ne può trarre un profitto
straordinario e, come spiega Socrate nel Teeteto,
“è chiaro che da me non hanno imparato
nulla, bensì proprio e solo da se stessi molte cose e belle hanno trovato e
generato; ma d’averli aiutati a generare, questo sì, il merito spetta al dio e
a me”.
Questa incertezza che coglie
l’individuo che si accorge della insufficienza del valore intrinseco della
propria opinione, fa sì che per alcuni sia molto difficile affermare il proprio
imbarazzo e altrettanto sgradevole confessare la propria ignoranza. L’abitudine
a non mollare le proprie convinzioni riprende il sopravvento come se esse non
fossero mai state vagliate ed esaminate. La messa in discussione delle proprie
iniziali certezze è per loro sempre inquietante per non dire destabilizzante e
provoca comprensibilmente ostilità e irritazione.
Del resto Socrate nell’Apologia paragona se stesso a un tafàno “appiccicato dal dio ai fianchi della Città come ai fianchi di un grande
cavallo di razza, ma proprio per la sua mole un po’ pigro e bisognoso di venir
pungolato”. C’è dunque chi si fa stimolare, rimbrottare e, finalmente,
svegliare, ma altri – e sono i più – colpiranno e condanneranno a morte il
fastidioso tafàno.
Si
sarà compreso che anche io ritengo che la politica sia essenzialmente la virtù
di rendere gli altri migliori. E, inoltre, che utilizzo la griglia
interpretativa della filosofia antica e di Platone specialmente a causa della
sua duttilità e mobilità, non solo per una scelta morale di definire una verità
a fondamento del reale ma anche come condizione di senso per la
reinterpretazione del presente, essendo innegabilmente una fonte inesauribile
per la riflessione, un patrimonio imprescindibile e tuttora attuale che non
deve andare perduto. Riconoscendo che, anche nell’attualità, la visione della
verità, o comunque un suo avvicinamento, possa fondarsi solo sul dialogo e
sulla dialettica, perché non si dà verità se non nell’orizzonte del ricercare e
dello spiegare le ragioni pertinenti di ogni autentico dialogo.
Ma se uno è, come si diceva,
spiritualmente vuoto, se è amico della protervia e dell’impostura e partorisce
aborti, mostri, fantasmi o menzogne, invece di qualcosa di vitale o vero, il
dialogo va soppresso oppure il sedicente interlocutore va mantenuto alla
distanza di sicurezza indispensabile in quanto dannoso e irresponsabile allo
stesso modo in cui scorpioni e serpenti non sono responsabili del veleno che
portano con sé.
Socrate,
negli ultimi momenti della sua vita, raccomanda a Critone nel Fedone: “Tu sai bene che il parlare
scorretto non solo è cosa per sé sconveniente, ma fa male anche alle anime”.
Il “parlare scorretto” o,
tecnicamente, la fallacia argomentativa, la manipolazione del discorso, cagiona
del male all’anima. Chi ha in odio i ragionamenti, il “misologo”, è il malato
più degno di compianto. Chi non possiede la tecnica del ragionare e non si
esprime correttamente rinuncia al desiderio di conoscenza. La “misologia” –
quasi sempre associata alla misantropia che tutti odia e insulta e denigra e
che con tutti ha disaccordi – ben si concilia con lo scontro polemico,
recalcitra dal tema in oggetto sottraendosi all’esigenza di mantenere la discussione
nei confini di una ricerca condivisa: “Costoro, infatti, quando discutono di
qualche cosa, non si preoccupano di sapere come stiano veramente le cose su cui
verte la loro discussione, ma desiderano unicamente che ciò che essi affermano
essere vero sembri tale anche a quelli che sono presenti” (Platone, Fedone, 91 A).
La
malattia dell’anima è l’ignoranza, la forma peggiore di malanno che possa
capitare a un uomo. Chi ne è portatore ci turba e va tenuto a debita distanza
per restare in salute non lasciandoci contaminare dai falsi ragionamenti. Tanto
meno avremo relazioni con costoro e tanto più resteremo assicurati al nostro
sapere e non saremo contaminati, deteriorati e corrotti dalla loro cattiva
natura. Il suo stadio meno curabile è quello in cui il malato crede di esser
sano e si comporta come se lo fosse. Ho l’abitudine, anzi la regola, se mi
imbatto personalmente con chi inquina la verità, di tracciare una linea
invalicabile del dialogo e di non estenderla oltre, poiché non mi interessano
le chiacchiere insensate, mere assurdità e robacce varie. Spiego, espressamente
e con pazienza, che un ulteriore rapporto rischia di spingermi in basso. In un
ragionamento la cosa non accade nella solitaria indagine in prima persona. Ma
nella ricerca del come stanno le cose su un tema necessita anche
l’apprendimento da altri: il percorso insieme verso la ricerca ha come
strumento privilegiato il dialogo. Se vogliamo proseguire con la metafora del
basso/alto, il dialogo tra chi sta in alto permette di ricostruire una visione
più ampia e panoramica perché la frequentazione reciproca, gli scambi tra esperienze
diverse, la condivisione delle idee, in breve l’intreccio
delle diverse prospettive concorre a superare la limitatezza dello sguardo di
ciascuno.
Per
questo quando qualcuno dice qualcosa ho l’abitudine di stare attento,
soprattutto se dice qualcosa di interessante e poiché sono desideroso di
apprendere, gli faccio domande, torno sull’argomento e confronto le cose dette
per capire meglio. Se invece chi parla è un uomo senza valore, che non sa né
cosa né come deve ricercare, sono poco interessato a riprendere le questioni,
una volta fatto cadere l’avversario vittima del proprio presunto sapere. Seneca
nel De ira raccomandava di non essere
animosi nelle discussioni se si entra in conflitto con degli ignoranti che non
hanno mai imparato e neppure vogliono imparare. Non li correggerai, bensì li bacchetterai
e ferirai. Non va esaminato solo se ciò che dici è vero, ma anche se colui al
quale ti rivolgi è in grado di intendere la verità. La persona di valore
accoglie i rilievi, ma chi non lo è difficilmente accetterà la mano tesa del
tuo discorso.
Il
grande problema di oggi è che coloro che ragionano bene, parlano correttamente e
argomentano a tono sono pochi. Per quanto, come ci dicono, ci si trovi
nell’epoca della comunicazione, una grandissima percentuale delle nostre
relazioni, dalla politica ai giornali, dai social-media alle assemblee
condominiali, è pervasa da modi di ragionare errati e non validi da cui
tutti, chi più chi meno, siamo trascinati. Gli Antichi, fin dai tempi di
Aristotele, chiamavano “fallacie logiche” questi modi di argomentare falsi,
fuori tema, irrilevanti e non validi e, benché erronei, spiegavano come
fossero attraenti e seducenti a causa dei loro trucchi, inganni ed espedienti. I
molti, in quanto “massa”, sono inesperti e vedendo le cose da lontano, come
spiega Aristotele, prendono per oro ciò che è soltanto giallastro. Per
quanto debole o facile da confutare possa essere un argomento, esso può permettere
che una persona raggiunga il suo obiettivo. Convincendo, appunto.
Siccome
continuo a sperare che i “molti” non siano impermeabili all’azione educativa,
questi modi vanno smascherati e resi patrimonio comune di quante più persone
possibili. L’ignoranza è qualcosa di molto simile al buio. Capisco che le mie potrebbero
sembrare una condotta e una prospettiva per così dire “illuministiche”,
ma “educare” viene da e-ducere che
significa “trarre fuori” e quindi abbiamo di nuovo a che fare con la maieutica:
estrarre una conoscenza che tutti possediamo e che non è imposta da altri. Ecco
perché occorre coniugare partecipazione dal basso con condivisione dall’alto. A
maggior ragione, perché una volta scoperti i trucchi delle fallacie, ci
accorgiamo che gli “errori” di logica sono dappertutto. Chi ha poi degli
interessi personali utilizza e strumentalizza le “fallacie” alla grande e senza
scrupoli, perché chi è ignorante e incapace cerca sempre di soverchiare i suoi
molti simili e i suoi pochi opposti. L’esperto, il bravo e il giusto, al
contrario, mai vuole avere partita vinta sui suoi simili né vuole avere alcun
vantaggio sui suoi pari.
Il rapporto con gli altri, prima nella cura di sé e poi
nell’azione di formazione di soggetti nella
e della politica, è sempre più
necessario. Prima se ne proclama la necessità e prima si comincia a tradurlo
effettivamente in pratica.
Nonostante tutto non sono pessimista. Scorgo molta voglia
diffusa di ripristinare nella politica i concetti di preparazione e di competenza,
sempre più persone si dedicano alla buona logica in politica e ne descrivono
errori e scorrettezze e vedo infine riaffiorare il concetto del lavoro di
gruppo a discapito di quello di caporioni mediocri, imbonitori e imbroglioni,
allestitori di spettacoli Se la politica riuscirà a scrollarsi di dosso il
problema degli enormi effetti persuasivi delle argomentazioni invalide che si
insinuano con grandissima facilità nei nostri processi di pensiero,
condizionando emozioni, comportamenti e scelte politiche ed economiche, se una
nuova politica si porrà l’obiettivo costante di smascherare l’enorme potere
persuasivo di buona parte della propaganda e il conseguente consenso che ne
deriva, vedo qualche spiraglio nel futuro per far affermare sempre di più la conoscenza
e meno le opinioni di questo o quell’“ego” che spara verità assolutamente
astruse da competenze reali nei problemi in discussione.
Il disvelamento dei giochi linguistici ovvero la
rivelazione dell’armamentario del populista, del demagogo e del politico sofista
è un’istruzione che serve non solo nel campo strettamente politico, ma è
un’armatura protettiva nei confronti del resto del mondo. Fin dai tempi della
logica aristotelica si tratta di capire quando argomenti che sembrano essere
dialettici invece non lo sono. Aristotele definisce la “refutazione sofistica”
come un metodo puramente distruttivo: non si applica per dimostrare una propria
contro-tesi ma per distruggere quella dell’avversario. In questo caso le
fallacie possono essere attribuite a persone che hanno tutta l’intenzione di
ingannare: in questo senso le comunicazioni difettose hanno un intento
manipolatorio. Molti altri dei nostri interlocutori, invece, le impiegano
inavvertitamente: sono all’oscuro di cosa sia un ragionamento logico, una
prova, una documentazione o di cosa costituisca in genere un ragionamento
oggettivamente preciso, coerente e rilevante. Per questo le fallacie logiche sono
così seducenti e attraenti ed è per questo che spesso sono utilizzate con
malizia e premeditazione. A queste insensatezze e idiozie quotidiane che ci
circondano siamo quasi tutti assuefatti.
E invece io sostengo che logica e politica devono andare a
braccetto. Di più, devono baciarsi appassionatamente, proprio perché la
politica è concretamente costituita di tesi e argomenti che si confrontano:
l’argomentazione è la sostanza della democrazia e una corretta argomentazione,
in grado di difendersi dall’ignoranza e dalla manipolazione, fa di una
democrazia un sistema autentico e legittimo.
Un’introduzione, molto
sommaria, alle più comuni fallacie di ragionamento può essere utile per
migliorare il livello generale di discussione e soprattutto per capire i
“trucchi” di parole con cui spesso la gente viene imbrogliata.
Del trucco più applicato ne
parla Platone nel Protagora. È
sufficiente replicare con lunghi discorsi, eludendo gli argomenti e non volendo
darne una confutazione argomentata, tirando anzi in lungo finché la maggioranza
degli astanti si dimentichi su cosa verteva la discussione.
Questo il motivo per cui va
preferita la dialettica alla retorica, perché la dialettica permette di
chiedere e rendere ragione di ciò che viene affermato. Con la dialettica si
discute, la retorica impone la contesa. La discussione avviene con comprensione
tra alleati o amici, mentre tra avversari e tra nemici si compete. Una delle
maniere di chi vuol contendere e non discutere è allentare le redini ai
discorsi: si sciolgono tutte le vele e abbandonandosi al vento, si fugge nel
mare delle parole, perdendo di vista la terra dell’argomento. Nella discussione
dialettica occorre la disponibilità verso l’oggetto su cui si discorre e, nello
stesso tempo, l’apertura verso l’interlocutore.
La politica contemporanea e le
moltitudini che la seguono non si pongono come fine primario la loro e propria educazione
né si pongono quello di costituirsi un’adeguata base filosofica attraverso il
metodo della dialettica, fondamento necessario per ogni adeguata decisione
politica che ha veramente a cura l’umanità e non la massima utilità personale o
di alcune oligarchie di cui si fa parte.
La disciplina che,
anche quando crede di aver trovato risposte, chiede ancora è la filosofia.
Essere filosofi non è, come il mondo d’oggi ci porta a credere, una prerogativa
o un’esclusiva specifica dei filosofi di professione (che anzi temo fortemente
che oggi nella stragrande maggioranza non lo siano). La filosofia non è
un’oziosa esercitazione per qualche accademico, ma un’arte del vivere, un
atteggiamento coscienziale. La terapia che qui suggerisco è dunque dedicarsi
alla dialettica, una teoria dell’argomentazione orientata alla filosofia. Nata
nelle città della Grecia e della Magna Grecia nel V/IV sec. a.C. con la logica
e l’arte dell’argomentazione come norma per salvare le ragioni, la competenza
logica e argomentativa è un metodo di cui tutti i cittadini, oggi, devono
disporre per argomentare bene e
saper riconoscere le fallacie di quegli argomenti che, pur
essendo scorretti, appaiono psicologicamente persuasivi. Filosoficamente, è
cattiva politica ed è politica totalitaria (da qualunque parte provenga) ogni
politica che non pratica e non accetta il corretto e libero confronto, il
dialogo franco e la serena ricerca.
Ma certamente per usare il metodo dell’argomentazione in
modo divergente rispetto alla prassi del nostro tempo, oggi ben esercitata in
tutti i dibattiti politici, occorre una chiara consapevolezza volta alla verità
e alla vita associata o, più precisamente, occorre da un lato la coscienza
antidogmatica della fragilità delle conoscenze insieme alla precisa consapevolezza
di ciò che fa di un argomento un buon argomento, e dall’altro che il reale
destinatario nelle situazioni controversiali democratiche, ossia il popolo, che
è sovrano rispetto alla verità pubblica, si appropri di tutti gli strumenti che
possono servirgli per permettergli di esercitare razionalmente la sua sovranità.
Dal momento che la
nostra vita sociale si svolge attraverso il linguaggio e il discorso, il loro
degrado e manipolazione accompagna e condiziona il degrado e manipolazione dei
modi di vivere sociali e su questi inganni e auto-inganni occorre intervenire,
magari cominciando a offrire una cassetta degli attrezzi, un kit utile a chi sia seriamente
interessato a riflettere sulla comunicazione e sulla politica.
Di questi strumenti, ossia
dei mezzi per riconoscere alcuni dei tranelli e fallacie logiche, ci occuperemo
dunque in seguito, accompagnandole con qualche esempio pratico, per mostrare quanto
sia prezioso un collegamento tra le teorie che riguardano dialettica versus retorica e fallacie logiche e la realtà
della vita e delle cose, che palesano quale possa essere l’utilità della
filosofia anche fuori dall’ambiente universitario e dall’erudizione fine a se
stessa.
Questo per far meglio
comprendere come i criteri di validazione (ossia del controllo di correttezza)
del dibattito politico e sociale devono avvenire su base epistemologica. Vale a
dire che l’esattezza e la precisione dovrebbero informare non solo l’attività
dei politici ma ogni scelta razionale della troppo sciatta,
svagata e sfiduciata esistenza del popolo sovrano. Più semplicemente è importante
(ed è sempre importante) ragionare bene.
Ovviamente se
non si vuole essere una particella di una massa gregaria manipolata da capi
demagoghi e loro gregari ma parte attiva di quella costruzione che, secondo la
nostra bella Costituzione, rimuovendone gli ostacoli consente “il pieno sviluppo della
persona umana”.
mercoledì 3 agosto 2016
LA DIALETTICA CI RIGUARDA
A L.S., senza la cui “ignoranza”
mai mi sarebbe venuto in mente un tale articolo.
Credo
sia molto più bello l’impegno serio rivolto a questi argomenti, quello che si
profonde facendo uso dell’arte dialettica e prendendo un’anima adatta nel piantarvi
e seminarvi discorsi con conoscenza che siano in grado di venire in aiuto a se
stessi e a chi li ha piantati, che non restino privi di frutto, ma ricchi di seme
da cui germoglino altri discorsi ancora in altri uomini, così da rendere immortale
questo seme facendo in modo che chi lo possiede attinga al massimo di felicità possibile
per un uomo. (Platone, Fedro, 276
E-277 A)
Secondo
quella che piace a me e ad altri studiosi definire la Tradizione unica, cioè le
verità della filosofia perenne, una delle virtù senz’altro da praticare è la
mansuetudine (praiótēs), a sua volta una delle sotto-virtù della
virtù cardinale chiamata fortezza (andreía).
Oggi con sinonimi più in voga si preferisce chiamarla gentilezza, mitezza o
tolleranza, allo stesso modo in cui, sempre odiernamente, invece di fortezza si
predilige la locuzione “forza d’animo”.
Per
quanto si cerchi la maestrìa che non è altro se non la padronanza di se stessi,
vale a dire la capacità di aggiustare e rettificare quelli che sono i nostri
pregiudizi, preconcetti e opinioni per sentito dire, sappiamo bene che non
siamo padroni dell’anima del prossimo. Se, avviando un dialogo con un’altra
persona, non siamo in grado di convincerla dei suoi errori e della bontà delle
nostre ragioni, siamo noi che non siamo stati capaci di spiegarci bene,
adattandoci al suo livello di coscienza, e non lui che non ci ha capito. O, più
in generale e di solito, abbiamo fatto finta di non capire che la persona a cui
ci siamo rivolti era del tutto inadatta al dialogo. Dobbiamo pertanto
rimproverare solo noi stessi ed è del tutto inutile irritarsi con l’altro. Occorre
renderci conto che i suoi errori sono delle fissazioni.
Vanno
davvero chiamate così: fissazioni, perché un neurobiologo vi dirà che l’uomo
medio elabora circa 60.000 pensieri al giorno. Il che è sorprendente! Ma altrettanto
desolante è che la quasi totalità di questi sono quelli di ieri. Ognuno di noi
è, malinconicamente, un fascio di riflessi condizionati, di nervi costantemente
scatenati da persone e circostanze che producono esiti prevedibili, un
organetto meccanico che troppo spesso ripete il medesimo ritornello. Un fisico
vi direbbe che colmare la distanza tra apparenza e scienza è uno sforzo enorme.
Un metafisico – dell’Occidente o dell’Oriente non importa – vi spiegherebbe che
l’apparenza, l’opinione,
l’ignoranza, l’illusione, sono tutti veli che celano il piano della Realtà e
della Libertà.
Ciononostante
vi sono sempre stati comunque uomini che anelano alla conoscenza. Persone che
non si limitano alle apparenze, né tantomeno a pensare sempre quelli che
credono essere i propri pensieri, ma che spesso, nel modo rappresentato da
Orwell nel Grande Fratello, sono invece
controllati e manipolati. Persone che vogliono prestare attenzione a tutto
quanto viene di volta in volta e da altri propri simili pensato nel tentativo
di scorgere direzioni, orientamenti, sensibilità, svolte, trasformazioni, crescite.
Persone che sono dotate di grande apertura e di capacità di ascoltare e di
interloquire, che non credono di essere possessori della verità, ma che, privi
di qualsiasi insulsa tracotanza, pensano che alla verità e al bene ci si possa
avvicinare dandosi modi di vita realmente liberi improntati alla
partecipazione, trasparenza e onestà intellettuale e assegnando per primi al
loro movimento di hillmaniana “fare anima” un sistema “inclusivo”. Proprio come
salmoni che risalgono la corrente contraria e avversa dell’attuale e diffuso mainstream che è la crescente tentazione di chiudersi, di ripiegarsi nelle
consuete abitudini e in un’identità, di restringere il proprio mondo a un insieme
circoscritto e autoreferenziale, falsamente rassicurante e criminalmente quasi
tribale di comode coordinate che li istigano a parlare anche di cose di cui
nulla conoscono.
Ci sono invece persone che
cercano di costruirsi, che si interrogano sul proprio rapporto con la società e
il mondo che li circondano e che si chiedono cosa possono fare per primi per
cambiarli e migliorarli, mettendo a confronto esperienze, stili, convinzioni,
tesi e giungendo, dopo molte discussioni, a conclusioni e, ancor meglio, a
conseguenti azioni condivise, realizzando un perfetto accordo tra pensiero e
opere.
Da sempre il pensiero
filosofico – e quello politico che, idealmente, ne dovrebbe essere la sua
espressione pratica più alta – trae la propria forza dalla capacità di integrare
una pluralità di forme e attività di pensiero, senza chiudersi nelle mura di un
pensiero unico, ma spalancando le porte della propria mente e scardinando molti
dei riflessi ben condizionati che ci fanno guardare le cose in modo
convenzionale e ottuso. È una disciplina che gli Antichi, meno distratti e
molto meno manipolati di quanto noi oggi siamo, avevano già investigato a fondo.
Gli Antichi (che come già detto quasi sempre avevano ragione) avevano compreso
che la conoscenza non è solo un patrimonio individuale ma anche comunitario.
Non è fatta solo di un lavoro singolo, di ricerca e studio, di riflessione e meditazione,
ma anche di confronto e dialogo, di comunanza di vita: la nostra stessa cultura
“occidentale” o addirittura “italiana” include elementi significativi che
provengono da altre culture. Il vero “investigatore” (della verità) scompiglia
le carte delle nostre rassicuranti e ottuse certezze, cerca di vedere e
mostrare le cose da più punti di vista, di notare i dettagli e percepire le
sfumature, non inclina ai giudizi sommari e soprattutto si munisce di una dote
fondamentale: la capacità di nutrire dubbi, di ascoltare altre ipotesi in ogni
momento, di accoglierle e di mettere in discussione con intelligenza le proprie
certezze, di moltiplicarsi e di allargare i propri orizzonti. Consapevoli o
meno, anche oggi, siamo tutti, chi più chi meno (ma anche, ahimè, molti chi per
niente), platonici. La conoscenza viene prima dell’etica e anche della
politica, e non può non influenzarle. Ed è con essa, presto o tardi, che
dobbiamo fare i conti, anche nelle nostre convinzioni più radicate, i
“pregiudizi”, che sono solo l’ebete adattamento conformistico tipico di chi,
chiuso in una botte di ferro, accetta l’apparente in forma irriflessa. O i
nostri valori si piegano alla verità, o la verità si piega ai valori: delle due
la seconda si è sempre rivelata la soluzione più violenta ed oscurantista.
Per
Platone il grado più basso della conoscenza è l’eikasía (la congettura, l’apparenza) cui segue la pistis (la credenza): entrambi i gradi appartengono
agli individui non discriminanti sotto il profilo logico, non intuitivi e dominati
essenzialmente dai sensi e dalla doxa
(l’opinione). Per uscire dal mondo dell’opinione (sempre mutevole e, come dice
la parola stessa, opinabile), bisogna ascendere a quello dell’epistéme (la scienza, la conoscenza).
Era questo l’insegnamento che Platone applicava nella sua Accademia. Questo metodo
è esposto anche nel suo maggior scritto, noto come Repubblica, ma che meglio sarebbe chiamare col suo titolo originale
greco Politéia, ossia il miglior
sistema politico, quello che ha a che fare con l’interiorità della comunità,
mentre tutti gli altri regimi sono fazioni, governi del disaccordo. L’Accademia
non era solo un posto dove tutti insieme si faceva filosofia, dove si discuteva
per lungo tempo e insieme tra amici (e amiche) scelti, su argomenti e questioni
in ogni campo. Non era solo semplicemente una scuola, in cui regnava la libertà
di pensiero e dove ciascuno poteva tenere corsi sulle materie di cui era
competente. Il suo scopo principale, come già era stato per la scuola di
Pitagora (di cui si voleva che l’Accademia fosse la diretta erede), era la
formazione di politici.
![]() |
Platone nella sua Accademia,
xilografia da un dipinto di Carl Johan Wahlbom (1810-1858)
in
“Svenska Familj-Journalen”, vol. 18, fasc.
3, 1879, p. 73
Il suo programma formativo era fondato sul metodo dialettico, l’arte del dibattimento speculativo che, superando le ipotesi, innalza la mente immersa nell’ignoranza e la eleva dalle opinioni volgari alla salda conoscenza del vero. Chi non è capace di un ragionamento dialettico, vale a dire chi non è in grado di rendere ragione di qualche cosa né a se stesso né a un altro, manca d’intelligenza ed è schiavo del mondo, immerso in una “melma barbarica”, preda di chiunque, in quel momento e in un dato luogo, esercita il potere. La conoscenza, al contrario, è un bene che salva e che rende l’uomo, in quanto essere pensante, libero e indipendente.
Se l’uomo
invece è misura di tutte le cose, come pensavano i sofisti al tempo di Platone
e come è nell’epoca moderna, i saperi, tutti i saperi, possono essere corrotti
da qualsiasi scopo. La dialettica, la discussione (il dialegesthai, da cui deriva il nome “dialettica”) non usata
giustamente può diventare un gioco mentale e quel che è peggio un gioco in cui
esercitare il potere per i propri scopi. Se la dialettica pura è uno scioglimento
dalle catene, la sua degenerazione ne aggiunge delle nuove. Questa
degenerazione, che non è arte (techne)
ma solo lusinga, è chiamata da Platone “retorica”. Oggi per noi è sinonimo di
“discorso vuoto”, ma ai tempi di Atene era l’eloquenza utilizzata per
raccoglier voti nelle assemblee pubbliche (e nei tribunali), un’affinata forma
di discorso.
La politica, così come la
conosciamo, è stata inventata nell’antica Grecia. Idealmente avrebbe dovuto
essere la pubblica e ordinata riflessione, discussione e determinazione delle scelte
nella loro comunità. Il termine deriva da polis (città). Quando
Aristotele (che fu discepolo di Platone da quando aveva 17 anni e fino alla
morte di questi e quindi per venti anni) definisce l’essere umano come zôon
politikon (animale politico) connette due idee che sono fondamentali nel
pensiero greco antico: la prima, che tutti gli esseri umani, diversamente dalle
bestie che possono vivere isolate, vivono in comunità perché non sono
autosufficienti; la seconda, che una delle funzioni principali degli uomini è
quella di partecipare alla vita politica. La politica, dunque, non era solo l’espressione
dei limiti e dei bisogni umani, ma anche il modo più elevato di realizzare l’essenza
dell’essere umano e il miglioramento continuo delle nostre capacità. In quest’ultimo
senso è anche il costante tentativo di ciascuno, dialogando con se stesso e con
i suoi simili, di delineare diversamente la
morfologia del reale in opposizione alle logiche conservatrici del potere e al
comune sentire adattativo che accetta il mondo non perché sia buono o giusto in
sé, ma perché, per apatia e indifferenza, assume che non possa essere altro da
quello che è. Nel primo senso, la realizzazione dell’essenza, mira alla
formazione delle anime.
Assieme
alla politica nasce la retorica: l’utilizzo della parola e del discorso non più
fondato sulla conoscenza ma sul potere della persuasione. Non è un’arte come la
dialettica, ma solo pratica ed abilità. Non ha un’utilità come la prima, anzi è
dannosa dal momento che, negando la verità, nega anche la giustizia. Il primo è
un discorso corretto, il secondo è soltanto convincente. La retorica essendo
volta alla persuasione spesso porta ad oscurare la correttezza dell’argomentazione
privilegiando gli argomenti più idonei a ingenerare il convincimento dell’uditorio.
La prima ha il fine di dimostrare come stanno le cose, la seconda di
addomesticare l’uditorio o, come diremmo oggi, di conquistare il consenso
pubblico che procuri immediatamente accesso all’influenza politica e alla
conseguente occupazione del potere politico, finalizzata non al vero e al
giusto, ma al risultato e all’utile di qualcuno. La retorica, per Platone, è la
contraffazione dell’arte di rendere giustizia. Esiste anche una retorica che
per Platone è “la vera retorica” e che è semplicemente l’argomentazione adatta
alla migliore esposizione di ciò che è vero e che è legittima quando ha un
intento educativo, ma di essa qui non ci occuperemo.
Sono
idee – ne converrete – che ci possono essere utili anche oggi nell’agire
politico. Se ne possono aggiungere altre, o sfumature delle precedenti idee,
sostenute dai detrattori della retorica, a partire dallo stesso Platone, sull’incompatibilità
tra il metodo filosofico della dialettica e la retorica propria dei parolai, demagoghi
e populisti. Sono quelle che poggiano sui postulati che la prima è razionale e
dirige i suoi argomenti nel campo della logica, la retorica è irrazionale e si
rivolge alla folla degli individui; la dialettica è bi- e multilaterale, la
retorica è fondamentalmente unilaterale perché non richiede discussione ma
consenso acritico (oggi diremmo che si appaga di un like); la prima è aperta alla critica, la seconda la aborre e, se
le è possibile, tenta di eliminarla con ogni mezzo; la dialettica richiede uno
scambio fecondo tra i suoi interlocutori, la retorica è un’attività sterile dal
punto di vista della ricerca della verità e della conoscenza; la dialettica
dichiara i suoi metodi, la retorica cerca di nasconderli; la prima è espressiva
di coscienze che si confrontano alla pari, la seconda è manipolatrice delle
coscienze altrui; l’una è sincera e spontanea, l’altra, al contrario, è un
imbroglio e una distorsione del linguaggio; la prima può anche dire cose
sgradevoli, la cruda verità, la retorica non dice mai nulla che possa mettere
il popolo contro di essa, ma dice solo cose che possano piacere agli elettori; la
dialettica rende migliori gli uomini, la seconda è amorale; la prima si serve
della ragione e della conoscenza, la seconda è serva di preconcetti ed
emotività. La retorica in breve è un insieme di artifici, menzogne, frodi, fallacie,
forme vuote, apparenze, il belletto con cui si ammantano gli interessi più
biechi. Compromette le fondamenta della politica, permettendo di ingannare il
popolo, e favorisce una strisciante tirannia. Ma come spiega Socrate nel Gorgia, coloro che sanno non saranno mai
persuasi da un retore.
Un
osservatore acuto si sarà accorto che oggi il discorso retorico, che
sostanzialmente celebra o denigra e di rado argomenta, non vive soltanto nella
propaganda politica, ma anche nel discorso pubblicitario, rivolto a tessere l’elogio
di un certo prodotto per persuadere il pubblico della sua bontà e indurlo all’acquisto.
Quando parliamo di pubblico, parliamo di moltitudine, ossia di una folla
indifferenziata. È ad essa che si rivolge la parola ridotta a slogan e merce,
quand’anche non a volgarità. E così che disoccupazione diventa “flessibilità”,
lavoro nero “economia sommersa”, sfruttamento “legge di mercato”, licenziamenti
“ottimizzazione delle dimensioni aziendali”, straniero “clandestino”… e ci rende sempre più segregati dalla realtà,
dall’altro, da noi stessi… Piegato agli usi e agli abusi del potere, il
pensiero unico esercita
la sua signoria totale in un vuoto ontologico-morale, la cui potenza su persone
cognitivamente immature è annichilente anche nei confronti di coloro che amano
il sapere (letteralmente i filo-sofi).
Non sono sicuro se il parallelo
che sto per fare valga o meno. Innanzitutto perché è un accostamento che
elude ben oltre due millenni e vanno fatte salve, ovviamente, tutte le
diversità, tra una società premoderna com’era quella ateniese del V/IV secolo
a.C. e una moderna società complessa quale la nostra.
Se leggo che, secondo più ricerche, nella classifica mondiale
dell’analfabetismo funzionale il nostro paese è al vertice perché circa la metà
della popolazione italiana è funzionalmente analfabeta, vale a dire che è in grado di scrivere e
leggere un testo ma è incapace di comprendere il contenuto di una questione, mi domando
innanzitutto cosa si nasconda sotto l’espressione ipocritamente retorica di
“analfabeta funzionale”. Una definizione formalmente cortese di quelli che non
capiscono niente o capiscono quello che vogliono loro sulla base di una o due
parole che attirano la loro attenzione? che credono alle cose più assurde
purché servano a rafforzare le loro opinioni e i loro pregiudizi? di quelli che
tirano conclusioni in un attimo, con sicumera, su qualunque argomento,
soprattutto su temi di spaventosa vastità e di abissale profondità? di quelli
che attribuiscono ad ogni loro minuscola esperienza diretta valore di verità
universale? di quelli a cui interessa solo insultare e mai discutere? di quei
livorosi con la bava alla bocca pronti ad esaltare chiunque offra loro un
bersaglio su cui scaricare le loro frustrazioni e travasi di bile? di quelli
che per qualunque cosa c’è un complotto universale che spiega tutto? di quelli
che non sanno seguire un filo logico?
Tante domande ma un’unica
risposta con una sola definizione e qualche suo sinonimo. Dal momento che la
questione riguarda anche la massa dei decisori, l’elettorato, gli americani a questo
proposito sono più diretti ed espliciti. Ecco perché un noto polemista, David
Harsanyi, lo scorso maggio, ha aperto una discussione sul Washington Post con un articolo
intitolato “We must weed out ignorant Americans from the
electorate”. Estirpare il voto degli ignoranti può sembrare un argomento a
prima vista razionale, ma in ultima analisi insostenibile. Dovrebbe invece essere
un dovere civico sottrarli all’ignoranza. La patente per poter votare è
certamente un’assurdità, ma anche gli elettori che non sanno un accidente e che
danno retta al populista totalitario di turno non sono una faccenda da prendere
alla leggera, ma un problema enorme sul quale occorre far qualcosa.
Dietro l’analfabetismo, sfilano populismo,
bufale rampanti, distrazioni di massa, benaltrismo e complottismi
d’ogni tipo che fanno presa su un elettorato chiamato invece a decidere
questioni fondamentali, a partire dal governo dei territori per finire al destino
dell’Europa, passando dall’assetto costituzionale italiano al sistema elettorale.
Purtroppo l’analfabetismo è oggettivamente un instrumentum regni, un
mezzo eccellente per attrarre e sedurre molte persone con corbellerie e
mistificazioni. I voti vengono pilotati da demagoghi bravi a far leva
sull’irrazionalità degli italiani, in particolare alimentando e cavalcando il
loro odio verso presunti nemici oppure sfoderando promesse irrealistiche,
puntualmente destinate a non essere mantenute, come l’attuale mito della
“governabilità”, mito paradossalmente antidemocratico perché volto in realtà a
restringere la partecipazione popolare. E sull’odio: cosa c’è di logico in
esso? il nemico non è chi ha fame ma chi affama, chi getta nella disperazione i
popoli e non chi è disperato, chi costringe gli esseri umani a fuggire, non chi
fugge; è il massimo dell’opera della retorica del potere quando si crede che il
nemico sia chi sta più in basso di noi e non chi sta sopra di noi.
Secondo
Socrate “c’è un solo bene: il sapere. E un solo male: l’ignoranza”.
E vengo, finalmente, al
confronto che avevo promesso di fare. Se penso alla percentuale del 47% di
analfabetismo funzionale e all’altra bella fetta di popolazione capace di
capire questioni solo molto semplici, mi viene in mente il processo
contro Socrate, che fu uno dei primi processi “politici”, un modo alquanto
criminale di esercitare, attraverso la legalità e il principio maggioritario,
un controllo sul pensiero difforme. Un disturbante critico del conformismo
politico e della vita politica della comunità fu giudicato da cinquecento
cittadini tirati a sorte.
![]() |
Jacques-Louis David, La morte di Socrate, olio su tela, 1787, Metropolitan Museum of Art, New York |
È un
bell’esempio del fastidio e della molestia in una “opinione pubblica” paga dei
suoi valori e delle sue certezze e pronta a difendere gli uni e le altre con la
forza del proprio essere “maggioranza”, annientando anche voci critiche
importanti, che, più razionalmente, si sarebbero dovute considerare una risorsa.
Si rincuora stringatamente Voltaire nel VII capitolo del Trattato sulla tolleranza quando scrive: “Sappiamo che in un primo
momento ebbe duecentoventi voti a favore. Il tribunale dei ‘Cinquecento’ aveva
dunque duecentoventi filosofi: è molto”.
La prima maggioranza fu per la colpevolezza. La seconda
maggioranza ancor più schiacciante, trecentosessanta voti, fu per la pena di
morte con la cicuta. Certamente per la provocazione con cui Socrate propose al
tribunale come pena per se stesso una pensione statale a vita per i suoi meriti
nei confronti della polis come
insegnante. Socrate è forse il più terribile esempio che si possa addurre
contro l’intolleranza (ignorante) della maggioranza (ignorante e
semi-ignorante) verso la libertà di parola e l’azione dialettica, ossia, più o
meno, verso la regola del dialogo e l’esercizio della coscienza critica.
Se il principio maggioritario fosse solo un principio utile per il governo o anche un principio buono e giusto i Greci non seppero rispondere. Determinarono per primi tuttavia un problema le cui soluzioni hanno per il quesito un certo valore: il problema della capacità intellettuale della moltitudine. Che, come abbiamo visto, è un problema delicato e ha una china scivolosa. Senofonte nei suoi Ricordi dedicati a Socrate a proposito della sua attività filosofica e del suo rifiuto ad assumere incarichi pubblici ci riferisce che il filosofo riteneva di fare più per la città, invece che impegnarsi come singolo nell’agone politico, nello sforzarsi di rendere capaci di fare politica il più grande numero possibile di esseri umani. Dunque, nessun elitismo, bensì l’impegno faticoso di accrescere la capacità di intendere e di valutare delle persone per poter finalmente scegliere consapevolmente, ovvero autodeterminarsi, cioè – diremmo oggi – in una sempre più diffusa ed efficace educazione politica che dovrebbe essere un requisito etico posto a fondamento della politica. Il proposito è arduo: la ricostruzione della politica come educazione o cura delle anime, di cui la folla non è certo esperta a farle diventare migliori. La controprova della correttezza di questa impostazione ci viene dal dilagare e dalle travolgenti, e a prima vista inopinate, fortune e seduzioni degli odierni movimenti oscurantisti e antiegualitari, i quali conseguono la maggioranza (e talvolta addirittura prendono il potere), attraverso una vasta, capillare ed efficace diseducazione di massa resa possibile nelle società cosiddette avanzate o complesse dalla potenza, oggi illimitata, degli strumenti di comunicazione e di manipolazione delle menti attraverso stereotipi e paure (sia nelle società dove forte è la presa dell’oscurantismo arcaico a base religiosa di movimenti anche elettoralmente vincenti sia nelle società dove le politiche identitarie innalzano muri in un mondo globalizzato dove manca la consapevolezza cosmopolitica).
La ragione per cui Platone condanna severamente la democrazia è che
questa è egualitaria, cioè mette sullo stesso piano coloro che sanno e coloro
che non sanno. Non è molto diversa dalla ragione per cui, nel giugno del 2015, Umberto Eco, durante un
incontro all’università di Torino, a una domanda di un giornalista, criticava Facebook, dicendo tra l’altro questo: “I
social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano
solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora
hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli
imbecilli”. Ai tempi di Socrate e Platone gli Ateniesi si riunivano
nell’agorà. Agorà viene da ageirô,
“raccogliere insieme”, e l’agorà era il luogo aperto in cui i Greci si
radunavano pubblicamente non solo per il mercato (agorazô significa
“comprare”) ma anche luogo di assemblea politica per discutere gli affari della
città (agoreuô significa “parlare pubblicamente”). Non è forse Facebook l’agorà contemporanea? un luogo
non troppo diverso dalla piazza di Atene dove i comuni Ateniesi, per natura
così inclini alla conversazione, si levavano tutti a parlare, fabbri e marinai,
ricchi e poveri, calzolai e commercianti, competenti e incompetenti, filosofi e
demagoghi.
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Orazione funebre di Pericle nell'agorà di Atene, illustrazione di Philipp von Foltz, 1852 |
La democrazia non rispetta certo la competenza e la preparazione ed è spesso brodo di coltura della tirannide, come mostra l’origine dei totalitarismi moderni, quasi tutti nati da movimenti di popolo e di frequente legittimati da regolari elezioni.
Ma è anche vero che la
critica platonica della democrazia suppone un concetto di filosofia in cui l’opinione
non ha alcun valore, in cui cioè conta solo la scienza, intesa come conoscenza
sicura della verità e del bene. Questa concezione della filosofia non era
quella professata dai sofisti e dai retori del suo tempo e nemmeno da
Aristotele, il quale, pur essendo propriamente un conservatore, considerava
tuttavia la democrazia come una specie di male minore tra i regimi più diffusi
e più facilmente realizzabili, precorrendo in tal modo il famoso giudizio di
Churchill: “la democrazia è la peggior forma di governo possibile, eccezion
fatta per tutte le altre”.
Occorre riconoscere al
filosofo greco il merito di aver individuato che la politica sarebbe certamente
migliore se ciascuno adottasse l’impegno di sottoporre al vaglio della ragione
ogni suo pensiero, ogni sua scelta e azione. Anche se le scelte possono essere
sbagliate rispetto all’oggetto (capiterà di scambiare per bene quello che è
male), mai saranno errate le scelte iniziali che sono di agire nel modo
reputato giusto attraverso la consapevolezza e l’esercizio del senso critico.
So bene che il mio utilizzo
delle categorie del vero, del bene, del giusto, al modo degli Antichi, possa
essere irriso dai più e che meglio sarebbe stato se avessi usato categorie più
convenzionalmente accettate. Ma queste non sono categorie “religiose” o
“moralistiche” come si potrebbe pensare, bensì categorie filosofiche che
costituiscono gli assoluti, mentre il
meglio o il peggio, il più o il meno, l’imperfetto piuttosto che il niente, sono
i relativi. Occorre preliminarmente
la conoscenza dell’Assoluto, in
quanto il relativo è tale solo in
relazione all’assoluto, mentre il pensiero dominante ritiene di poter
conoscere il relativo senza conoscere l’assoluto.
In questa situazione
paradossale, in cui la dialettica si rivolge ai pochi e alle minoranze che
distinguono apertamente ciò che è il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, il
vero e il falso, mentre la retorica, basata su instabili opinioni, non molla la
sua presa sulla moltitudine e sulla maggioranza narcotizzata, che fare?
È indubbio che le cose grandi
hanno bisogno di tempo e di gruppi ristretti per poter essere apprese e
praticate. Quello che si può fare è creare una rete, un solido network di pensiero di tali percorsi
collettivi strettamente legati a singole battaglie che nascano come strumenti
per la difesa dei diritti civili e sociali. Percorsi dove il dialogo si afferri
solo col parteciparvi, in una mescolanza che non si può dividere, moltiplicando
le minoranze fino al punto di farle diventare se non maggioranze (posto che
ogni minoranza è destinata a diventare tale nell’avvicendarsi dei cicli)
quantomeno elementi importanti nell’agorà
politica, rivendicando le condizioni sociali e politiche che smascherino le
retoriche con le quali il potere si dilunga sui problemi ma non li risolve e
consentano il confronto, che operino per rendere la politica e le sue scelte
partecipate e trasparenti e che coinvolgano sempre, e non solo nelle scadenze
elettorali, i cittadini nel prendere scelte importanti che sostengano il
processo per dare dignità alla vita. Scelte che devono e possono essere
rappresentate dalla creazione di forme di vita alternativa in spazi di
formazione autogestiti. Scelte che si nutrono delle libertà: libertà dalla
povertà, libertà dal bisogno, libertà dalla malattia, libertà dallo sfruttamento, libertà dal sopruso della
criminalità e dalla sopraffazione dei pubblici poteri, libertà dall’ignoranza, libertà dall’altrui pretesa
di imporre convinzioni religiose o morali e di interferire in ambiti
privatissimi e riservati.
Queste scelte che sono anche
luoghi in cui si contrappone non solo un’altra visione del mondo, ma in cui deve
nascere il fermento del confronto con le retoriche imperanti verso una
dimensione nella quale si possa raggiungere un accordo, dopo una radicale messa
in discussione della idoneità dei modelli politici imposti da una democrazia
troppo spesso predisposta alla demagogia.
Questo mi pare possa essere
l’itinerario dischiuso che si apre a quel pensare che è innanzitutto un
ospitare interpretazioni per un passare oltre verso la conoscenza. In questo
senso la politica, come la filosofia, è “scienza regia”, perché col pensiero
non agisce ma esercita la sua autorità sulle altre conoscenze particolari che
hanno la capacità di agire, incidere e sedimentare e che a essa le sono
sottomesse. Questa la concezione classica della politica che ha in sé un enorme
potenziale rivoluzionario perché educa e risveglia la mente. Da essa e da un
passato che non passa vanno riacquisiti i pensieri e le descrizioni delle virtù
se si vuole poter far vivere agli uomini e alle donne contemporanei le modalità
sociali come “luoghi” in cui sia possibile essere felici o quantomeno sia
possibile arginare la “barbarie” dell’odio e dell’ignoranza. Pensieri e
descrizioni esatte e non mistificatorie capaci di nominare, attraverso la
ragione e l’informazione accurata e documentata, questo presente così globale
eppure così frantumato, così estraneo eppure così invadente, così comunicativo
eppure così ingannevole.
Non so, dunque, se questa nuova grande innovazione, o meglio rivolgimento, possa emergere da questi “luoghi” esistenti a fatica e di altri tutti da costruire. Sappiamo che può venire fuori da persone, uomini e donne, degne, che possono costituire un fondamento di una prossima grande pedana sociale da cui innalzarsi, dove educazione, libertà di pensiero e autodeterminazione conducano a una società realmente democratica, dove non prevalgano gli interessi della maggioranza ma, come sarebbe auspicabile, l’interesse generale. Ma verrà fuori: perché alla fine una società ha bisogno di sapere come stanno veramente le cose e cosa può fare.
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