mercoledì 22 maggio 2013

Convegno su “Nuovo Risorgimento” della Gran Loggia del Rito Simbolico Italiano a Marsala

Il 17 maggio 2013 sono partiti gli incontri a Marsala della Gran Loggia di Rito Simbolico Italiano. L'evento era stato presentato nei giorni scorsi dall'assessore alla Cultura Patrizia Montalto, che ha organizzato l'iniziativa in collaborazione con il Museo Civico marsalese diretto da Gabriella Tranchida. All'incontro erano presenti alcuni rappresentanti della Massoneria del Rito Simbolico Italiano, Vincenzo Vitrano, Ariberto Buitta e Giovanni Milazzo.
Nella mattinata del 17 maggio con l'omaggio alla tomba di Abele Damiani e la scopertura di una lapide in sua memoria si è aperta – alle ore 11 – in via XI Maggio la due giorni culturale della Gran Loggia del Rito Simbolico Italiano.

La tomba di Abele Damiani, in forma di piramide, nel Camposanto di Marsala.

Il cartello che ricorda il restauro della tomba monumentale da parte del Grande Oriente d'Italia, del Collegio Circoscrizionale dei Maestri Venerabili della Sicilia e della Rispettabile Loggia "Abele Damiani" n. 349 all'Oriente di Marsala.
La scopertura della targa in ricordo dell'evento del Rito Sibolico Italiano.

La targa.

La targa

Lapide e targa della Massoneria marsalese.


Di Abele Damiani scrive Giovanni Alagna:

"La carriera politica di Abele Damiani è esemplare per capire attraverso quale aspro tirocinio si è formata la classe dirigente risorgimentale, a cui va riconosciuto il merito di avere unificato l’Italia: cospirazione, carcere, impegno militare, organizzazione del consenso attraverso l’attività politica e sociale, e infine elezione al parlamento. Damiani nacque il 2 giugno 1835 in una famiglia culturalmente stimolante: il padre era un uomo di idee liberali che instillò nei figli l’amore per il sapere e per la patria....
“La patria – scrisse Damiani - si apprende nella famiglia, in mezzo ai propri affetti, e … nel concetto indivisibile dell'onestà pubblica e privata”. Fu mandato a studiare prima nel seminario di Mazara, allora centro di diffusione di idee liberali, e poi nell’università di Palermo, dove entrò in contatto con i gruppi liberali e patriottici palermitani. Fu tratto in arresto una prima volta nel 1853 per un articolo pubblicato su un giornale palermitano, ma fu rilasciato poco dopo. Nel 1854, a causa della malattia del padre, dovette ritornare a Marsala per occuparsi degli affari di famiglia. Continuò tuttavia a tenere i rapporti con Francesco Bentivegna e gli altri cospiratori siciliani, la cui corrispondenza faceva giungere agli esuli maltesi per mezzo delle barche che collegavano Marsala con Malta. Questa sua attività non passò inosservata alla polizia borbonica che, il 10 dicembre 1856, lo arrestò insieme al fratello Antonino. Liberato dopo un anno di carcere duro nella Colombaia di Trapani, nonostante fosse tenuto sotto controllo dalla polizia, Damiani continuò l’attività cospirativa. Il 7 aprile 1860 promosse la rivoluzione a Marsala e dopo la repressione si rifugiò a Malta. Avuta notizia dello sbarco dei Mille, Damiani raggiunse Garibaldi a Milazzo e fece tutta la campagna militare fino alla conclusione della spedizione. Si recò, quindi, a Torino, dove, nonostante la giovane età, fece sentire la sua voce nel dibattito in corso tra i moderati e democratici riguardo all’organizzazione da dare al nuovo Stato. Deluso dalla maniera in cui si stava realizzando l’unità d’Italia e preoccupato per le notizie di emarginazione dei democratici marsalesi, che l’amico Andrea D’Anna gli inviava, tornò a Marsala. Il prefetto di Trapani, riconoscendogli capacità e competenza, lo nominò sindaco, ma egli dopo aver avviato una serie di riforme dell’amministrazione cittadina (nuovi bilanci, riforma tributaria, pratiche per ampliare il porto, istituzione di scuole pubbliche), abbandonò l'incarico per ritornare a Torino. Nella capitale del nuovo regno, Damiani “condusse la vita varia e turbolenta dell’uomo di mondo, non senza qualche roseo mistero e con parecchi duelli”. Racconta un suo biografo che, per far cessare il brigantaggio che lacerava le regioni meridionali del nuovo regno, con alcuni suoi amici aveva progettato di penetrare segretamente nello Stato pontificio, per rapire l’ex regina Maria Sofia, che alimentava la rivolta, e portarla in Sicilia, donde non sarebbe uscita libera, fino a quando non si fosse impegnata ad abbandonare la lotta. Forse il governo ebbe qualche sentore di quella macchinazione e fece intendere che l'avrebbe impedita. Damiani ritornò in Sicilia nel 1862 per partecipare alla spedizione garibaldina che mirava a liberare Roma e dopo lo scontro di Aspromonte, venne arrestato e imprigionato per alcuni mesi nella fortezza di Bard in Valle d’Aosta. Le amarezze di quegli anni e la delusione per come si stava realizzando l’unificazione nazionale lo indussero ad una seria riflessione sul che fare. Egli era convinto che ci fossero due vie nel “processo delle nuove idee: o spezzare la spada, per gettarsi a corpo perduto in una lotta impari di ambizioni e d'interessi venali, o riprenderla nel nome santo de’ forti caduti, e di quanti senton gravi i momenti che li dividono dalle prove supreme”. Scelse la via dell’impegno e riprese l’azione politica: nel 1863 costituì la prima loggia massonica marsalese; nel 1865 organizzò il Meeting per l’abolizione della pena di morte e la soppressione delle corporazioni religiose. Il 18 novembre dello stesso anno 1865, appena trentenne, venne eletto deputato al parlamento per la IX legislatura. Fu eletto poi ininterrottamente fino alla XIX legislatura (1880 – 1895)."

Abele Damiani in divisa di Ufficiale garibaldino


Ritratto di Abele Damiani


Il Rito Simbolico Italiano, nato nel 1859 ad opera della Loggia Massonica Ausonia di Torino, diede vita al Grande Oriente Italiano, regolare e sovrano, sganciato da qualsiasi dipendenza estera. Nel pomeriggio, nella Sala Conferenze della Biblioteca Comunale si è svolta la Gran Loggia, l'assemblea annuale dei delegati del Rito Simbolico Italiano. Si è anche aperta l’esposizione documentaria su “la presenza massonica a Marsala” a cura della Biblioteca comunale e dell'Archivio Storico diretto da Milena Cudia. Il convegno è organizzato dal comune di Marsala, dall'Assessorato alla Cultura diretto da Patrizia Montalto e dal Museo Civico diretto da Gabriella Tranchida. Un ampio spazio è dedicato alla mostra filatelica storica-massonica curata dal Dott. Aldo Bonfanti, presidente dell'Associazione Filatelica Lilibetana. La mostra consiste in una collezione privata in possesso dello stesso Bonfanti, sulla massoneria e sui famosi personaggi storici aderenti ad essa, a partire da Mozart e Garibaldi... 
Alle ore 18,30 l’incontro dei vertici della Gran Loggia con le autorità locali. 
Sabato 18 maggio dalle ore 9,00 alle ore 18,30 presso l’Oratorio "Santa Cecilia" si è svolto un Convegno sul tema “Nuovo Risorgimento” organizzato dal Rito Simbolico Italiano e dalla Loggia Regionale Oreto, con il patrocinio del Comune di Marsala, a cui hanno partecipato: il Serenissimo Presidente del Rito simbolico Italiano, Giovanni Cecconi; lo storico Arturo Menghi Sartorio; Renato Scarpa, studioso di Storia del Risorgimento; Marco Cuzi, Università degli Studi di Milano; Anna Maria Isastia, Università La Sapienza di Roma; Moreno Neri, saggista; Vinicio Serino, Università di Siena; Antonio Panaino, Università di Bologna. Nel corso del Convegno, si è tenuta la presentazione, a cura del Serenissimo Presidente del Rito simbolico Italiano, Giovanni Cecconi, del volume "In nome dell'Uomo" di Gustavo Raffi. In seguito si è svolta una visita nelle famose Cantine Florio. 
Alle ore 21,30 presso il Teatro Impero l’evento lirico “Giuseppe Verdi tra lirica e narrazione” nel bicentenario della sua nascita.

Due vedute dell'Oratorio "Santa Cecilia" prima dell'inizio del convegno.


Il depliant con il programma del Convegno "NUOVO RISORGIMENTO"

Visita alle Cantine Florio.
Le più antiche botti di Marsala delle Cantine Florio.
Le botti sono disposte in forma di tetraktys.










lunedì 20 maggio 2013

Le Iniziazioni di Piero della Francesca: foto



Le Iniziazioni di Piero della Francesca

Organizzato dall'Associazione Culturale Clan Sinclair Italia e con il patrocinio del 
Comune di Fano - Assessorato alla Cultura
il 27 febbraio 2013, ore 18.00
MEMO - Mediateca Montanari di Fano
si terrà l'incontro


LE INIZIAZIONI DI PIERO DELLA FRANCESCA


PRESENTAZIONE:
Tiziano Busca Presidente Clan Sinclair Italia.

SALUTI:
Maria Antonia Cucuzza Vicesindaco e Assessore alla Cultura del Comune di Fano.

RELATORI:
Dott. Silio Bozzi Saggista - Vice Questore della Polizia di Stato
La flagellazione di Piero Della Francesca, la soluzione di un’enigma.
Moreno Neri Saggista
Sigismondo Pandolfo Malatesta in preghiera davanti a San Sigismondo.

CONCLUSIONI:
Dott. Massimo Agostini Vicepresidente Clan Sinclair Italia.



Tiziano Busca, Moreno Neri, Silio Bozzi.

Moreno Neri

Silio Bozzi, Moreno Neri.


Silio Bozzi

Alberto Santorelli - Assessore del Comune di Fano.
Al tavolo: Tiziano Busca, Moreno Neri e Silio Bozzi.

Una panoramica della sala

La locandina del convegno

Una sala piena 

Ancora una foto della sala

Tiziano Busca, Moreno Neri, Silio Bozzi.

Tiziano Busca




Si ringrazia per le foto il Clan Sinclair Italia: http://clansinclairitalia.blogspot.it/2013/02/ancora-una-riuscita-iniziativa-del-clan.html

Vedi il Video su FANOTV

http://www.fanotv.it/video/6776




Le Iniziazioni di Piero della Francesca: il Sigismondo inginocchiato


Le Iniziazioni di Piero della Francesca:
il Sigismondo inginocchiato

Organizzato dall'Associazione Culturale Clan Sinclair Italia e con il patrocinio del 
Comune di Fano - Assessorato alla Cultura
27 febbraio 2013, ore 18.00
MEMO - Mediateca Montanari di Fano





San Sigismondo e Sigismondo Pandolfo Malatesta 1450-1451
Affresco trasferito su tela, cm 257 x 345, Rimini, Tempio Malatestiano.


L’affresco si trova nella chiesa di S. Francesco, ricostruita all’esterno da Leon Battista Alberti e splendidamente decorata di bassorilievi da Agostino di Duccio e da altri lavoranti della pietra e comunemente nota col nome di “Tempio Malatestiano”.
Il committente Sigismondo Pandolfo Malatesta cancellò persino il nome di S. Francesco titolare della vecchia chiesa, vorrà che fosse chiamato Templum e verrà dedicato umanisticamente, e certo spiacendo alla Chiesa, con una iscrizione greca al Dio immortale ed alla città. Si noti al Dio e non a Dio; c’è una certa differenza. Un Tempio, emblema del Rinascimento, che volta a volta è stato definito Tempio esotico, esoterico, eroico, erotico, eretico. 
...
Inginocchiato in primo piano è Sigismondo Pandolfo Malatesta, signore di Rimini dal 1432 al 1468, di fronte al suo santo patrono. Sigismondo, pur essendo di profilo nella tipica postura del “devoto” genuflesso sul gradino di una pedana e impettito a mani giunte, è collocato al centro della scena, con dimensioni maggiori e su un piano più avanzato rispetto al santo, e spicca nitidamente, anche a causa dello spazio vuoto dello sfondo del muro. 
Ritroviamo Sigismondo in questa medaglia di Pisanello

Pisanello, Medaglia per Sigismondo Malatesta, bronzo, fusione, Ø mm 88,6, 
recto: busto di Sigismondo Malatesta 
SIGISMVNDVS • PANDVLFVS • DE • MALATESTIS • ARIMINI • FANI (rosa) d[OMINUS] (rosa), 
Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. I. 5891. 

La medaglia fu eseguita nel 1445 per celebrare la vittoria di Fano, la liberazione della città dall’assedio degli Sforza. I Malatesti furono signori di Fano dal 1356 al 1463. È effigiato di profilo Sigismondo Pandolfo Malatesta in forma di busto, girato a destra, con una ricca veste e con la tipica acconciatura ricadente sul collo che si vede anche nel suo ritratto che gli fece Piero della Francesca. Vi si legge lungo il bordo in senso orario l'iscrizione SIGISMVNDVS PANDVLFVS DE MALATESTIS ARIMINI FANI D[VX o OMINUS] ("Sigismondo Pandolfo Malatesta, comandante di Rimini e Fano").



Nell'affresco riminese vi un forame, una finestra rotonda od oculo. Intorno all’oculo con la veduta del castello, si leggono questi caratteri: 
CASTELLVM SISMONDVM ARIMINENSE MCCCCXLVI.
Dobbiamo certamente pensare che Sigismondo volle che fosse raffigurato accanto a sé il Castello che egli aveva fatto erigere a cominciare dal 20 maggio 1437 e che, per accontentarlo Piero della Francesca dovette fingere nella parete un oculo da cui si potesse intravvedere la fortezza.
Curiosamente – in pochi l’hanno notato (mi pare solo Carlo Bertelli, Piero. Un pittore per due nemici, Skira, Milano, 2012 p. 9) – il castello malatestiano ritorna, fra l’altro, in un altro dipinto di Piero della Francesca, la tavoletta che dovrebbe rappresentare Girolamo Amadi in preghiera davanti al suo patrono.  

Piero della Francesca, San Gerolamo e un devoto, 1450 circa, tempera su tavola, cm 49 x 42 
Venezia, Gallerie dell'Accademia
Sul tronco d'albero a sinistra: petri de bv[r]go s[an]c[t]i sep/vlcri opvs; 
a destra in basso, sul terreno davanti al devoto inginocchiato: hier. amadi. avg. e.

Perché abbiamo usato il condizionale, dicendo dovrebbe rappresentare Girolamo Amadi di fronte a s. Girolamo?  
Il santo raffigurato in questo dipinto viene comunemente identificato con san Gerolamo penitente, pur essendo privo dei suoi tipici attributi quali il galero, cioè il beretto rosso cardinalizio e il leone, di cui il santo, secondo la leggenda, conquisto la fedeltà togliendogli una spina dalla zampa. Si noterà che il devoto inginocchiato richiama i lineamenti di Giovanni Bacci, committente degli affreschi della Leggenda della Croce di San Francesco e ritratto nella Flagellazione.
Sul tronco d'albero a sinistra si legge petri de bv[r]go s[an]c[t]i sep/vlcri opvs, e a destra in basso, sul terreno prospicente il devoto inginocchiato, hier. amadi. avg. e.. Essendo Amadi il cognome di una famiglia veneziana vissuta tra il Quattrocento e il Cinquecento, fu ipotizzata una commissione proprio a Venezia. La maggior parte degli studiosi esclude però tale possibilità e assegna l'apposizione della scritta a un momento successivo, quando la famiglia ne acquisì la proprietà. Per motivi stilistici la datazione viene portata alla metà del Quattrocento, nell'ambito di quelle opere prodotte per le corti italiane di cui fa menzione Vasari.
Anche questo ritratto come l'affresco riminese descrive un'iniziazione.
….
La prima qualificazione dell’iniziato ai misteri pitagorico-platonici è l’amore per ciò che può chiarire l’essenza eterna che non può essere alterata dalla generazione e dalla corruzione (VI Repubblica).
Così come sono scarsissimi i nostri elementi di conoscenza sui rituali delle iniziazioni antiche, altrettanto scarsi sono i dati sul rituale iniziatico che veniva praticato nel Rinascimento.
Pletone viene chiamato da Bessarione mistagogo, che significa, maestro di iniziati, letteralmente colui che conduce all’iniziazione misterica. Bessarione ci dice anche che Pletone aveva raggiunto l’epopteia, il grado supremo, la visione. In una sua lettera indirizzatagli dall’Italia dopo la sua nomina a cardinale gli si rivolgeva come l’unico maestro vivente di iniziati — ancora , l’iniziatore ai misteri — e iniziato del cerchio più recondito di Platone — cioè chi ha raggiunto l’epopteia, ovvero il più alto grado degli iniziati ai misteri, colui che ha raggiunto la visione del sacro.
Io ritengo che l’utilizzo di questo appellativo da parte di colti bizantini sottintenda anche almeno un paio di altri significati. 
Il primo va accostato al § 13 della Vita di Proclo di Marino di Neapoli, dove si racconta che Proclo, dopo aver studiato, sotto la guida di Siriano, per due anni, tutte le opere di Aristotele “come se fosse un’iniziazione ai piccoli misteri", il maestro lo introdusse “alla vera sacra dottrina di Platone … e lo rese capace di contemplare (epoptein) in lui [i.e. Platone] i misteri veramente divini”. Il che descrive il quadro di un perfetta formazione filosofica. È peraltro troppo noto come in Platone e nei suoi dialoghi sia spesso presente il paragone del percorso della conoscenza come una strada iniziatica e come in più modi prenda a prestito la terminologia dei misteri di Eleusi.
Eusebio, Clemente d’Alessandria e Giustino riferiscono che nei misteri eleusini il mistagogo, cantava un inno composto da Orfeo. Che l’inno fosse stato realmente composto da Orfeo appare problematico, ma che un qualche inno sacro fosse cantato durante il rito d’iniziazione è fortemente probabile. Comunque, quello che qui importa è l’importanza che Pletone attribuiva agli inni e allocuzioni agli dèi, che costituiscono larga parte dei frammenti superstiti del suo Trattato delle Leggi.

Gemisto era solito dire che Platone e prima di lui i pitagorici giudicavano fosse meglio non scrivere sulle questioni più importanti, ma trasmetterle oralmente, per via esoterica.
Ogni rito è costituito da un insieme di simboli e quando parlo di simboli nei riti d’iniziazione non intendo solo gli oggetti e le figure rappresentate, come si potrebbe essere superficialmente tentati di pensare, ma anche alle posture dei personaggi, alle parole eventualmente scritte 
L’iniziazione è essenzialmente una trasmissione di un influenza spirituale.
La soverchia esistenza di statuti, regolamenti, riunioni in luoghi e date fisse, la registrazione dei suoi membri, archivi e verbali delle sue sedute e altri documenti scritti, in breve tutto il circondario di un apparato esteriore più o meno ingombrante, è perfettamente inutile per un organizzazione iniziatica, che in fatto di forme esteriori ha bisogno soltanto di un certo insieme di riti e di simboli, che insieme ai loro insegnamenti, devono regolarmente trasmettersi per tradizione orale. Ogni cosa scritta, ci spiega, lo stesso Pletone è solo un semplice promemoria. Ecco perché le Accademie e i suoi membri sono in qualche modo inafferrabili. Non lasciano alcuna traccia accessibile all’investigazione degli storici ordinari, il cui metodo ha come carattere essenziale quello di riferirsi ai soli documenti scritti.
E allora ha ragione uno studioso warburghiano:
I misteri pagani rinascimentali furono concepiti per iniziati: richiedono quindi un’iniziazione. (Edgar Wind, Misteri pagani nel Rinascimento).
Ma quello che diceva Gemisto, lo ripete il suo discepolo Bessarione. 
Nell’In calumniatorem Platonis, la sua celebre opera in 4 libri, si troverà già in apertura del primo libro, nel secondo capitolo, una sequenza di argomentazioni. Bessarione illustra i motivi che indussero Platone a non scrivere nulla se non «per aenigmata» delle cose più alte e divine, nella convinzione che queste non si dovessero comunicare al volgo. Platone - secondo Bessarione - ha aderito al precetto dei pitagorici di non rendere pubblico l’insegnamento esoterico della scuola. Costoro «per tutta la vita tenevano segreti i misteri delle cose divine, affinché nulla trapelasse agli estranei e agli indegni». Assecondando la propria inclinazione ad avvicinare, per quanto possibile, sapienza antica e verità cristiana, Bessarione assimila al segreto pitagorico il precetto evangelico: «non date ai cani le cose sante e non gettate le vostre perle ai porci». Passa quindi a sottolineare la necessità e i vantaggi della tradizione orale, «quasi che con maggior sicurezza possano custodirsi quelle dottrine così sublimi sulla realtà divina se contenute non nei libri ma negli animi; e più dotti divengano gli studiosi di tali questioni se, confidando piuttosto nella memoria che nelle lettere, consegnino all’animo e non ai codici i principi della filosofia». Accennando al mito di Theut nel Fedro, e quindi alla svalutazione del discorso scritto, immagine esteriore del discorso vivente dell’anima, Bessarione prospetta i pericoli conseguenti all’apprendimento estrinseco per mezzo delle lettere, che conduce all’«opinione» e all’«ombra della sapienza», mentre solo il ricordo per forza intrinseca dell’animo guida alla «vera sapienza».
Per rafforzare ulteriormente l’argomentazione Bessarione riporta, traendola dal De vita Pythagorae di Giamblico, la lettera di Liside a Ipparco tutta volta a dimostare, in chiave iniziatica, le ragioni del rispetto per «i divini insegnamenti di Pitagora», e dunque la necessità «di non dividere i beni della filosofia con quanti neppur lontanamente han pensato a purificarsi». Segreto pitagorico e segreto platonico s’identificano nella continuità di una tradizione sapienziale esoterica che si astiene da ogni divulgazione per mezzo della scrittura. Bessarione è convinto che il costume pitagorico sia stato «salvaguardato da tutti i successori della sètta fino ai tempi di Platone. Anche Platone l’ha sempre mantenuto con gran cura. Infatti ha insegnato non con i libri ma con la voce, né ha lasciato libri intorno all’oggetto del suo insegnamento. Se mai ha scritto qualcosa, egli la dichiara non sua ma di Socrate. E ancora, ha esposto i precetti sulle cose divine in maniera così breve oscura ed implicita, da renderne difficile l’intelligenza ai lettori».
A sostegno dell’interpretazione, Bessarione non manca di riportare i luoghi canonici del «platonismo esoterico», la seconda lettera a Dioniso de natura primi entis e la Settima lettera, concludendo: «Da ciò è manifesto che Pitagora e Platone hanno giudicato che non si dovesse scrivere assolutamente nulla e che questioni di tal fatta [sc. i principi primi teologico-filosofici] non dovessero esporsi agli occhi della moltitudine».
Né qui si arresta l’argomento del Cardinale che, riferendosi a un passo del De bello Gallico, evoca il divieto druidico di trasmettere in forma scritta i precetti della saggezza sacerdotale: «Così non solo a giudizio dei pitagorici, ma anche dei druidi, che l’antichità stimò per dottrina e costumi, non era lecito tramandare per iscritto l’insegnamento dei principi supremi, affinché le più elevate dottrine fossero propagate nel volgo. Dunque Platone non ha scritto nulla o pochissimo e in modo assai oscuro, intorno ai principi primi e supremi, perché non è lecito comunicare ai molti una così grande verità, ma è molto più giusto onorarla e venerarla con tutto l’animo».
Se dunque Platone è il filosofo dell’interiorità, che tanto più custodisce verità sacre quanto meno le estrinseca con gli strumenti della comunicazione scritta, come debbono essere giudicati i suoi dialoghi? Per Bessarione essi non vertono «de primis supremisque rebus», ma solo «de ceteris rebus» e, composti «con grande arte e con singolare dottrina », contengono «molti e utilissimi precetti di quasi tutte le scienze e discipline liberali», sebbene anche per questi insegnamenti valga il principio che meglio sarebbero appresi e conservati nell’«assidua meditazione spirituale» e dalla «memoria» piuttosto che attraverso l’espressione scritta.
Il primato della trasmissione interiore e orale della saggezza si fonda sull’esperienza della indistruttibilità della memoria nella successione dei maestri e dei discepoli. «Infatti le devastazioni, le distruzioni e gli incendi delle città, ed altre quasi infinite calamità possono più facilmente distruggere i libri che estinguere la memoria degli uomini». Pur anteponendo la memoria alle lettere e la silenziosa venerazione del divino alla divulgazione del sacro, Bessarione non nega l’utilità della tradizione scritta, così come pur esaltando Platone non intende negare i meriti, sebbene su un piano diverso e sostanzialmente inferiore, di Aristotele che, nelle accuse mosse dal Trapezunzio, era rivendicato come l’espressione più alta della scienza scritta e sistematizzata. Bessarione però non approfondisce, né coordina alle precedenti affermazioni, il generico riconoscimento del valore della tradizione scritta.

Arca di Giorgio Gemisto Pletone.Tempio Malatestiano, Rimini.

Di Gemisto Bizantino, de’ filosofi del tempo suo principe, la spoglia mortale Sigismondo Malatesta, figlio di Pandolfo, condottiero nella guerra Peloponnesiaca contro i Turchi, per l’immenso amore di cui arde verso gli eruditi, quivi curò affinché fosse trasportata e onoratamente sepolta.
Così letteralmente dal latino.
Come è noto, Sigismondo Malatesta, dopo la sua scomunica e le sue disgrazie politiche,  per salvare la sua vita dovette sostenere, al soldo della Repubblica di Venezia, una crociata contro i turchi nel Peloponneso; non li scaccia dalla Morea come veniva allora chiamata la penisola greca, ma gli riesce di liberare nel 1464 a Mistrà il suo “santo sepolcro”: sottrae i resti mortali di Pletone, li porta con sé a Rimini e li seppellisce sotto le arcate del Tempio Malatestiano. Nell’affresco di Rimini si sovrapporrebbe quindi un’altra iniziazione, quella alla filosofia di Platone che Sigismondo avrebbe ricevuto dallo stesso Pletone nel 1439. O meglio, più che alla filosofia platonica ai “misteri platonici” come racconta Marsilio Ficino nel 1492 nel suo proemio alla traduzione delle Enneadi di Plotino. Vale la pena ricordare che il verbo Mueô, in greco da cui deriva il termine misteri,  vuole anche dire, in modo assai preciso, iniziare ai misteri e, in pari tempo, istruire (ma anzitutto istruire senza parole come avveniva in effetti negli Antichi Misteri) e consacrare. Mustes, poi, è l’iniziato ai misteri.