sabato 3 dicembre 2016
lunedì 7 novembre 2016
Così la poco attraente Rimini finì nel Grand Tour di Paolo Zaghini
Tratto da Chiamamicitta.it :
Attilio Brilli (a cura) All’epoca del Grand Tour. Viaggiatori stranieri lungo le vie consolari.
Banca CARIM.
Mah … alla fine dopo aver sfogliato questo volume uno si domanda perché esso sia stato edito. Belle le foto a tutta pagina che prevalgono sicuramente sul testo, molto conciso ed essenziale. Ma privo di un “cuore” centrale del racconto.
Attilio Brilli è uno dei massimi storici della letteratura di viaggio, oltre che autore di numerosi testi storici e interpretativi sull’argomento. Docente universitario, è stato per molti anni professore ordinario di Letteratura angloamericana presso l’Università di Siena. Digitando il suo nome sul catalogo on-line delle biblioteche OPAC Romagna (e dunque non quello nazionale) emergono, dai primi anni ’70 ad oggi, 220 pubblicazioni a suo nome fra testi propri, curatele, traduzioni: una produttività editoriale altissima. Con saggi importanti, tra i quali vanno citati almeno lo studio sulla pratica del Grand Tour Quando viaggiare era un’arte (Il Mulino, 1995), l’opera enciclopedica sulla pratica del viaggio in Italia dal Medioevo a oggi Il viaggio in Italia. Storia di una grande tradizione culturale (Il Mulino, 2006), le indagini sul viaggio come scoperta di un mondo altro de Il viaggio in Oriente (Il Mulino, 2009) e quelle sul viaggio come esplorazione e conquista illustrati in Dove finiscono le mappe (Il Mulino, 2012) e in Mercanti avventurieri. Storie di viaggi e di commerci (Il Mulino, 2013), in cui sono descritte le epiche imprese dei mercanti del Medioevo che aprirono nuove vie ai commerci fra Oriente e Occidente. Tra i suoi lavori più recenti Il grande racconto del viaggio in Italia. Itinerari di ieri per viaggiatori di oggi (Il Mulino, 2014).
E’ da quest’ultima opera che nasce il volume della Carim, ma anche quello della Banca Valconca Viaggiatori stranieri fra Romagna e Marche: XIX – XX Secolo (2014). Entrambi i volumi sono una riduzione a strenna bancaria di un’opera importante. Una operazione commerciale/editoriale che mi porta a chiedere: perché?
Lo dico in quanto so benissimo le difficoltà che esistono per far finanziare progetti editoriali del territorio, anche importanti. Mi si potrà rispondere: ma cosa vuoi? I soldi sono nostri e decidiamo di spenderli come ci pare. Giusto, ma fino ad un certo punto. Chiedo dunque al sistema bancario riminese più attenzione al lavoro di ricerca e di produzione dei centri culturali del territorio, cosa che in parte diversi istituti (ma non tutti) stanno già facendo. E in questi anni di crisi anche il più piccolo finanziamento è prezioso per consentire il prosieguo di attività che danno alla Città risultati importanti.
Mi scuso con Brilli per averlo chiamato in causa. Non è la sua competenza in discussione. Mi sia dunque consentito dire che il capitolo del libro edito dalla Carim e dedicato a Rimini ha annotazioni interessanti. L’essere Rimini crocevia: “nella lunga stagione del Grand Tour e quindi del viaggio in Italia, tra la fine del XVI e gli inizi del XX secolo, non c’è viaggiatore che non faccia tappa a Rimini, sia che provenga da Roma o da Bologna, oppure da Perugia o da Ancona”.
Brilli cita poi le relazioni di viaggio degli inglesi Joseph Forsyth di inizio ‘800, di John Addington Symonds negli anni Settanta dell’800, di Edward Hutton a cavallo fra ‘800 e ‘900, dell’americano Dan Fellows Platt che nel 1904 percorre l’Italia “with car”. Ed infine l’inglese Adrian Stokes negli anni ’30, autore dello straordinario volume Stones of Rimini dedicato al Tempio Malatestiano (tradotto nel 2002 da Moreno Neri per l’editore Raffaelli).
Il giudizio di tutti questi forestieri su Rimini è comune: “Rimini non è una città attraente, … una città in nessun modo pittoresca, una città campagnola che s’estende quasi alla maniera dei suburbi industriali del nord” (Stokes). Ma nel caso di Stokes poi c’è l’incontro con il Tempio Malatestiano e la scoperta della figura di Sigismondo Pandolfo Malatesta: un amore a prima vista.Nella Presentazione del volume è scritto: “Un tempo la circolazione di persone da un luogo all’altro dell’Europa era legato ad eventi contingenti: commerciali, diplomatici, bellici, religiosi; o culturali in senso stretto: si pensi ad esempio a quella esigua minoranza di studenti che nel Medioevo frequentò le università di Bologna, Siena, Padova. Dalla seconda metà del ‘500 e viepiù nel corso del ‘600, la connotazione del viaggio finì per coincidere con quella del Grand Tour che nel ‘700, Epoca dei Lumi, divenne fenomeno diffuso e à la page: alcune privilegiate elite di touristes, inglesi soprattutto, fecero dell’Italia, il mitico approdo di virgiliana memoria, la meta privilegiata delle loro peregrinazioni laiche, alla ricerca di testimonianze dell’antichità greca e romana”. Ed è così che anche Rimini finì nel circuito del Grand Tour.
Paolo Zaghini
Attilio Brilli (a cura) All’epoca del Grand Tour. Viaggiatori stranieri lungo le vie consolari.
Banca CARIM.
Mah … alla fine dopo aver sfogliato questo volume uno si domanda perché esso sia stato edito. Belle le foto a tutta pagina che prevalgono sicuramente sul testo, molto conciso ed essenziale. Ma privo di un “cuore” centrale del racconto.
Attilio Brilli è uno dei massimi storici della letteratura di viaggio, oltre che autore di numerosi testi storici e interpretativi sull’argomento. Docente universitario, è stato per molti anni professore ordinario di Letteratura angloamericana presso l’Università di Siena. Digitando il suo nome sul catalogo on-line delle biblioteche OPAC Romagna (e dunque non quello nazionale) emergono, dai primi anni ’70 ad oggi, 220 pubblicazioni a suo nome fra testi propri, curatele, traduzioni: una produttività editoriale altissima. Con saggi importanti, tra i quali vanno citati almeno lo studio sulla pratica del Grand Tour Quando viaggiare era un’arte (Il Mulino, 1995), l’opera enciclopedica sulla pratica del viaggio in Italia dal Medioevo a oggi Il viaggio in Italia. Storia di una grande tradizione culturale (Il Mulino, 2006), le indagini sul viaggio come scoperta di un mondo altro de Il viaggio in Oriente (Il Mulino, 2009) e quelle sul viaggio come esplorazione e conquista illustrati in Dove finiscono le mappe (Il Mulino, 2012) e in Mercanti avventurieri. Storie di viaggi e di commerci (Il Mulino, 2013), in cui sono descritte le epiche imprese dei mercanti del Medioevo che aprirono nuove vie ai commerci fra Oriente e Occidente. Tra i suoi lavori più recenti Il grande racconto del viaggio in Italia. Itinerari di ieri per viaggiatori di oggi (Il Mulino, 2014).
E’ da quest’ultima opera che nasce il volume della Carim, ma anche quello della Banca Valconca Viaggiatori stranieri fra Romagna e Marche: XIX – XX Secolo (2014). Entrambi i volumi sono una riduzione a strenna bancaria di un’opera importante. Una operazione commerciale/editoriale che mi porta a chiedere: perché?
Lo dico in quanto so benissimo le difficoltà che esistono per far finanziare progetti editoriali del territorio, anche importanti. Mi si potrà rispondere: ma cosa vuoi? I soldi sono nostri e decidiamo di spenderli come ci pare. Giusto, ma fino ad un certo punto. Chiedo dunque al sistema bancario riminese più attenzione al lavoro di ricerca e di produzione dei centri culturali del territorio, cosa che in parte diversi istituti (ma non tutti) stanno già facendo. E in questi anni di crisi anche il più piccolo finanziamento è prezioso per consentire il prosieguo di attività che danno alla Città risultati importanti.
Mi scuso con Brilli per averlo chiamato in causa. Non è la sua competenza in discussione. Mi sia dunque consentito dire che il capitolo del libro edito dalla Carim e dedicato a Rimini ha annotazioni interessanti. L’essere Rimini crocevia: “nella lunga stagione del Grand Tour e quindi del viaggio in Italia, tra la fine del XVI e gli inizi del XX secolo, non c’è viaggiatore che non faccia tappa a Rimini, sia che provenga da Roma o da Bologna, oppure da Perugia o da Ancona”.
Brilli cita poi le relazioni di viaggio degli inglesi Joseph Forsyth di inizio ‘800, di John Addington Symonds negli anni Settanta dell’800, di Edward Hutton a cavallo fra ‘800 e ‘900, dell’americano Dan Fellows Platt che nel 1904 percorre l’Italia “with car”. Ed infine l’inglese Adrian Stokes negli anni ’30, autore dello straordinario volume Stones of Rimini dedicato al Tempio Malatestiano (tradotto nel 2002 da Moreno Neri per l’editore Raffaelli).
Il giudizio di tutti questi forestieri su Rimini è comune: “Rimini non è una città attraente, … una città in nessun modo pittoresca, una città campagnola che s’estende quasi alla maniera dei suburbi industriali del nord” (Stokes). Ma nel caso di Stokes poi c’è l’incontro con il Tempio Malatestiano e la scoperta della figura di Sigismondo Pandolfo Malatesta: un amore a prima vista.Nella Presentazione del volume è scritto: “Un tempo la circolazione di persone da un luogo all’altro dell’Europa era legato ad eventi contingenti: commerciali, diplomatici, bellici, religiosi; o culturali in senso stretto: si pensi ad esempio a quella esigua minoranza di studenti che nel Medioevo frequentò le università di Bologna, Siena, Padova. Dalla seconda metà del ‘500 e viepiù nel corso del ‘600, la connotazione del viaggio finì per coincidere con quella del Grand Tour che nel ‘700, Epoca dei Lumi, divenne fenomeno diffuso e à la page: alcune privilegiate elite di touristes, inglesi soprattutto, fecero dell’Italia, il mitico approdo di virgiliana memoria, la meta privilegiata delle loro peregrinazioni laiche, alla ricerca di testimonianze dell’antichità greca e romana”. Ed è così che anche Rimini finì nel circuito del Grand Tour.
Paolo Zaghini
venerdì 14 ottobre 2016
TESTA MATTA: MONTHERLANT E IL SUO "MALATESTA"
Da “LA VOCE DI ROMAGNA”, venerdì 7 ottobre 2016, p. 26
TESTA MATTA
70 anni fa Montherlant, scrittore
eccentrico, eretico e toreador
compone “Malatesta”. Scoprirà
poco dopo che la sua nutrice era
una
discendente di Sigismondo
Parole sante. «I peggiori nemici d’un
uomo sono i suoi compatrioti».
Le pronuncia Sigismondo Pandolfo Malatesta, secondo il Malatesta di Henry de Montherlant. La frase spiega, in modo
sintetico, i rapporti che Rimini stringe con i grandi suoi. Se può li
dimentica. Altrimenti, li defenestra. Sul Malatesta
di Montherlant abbiamo abbozzato un pensiero ieri, nelle pagine della cronaca
riminese. L’episodio, però, è esemplare: intorno al corpo di Malatesta, che il
prossimo anno fa 600 anni, hanno scritto due giganti della letteratura
occidentale. Ezra Pound (la porzione dei Cantos
dedicata al condottiero) e Montherlant, che 70 anni fa redige una pièce
teatrale, Malatesta, appunto, quasi
subito (nel 1952) tradotta in italiano da Camillo Sbarbaro, il poeta che si
studia anche a scuola, per Bompiani. Entrambi, però, Pound e Montherlant, sono
beatamente ignorati dalla città di Rimini, nella rappresentazione che di essa
ne danno i suoi amministratori. Il problema di fondo? Che Pound e Montherlant
sono delle bestie esteticamente titaniche ma politicamente poco
addomesticabili. Pound per i problemi che sappiamo (adesione fascista),
Montherlant, autore di romanzi bellissimi e fautore di «un’estetica del
contrasto e della diversità», nato 120 anni fa, perché devoto all’individualismo
assoluto, siderale, «Montherlant aspira
a una morale della qualità: ammira la cavalleria medioevale e l’ideale dei
samurai; le imprese impossibili
esercitano su di lui una strana
attrazione» (Favre). Pur Accademico di Francia, infatti, le bizze di Montherlant,
autore molto tradotto un dì (Mondadori e Bompiani soprattutto) e un faro
dimenticato oggi, nell’epoca dell’afasia e dell’automatismo (Adelphi ha in
catalogo il feroce Le ragazze da marito, mentre Aragno, l’anno scorso, ha pubblicato il
capolavoro teatrale del francese, Port-Royal),
non stavano né a destra né a sinistra. Toreador per sfidare la morte (nel 1925
un toro gli perforò il fianco), centometrista eccellente, calciatore notevole,
eroe della Prima guerra (fu solcato da sette schegge di granata), «stilista che
ausculta l’io, religioso dell’istante, cattolico per tradizione familiare ma
nel senso di una chiesa che manta la guardia al dio Pan, anarchica, uomo del
rinascimento» (Gianni Nicoletti), Montherlant ci lascia, nel giorno di
equinozio del 1972, quasi cieco, sparandosi. Di antica famiglia aristocratica, Montherlant succhiò il latte da una nobile
amica della madre, Marie de La Fontaine Soliers. La quale, «era discendente dei
Malatesta». La storia la narra l’eccentrico francese in Latte dei Malatesta (stampato in L’infinito è dalla parte di Malatesta, Raffaelli, 2004): l’amico Maurice Bedel gli
squaderna «una genealogia, stampata nel 1680», in cui la stirpe dei Fontaine Soliers
si connette ai Malatesta, con cui condividono lo stemma. «Ed è innegabile che la donna che mi diede il seno, a
pari con la mia nutrice, avesse legittimamente il medesimo blasone che aveva Sigismondo Pandolfo Malatesta».
Ergo: «che un autore scopra in questo modo, a cose fatte, una sorta di
parentela reale tra uno dei suoi eroi e lui stesso non vi è in ciò di che
sognare?». Micidiale Montherlant, che in un passaggio supremo della pièce, in
cui il Malatesta fronteggia e sfida il Papa, fa dire al gran riminese,
«Prendermi Rimini! A me! a me! a me! Ma il mare che batte le spiagge di Rimini
e vi si frange, ripete il nome di Malatesta». Montherlant, ossessionato dalla
figura del Malatesta (esiste anche un suo scritto sulla Medaglia d’Isotta scalfita da Matteo de’ Pasti), ammette, «quante
volte non ho sognato “Se potessi veder rappresentare Malatesta nella Rocca!”». II sogno si realizza il 28 luglio 1969,
quando «con un anno di ritardo sul cinquecentenario» (non le azzeccavano
neppure allora), Malatesta va in
scena a Castel Sismondo. Regia di José Quaglio, Arnoldo Foà a fare Sigismondo e
Tino Carraro nel ruolo di Paolo II. «Non
si allontaneranno da me le creature nate dalla Storia e dai miei sogni, dal mio
rispetto profondo e dal mio più profondo amore, miei figli e mie figlie quanto
più sicuri dei figli che la nostra carne distratta disperde nella materia
occasionale», scrive Montherlant, in un articolo offerto al “Resto del
Carlino”. Chissà perché a nessuno è venuto in mente di ripigliare il Malatesta.
Perplessità “politica”? Magari, qui si annega soltanto nell’ignoranza. (d.b.)
In scena a
Rimini nel 1969, ha passaggi
fulminei:
«Prendermi Rimini! A me!
Ma il mare
che batte le spiagge di Rimini
e vi si
frange, ripete il nome di Malatesta»
Non
abbiate paura di onorare Malatesta
LA CHICCA UN
BRANDELLO DALL’ARTICOLO DI MONTHERLANT PER LA MESSA IN SCENA
DEL SUO LAVORO A RIMINI. UN INNO ALLA POTENZA DELL’INDIVIDUO
CONTRO L’IDEOLOGIA
Malatesta vantava la sua discendenza da Scipione l’Africano, col sorriso
intimo, io credo, di chi non si lascia ingannare dai propri sogni ma getta nel
fuoco tutta ciò che gli si offre per avvivare la fiamma. Con quel medesimo
sorriso io stesso ho accolto un giorno la notizia che, se nel latte è contenuto
il sangue, in me c’era qualche goccia di sangue malatestiano, dal momento che
un’amica di mia madre, che mi allattò, discendeva dai Malatesta (ne constatai
la discendenza su di una pergamena vecchia di due secoli) e su di un anello
portava lo scudo di Sigismondo. E con quel medesimo sorriso accolsi un’altra
volta la frase di Jean Cocteau: «Montherlant è l’aquila a due teste: la testa
del Maitre de Santiago, quella di Malatesta». Quando Malatesta fu scomunicato,
spogliato della sua autorità, condannato al fuoco, i suoi sudditi fuggivano
davanti a lui come davanti al diavolo, e il gentile Novello suo fratello passava
alle truppe del papa. Gli Italiani di oggi non hanno timore di onorare la
memoria di questo eterno accusato. E ciò li onora perché così facendo non
celebrano il campione di una qualsiasi causa o ideologia nebulosa, destinata a
svanire nella nebbia; ma celebrano il raro personaggio in cui si condensarono
il talento, le conoscenze e le passioni.
Henry de Montherlant
Exit
Sognare
la mia morte
fa parte
integrante
dell’amore
che si
ha per me
Henry de
Montherlant
(da “Malatesta”)
mercoledì 12 ottobre 2016
Si sono dimenticati pure di “Malatesta”
Da
“LA VOCE DI ROMAGNA”, giovedì 6 ottobre 2016, p. 10
Si sono dimenticati pure di “Malatesta”
Si sa, l’anniversario fa venire la bava
alla bocca all’intellettuale. Ai mandarini riminesi, quelli che stanno
chiusi a Palazzo Garampi, al contrario, gli anniversari fan solo girare le
balle. Lasciamo stare il cinquecentenario dalla morte di Giovanni Bellini, l’icona
del Museo della Città (dimenticanza che imbarazza la cultura civica), ricordiamoci,
per lo meno, che il prossimo anno sono i 600 dalla nascita di Sigismondo
Pandolfo Malatesta. Sul Malatesta, di cui il Sindaco Andrea II Gnassi si sente
il pimpante erede, si presume, il Comune farà qualcosa. La frittata, intanto,
per quest’anno, è fatta. 70 anni fa, infatti, viene pubblicata Malatesta, pièce marmorea e barocca, «un
epitaffio al culto della Rinascenza» (Luca Scarlini), scritta da Henry de Montherlant, tra i grandi scrittori francesi del
Novecento, un tipo che «sfugge a ogni classificazione», pubblicato in Italia da
Bompiani, Mondadori, Adelphi. Il testo, poi, compilato sul crinale della
Seconda guerra, quando Montherlant, troppo esagitato per i “rossi”, troppo esclamativo per i “nazi”, «isolato dal mondo,
sognava un eroe» (Giuseppe Scaraffia), prese la via del teatro (nel 1950, al Théatre
Marigny) e della televisione (nel 1967). Il “dramma in quattro atti” dedicato a
Sigismondo Pandolfo Malatesta, «condottiero,
poeta, erudito, mecenate, assassino, sfrenato donnaiolo nonostante l’amore
appassionato che in lui non vien mai meno per la moglie Isotta, leggero
abbastanza per far erigere una chiesa in cui non c’erano che simboli pagani,
grave abbastanza per vivere come gli anacoreti con un teschio sul tavolo,
sacrilego abbastanza per venir condannato al rogo dal Santo Ufficio, religioso
abbastanza per morire cristianamente» (Montherlant), gode di una traduzione
nobile in italiano, quella del poeta Camillo Sbarbaro, pubblicata in origine da
Bompiani nel 1952 e ripresa da Raffaelli nel 1995. L’ossessione di Montherlant
(autore di romanzi assoluti come Il caos
e la notte e Le ragazze da marito)
per il Malatesta è testimoniata dal libro, stratosferico, L’infïnito è dalla parte
di Malatesta, edito sempre da Raffaelli, nel
2004. In quelle pagine, Moreno Neri ci ricorda che il Malatesta di Montherlant cascò pure a Rimini, nel «cinquecentenario
della morte di Sigismondo Pandolfo Malatesta», era il 1969, nella Rocca, con
Arnoldo Foà protagonista. «Malatesta è l’eroe
solamente di se stesso; ed è l’individuo solo, senza i suoi fini e le sue
ragioni, ad essere esemplare per i fini e le ragioni di sempre», scrisse
per quell’evento Montherlant medesimo. Fu un trionfo. Montherlant quest’anno farebbe
120 anni ma poco importa se a Rimini nulla importa della ricorrenza, ci abbiamo
fatto il callo. D’altronde, non esiste più neppure un Assessorato ‘alla cultura’.
Pessimo segno. (d.b.)
CULTURAME Usciva 70 anni fa il testo
teatrale dedicato dal geniale
Montherlant
a Sigismondo. Capitò a Rimini, nel
1969...
mercoledì 28 settembre 2016
Fuocoammare in corsa agli Oscar. Pietro Bartolo: “Grazie a Rosi che ha saputo raccontare nel modo giusto quello che in 25 anni ho tentato di dire”
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Sul palco il Gran Maestro e il medico di Lampedusa Pietro Bartolo |
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Pietro Bartolo con Stefano Bisi a Villa Il Vascello il 17 settembre |
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Il Gran Maestro Stefano Bisi con Pietro Bartolo e il giovanissimo Domenico Buccafurri |
Riflettori ancora più accesi su Lampedusa e il dramma dei migranti. Una tragedia raccontata solo pochi giorni fa da Pietro Bartolo, medico in prima linea nell’isola che è stato ospite del Grande Oriente d’Italia al Vascello in occasione delle celebrazioni per il XX Settembre e i 70 anni della Repubblica. Una realtà, quella degli sbarchi, per troppo tempo considerata solo italiana e che diventa finalmente mondiale grazie al cinema. Parliamo del film documentario “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi che, dopo aver vinto l’Orso d’oro al Festival di Berlino, è ora candidato all’Oscar per il miglior film in lingua non inglese. La cerimonia di consegna si terrà a Los Angeles il prossimo 26 febbraio.
“Fuocoammare” racconta con immagini molto forti la vita quotidiana a Lampedusa tra normalità e dramma con gli sbarchi dei migranti. Pietro Bartolo è tra i protagonisti, nella sua professione di medico che nella realtà di tutti giorni, da più di due decenni, si occupa senza sosta delle prime visite a tutti i migranti che arrivano a Lampedusa e di quanti soggiornano nel centro di accoglienza.
“Viva il cinema”, dice Bartolo ai microfoni di RepubblicaTv. “Il cinema è un’arte molto potente – ha aggiunto – che riesce a entrare nel cuore della gente. Grazie a Rosi che ha saputo raccontare nel modo giusto quello che in venticinque anni ho tentato di dire”.
Nel convegno del 17 settembre al Vascello Pietro Bartolo ha commosso il pubblico del Grande Oriente d'Italia. Il suo racconto degli sbarchi di Lampedusa, degli uomini, delle donne, dei bambini in fuga dalle guerre e dalla fame, che ogni giorno il mare porta in Italia, le foto, il filmato che ha mostrato, hanno messo tutti di fronte ad una delle più drammatiche realtà della nostra epoca. Con crudezza e umanità. “Non chiamateli clandestini – ha detto il medico -. Sono persone che cercano una via di salvezza dagli orrori dei conflitti e della carestie. Una via di salvezza che non sempre riescono a trovare. È una umanità sofferente, che dobbiamo sapere accogliere, e alla quale dobbiamo restituire la speranza, non sottovalutando o addirittura negando le responsabilità in nome del dialogo”.
Un passaggio del video presentato da Pietro Bartolo durante il convegno
'Per l'Italia, per la Repubblica' realizzato il 17 settembre al Vascello
per i 70 anni della Repubblica e l'anniversario del XX Settembre. Nelle
immagini scene agghiaccianti che documentano la tragedia dei migranti a
Lampedusa.
lunedì 26 settembre 2016
Tornata in grado di Apprendista LA POSA DELLA PRIMA PIETRA
Il Grande Oriente d’Italia - Palazzo Giustiniani, grazie all’opera congiunta delle Officine degli ORIENTI DELLE VALLI ARETINE, con il patrocinio del COLLEGIO DEI MM.·.VV.·. DELLA TOSCANA e del COLLEGIO DEI MM.·.VV.·. DELL’UMBRIA ha rinnovato anche quest’anno la FESTA IN RICORDO DELLA POSA DELLA PRIMA PIETRA DEL TEMPIO DI SALOMONE con una TORNATA RITUALE IN GRADO DI APPRENDISTA che si è svolta DOMENICA 25 SETTEMBRE alle ORE 9,30.
Il Tempio è stato allestito presso il suggestivo e splendido Centro Convegni Sant’Agostino, in via Guelfa 40, a Cortona.
Ha tenuto il maglietto la R:.L:. BENEDETTO CAIROLI N. 119 ALL’ORIENTE DI AREZZO.
PRESENTE IL VENERABILISSIMO GRAN MAESTRO DEL G.O.I. FR.·. STEFANO BISI.
Moreno Neri ha tenuto una Tavola su Ipazia.
Per gli amici e le parti lunari presenti, nel corso della mattinata è stata organizzata una visita guidata al MAEC- Museo dell'Accademia Etrusca e della Città di Cortona.
È seguita, al termine di lavori rituali, alle ore 13.00, un’Agape Bianca nell’incantevole chiostro del Centro.
Dal Sito Ufficiale della Loggia Heredom n. 1224 all'Oriente di Cagliari: http://loggiaheredom1224.blogspot.it/2016/10/posa-della-prima-pietra-tornata-rituale.html
venerdì 14 ottobre 2016
Posa della Prima Pietra.
Tornata Rituale a Cortona col Gran Maestro Stefano Bisi
Domenica 25 settembre, nel convento di Sant’Agostino di Cortona, adibito da diversi anni a sede congressuale, si è svolta la Posa della Prima Pietra, un antico rituale che segnava la ripresa dei lavori muratori dopo la pausa estiva. La tornata con questo rito, ormai diventata consuetudine per le logge della Val di Chiana e delle città che la delimitano, cioè Arezzo, Perugia e Siena, nasce da una idea dell’ex maestro venerabile della Loggia Elia Coppi (930) di Cortona, Francesco Vinciarelli, che ha trovato subito nel Gran Maestro Stefano Bisi un convinto sostenitore.
Alla cerimonia del 25 settembre, condotta dal maestro venerabile della Loggia Benedetto Cairoli (119) di Arezzo, ha preso parte il Gran Maestro insieme a tutte le logge di Arezzo e provincia, rappresentate dai venerabili o dai loro incaricati, e ad alcune logge di Perugia, Siena, Firenze e Rimini. Sedevano all’Oriente anche il Grande Ufficiale Claudio Pagliai, i Giudici della Corte Centrale Raffaello Farsetti e Gianni Petrillo, il Consigliere dell’Ordine Paolo Mercati, il Grande Rappresentante Luca Calugi, I’Ispettore circoscrizionale Gianpaolo Pagiotti, il Presidente del Collegio della Toscana Francesco Borgognoni. L’orazione è stata tenuta da Moreno Neri, noto saggista, della Loggia Giovanni Venerucci (849) di Rimini. L’intervento del Gran Maestro Bisi ha chiuso solennemente la tornata.

L’intervento del Gran Maestro a Cortona

La locandina dell'iniziativa


giovedì 8 settembre 2016
CAGLIOSTRO MASSONE - Conferenza di Moreno Neri
Sabato 10 settembre alle ore 17.30 presso l'Hotel Splendid di Bellaria (Viale Pascoli 2, angolo P.le Kennedy), si svolgerà una conferenza di Moreno Neri su "Cagliostro Massone".
L'iniziativa è promossa dal Gran Capitolo d'Italia dell'Ordine della Stella d'Oriente.
Attivo in Italia da oltre mezzo secolo, l’Ordine internazionale della Stella d’Oriente (Order of the Eastern Star) fu fondato nel 1850 da Robert (Rob) Morris, allora Gran Maestro della Gran Loggia del Kentucky, e da sua moglie Charlotte Mendenhall per consentire alle donne di aderire a una scuola di metodo incentrata sui principi universali della Massoneria. Associazione autonoma ed indipendente dall’Ordine massonico, il Capitolo del nostro paese è sorto in Italia nel 1966 grazie alla pionieristica iniziativa del Fratello Robert "Bob" de Bruyn, oggi Worthy Grand Patron del Gran Capitolo d'Italia. Ad esso possono aderire donne che hanno un grado di parentela con Fratelli Massoni del Grande Oriente d'Italia. Si ritiene che questa istituzione parallela (o di adozione) sia, con le sue tre milioni di adepte, il più grande ordine femminile nel mondo.
All'incontro, aperto anche a profani, parenti, amici e simpatizzanti, farà seguito alle ore 21.00 una cena di gala presso l'Hotel Principe di Bellaria (Viale Pascoli 1, angolo P.le Kennedy) dal costo di 35,00 € a persona.
La partecipazione alla conferenza è aperta a tutti e non sarà necessaria la prenotazione, mentre per partecipare alla cena di gala è necessario prenotarsi al numero 0541 349234.
Parte del costo (5 €) della cena di gala andrà in beneficenza con destinazione a un progetto di musicoterapia per pazienti con degenerazioni neurovegetative.
sabato 20 agosto 2016
UN DIBATTITO FRANCO? CONTRO LE FALLACIE DEL FRONTE PROIBIZIONISTA
UN DIBATTITO FRANCO?
Contro le
fallacie del fronte proibizionista
A questo illuminismo non
occorre altro che la libertà; e precisamente la più inoffensiva di tutte le
libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione, in tutti i
campi. Ma da tutte le parti odo gridare: non ragionate! L’ufficiale dice: non
ragionate, fate invece esercitazioni militari! L’intendente di finanza: non
ragionate, pagate! Il prete: non ragionate, credete!
(Immanuel Kant, Risposta alla
domanda:
che cos’è l’Illuminismo, 1783)
Avevo
promesso di offrire qualche
esempio pratico di “fallacie logiche” per mostrare quanto esse siano presenti
in quello che, nel nostro disastrato Paese, continua ad essere pomposamente chiamato
dibattito politico. Diciamo subito (per sintetizzare in modo efficace ciò che
ho già lungamente illustrato) che le fallacie logiche equivalgono, in un
ragionamento, a quelli che sono i falli in una partita di calcio
Ho scelto la notizia diramata
dall’Agenzia DIRE sulla conferenza
stampa delle comunità terapeutiche avvenuta negli ultimi giorni di luglio. La
si può leggere al seguente link: http://www.dire.it/26-07-2016/67580-cannabis-asociazioni-del-no-con-la-legalizzazione-1-milione-di-zombie/http://www.dire.it/26-07-2016/67580-cannabis-asociazioni-del-no-con-la-legalizzazione-1-milione-di-zombie/
L’articolo a firma di Antonio
Bravetti, giornalista professionista, riporta diverse dichiarazioni
virgolettate: quindi è un po’ difficile che abbia letto male.
La conferenza indetta contro
la proposta lanciata da un intergruppo parlamentare per la legalizzazione della
cannabis e dei suoi derivati è un bell’esempio di un concentrato di
combinazioni di fallacie diverse. Normale: i cattivi argomentatori di solito ne
usano molte insieme.
Per quanto le comunità di
recupero facciano un ottimo lavoro, del tutto stimabile, sorprende quanto
realmente dichiarato dai loro rappresentanti che inanella una serie di “fallacie logiche”, ossia modi di argomentare falsi, fuori
tema, irrilevanti e non validi. Trattandosi di addetti ai lavori e pertanto non
privi di nozioni di psicologia, c’è di che dolersi del fatto che quello che
hanno detto in questa occasione non sia per nulla all’altezza di ciò che fanno
quotidianamente e in modo benemerito.
Vediamo una per una le
fallacie argomentative presenti nelle loro dichiarazioni riportate in corsivo.
Essendo studiate fin dall’Antichità come ho in precedenza spiegato, quasi tutte
hanno conservato il vecchio nome latino.
“Liberalizzate le canne e avremo un milione di
giovani zombie, incapaci di distinguere i contorni della realtà, con i tempi di
reazione alterati, con la percezione distorta della realtà e degli affetti”.
Questa fallacia è nota con la
locuzione latina argumentum ad
consequentiam. Consiste nell’utilizzare uno schema argomentativo (causale)
inadeguato che conduce a rigettare un punto di vista descrittivo in ragione delle
sue conseguenze indesiderabili.
Il “punto di vista
descrittivo”, evidentemente manipolatorio, è dove si parla di
“liberalizzazione” e non di “legalizzazione” di una sostanza che si trova in
ogni dove e viene consumata, più o meno abitualmente, da almeno quattro milioni
di persone nel nostro Paese. In buona sostanza il mercato criminale di massa, illegale,
non è mai stato stoppato e pertanto il milione di “giovani zombi” paventato da
Meluzzi circola già da decenni nel nostro Paese. Sarebbe dunque il caso di
essere risparmiati dalle visioni alla Romero e di restare a contatto con la
realtà.
L’intento è quello quindi di
dissuadere da una seria analisi: invece di presentare ragioni contrarie a una
determinata azione, le premesse come le conseguenze offrono un pretesto per non
discuterne affatto ed evitare di affrontare i punti critici della questione.
Il fulcro della questione
infatti sarebbe, in questo caso di tipo quantitativo, discutere le conseguenze
della legalizzazione che può avere logicamente solo tre effetti: il numero dei
consumatori diminuirà o aumenterà
o resterà stabile.
Poiché ogni parte di questo
ragionamento (se A allora B) non è garantito da nulla e abbiamo dimostrato l’invalidità
della premessa A e anche della conseguenza B sotto il profilo quantitativo
concentriamoci sugli aspetti qualitativi-descrittivi. Ci troviamo di fronte a
un’altra fallacia di pertinenza chiamata “della brutta china” (o “fallacia
della china scivolosa” o in altri modi similari quali, ad esempio, “del piano inclinato”, “della china pericolosa”, “del pendio scivoloso” che traducono l’espressione
inglese slippery slope argument). È quella in cui si trae una conseguenza
presentata come inevitabile, inarrestabile e disastrosa ma, in realtà, del
tutto arbitraria: le frasi chiave potrebbero essere “gli dai un dito si
prendono un braccio” oppure “di questo passo dove andremo a finire”. Possono
esprimere saggezza e buon senso popolare, ma anche al tempo stesso un rifiuto
immotivato ad articolare razionalmente le proprie scelte morali. Ci si basa
infatti su una predizione che deve essere supportata dai fatti o su evidenze
empiriche con significative probabilità per essere considerata rilevante.
In questo modo si giunge a
una conclusione finale inaccettabile con la quale si intende rigettare come
altrettanto irricevibile la tesi di partenza. Si tratta di uno strumento
retorico, molto utilizzato dai politici conservatori e dai moralisti a buon
mercato, inteso a creare falsi allarmi sociali ogni qualvolta si tratta di
polemizzare con qualche innovazione da essi ritenuta inaccettabile. È stato
molto utilizzato in occasione dell’introduzione del divorzio e dell’aborto ed è
tuttora utilizzato quando si parla, per esempio, di eutanasia o di
sperimentazione sulle cellule staminali e fecondazione assistita (in quest’ultimo
caso, invece degli zombi si evoca Frankenstein). L’argomento qui utilizzato
somiglia infatti a quello contro l’eutanasia quando si afferma che, se venisse introdotta, i medici potrebbero uccidere chiunque e in particolare
disabili, invalidi e anziani, che i familiari sarebbero spinti a sbarazzarsi
dei congiunti vecchi e ammalati e che gli infermi sarebbero spinti a chiedere
la morte per non spendere in medicine e cure: se A allora B e poi C, fino a
giungere alla “china scivolosa” dei campi di sterminio; assomiglia ancora a
quello delle staminali e della fecondazione assistita che porterebbero a
forme di clonazione riproduttiva per ragioni eugenetiche non diverse da quelle
sognate da Hitler. Ovviamente
laddove l’eutanasia è permessa o dove la cannabis è legalizzata non accade
nulla di quanto si paventa con una buona dose di determinismo (del futuro)
catastrofico e orribile. Ma ai cattivi politici fa comodo che la gente lo
pensi. Insomma, una buona
fallacia per questioni etiche e bioetiche con accuse infamanti che
sarebbe bene smascherare decisamente e sulle quali non perdere tempo.
E comunque questa fallacia è
particolarmente “squisita” sotto il profilo dell’errore argomentativo. Infatti
non è solo una “fallacia di pertinenza o di rilevanza” (sono dette così perché
manca un nesso logico tra la premessa e la conclusione che si intende
sostenere, sono cioè “irrilevanti”). L’argomento della china scivolosa implica
quasi sempre anche un altro tipo di fallacia, quella che fa appello alle
emozioni e ai sentimenti. Abbiamo qui infatti quello che viene definito argumentum ad metum o argumentum in terrorem, l’appello alla paura, una
variante dell’argomento ad consequentiam, al quale spesso si sovrappone.
Consiste nell’evocare conseguenze
terrificanti o comunque negative per far accettare all’interlocutore la propria
opinione o per influenzare il suo comportamento nella direzione sostenuta,
attraverso la paura e il pregiudizio. Fa appello alle parti più irrazionali
delle persone e circonda di un alone di paura molte delle discussioni popolari
sulle più varie questioni. È dunque un ottimo strumento di persuasione usato
molto spesso in politica per diffondere allarme sociale. Il problema connesso
all’impiego di questo argomento è che scatenare la paura induce i destinatari
dell’appello a saltare istintivamente alle conclusioni invece di guardare
realisticamente ai fattori coinvolti in una decisione: la paura, offuscando la
lucidità mentale, annebbia il comportamento razionale e il calcolo delle
probabilità. Proprio per questo il suo impiego può implicare oltre a
riflessioni logico-argomentative anche una valutazione morale (e, talvolta,
addirittura legale se concorre in reati come la truffa) data la sua finalità di
compromettere la comprensione di un problema. Occorre, di nuovo, opporsi a
questo genere di appelli in quanto, con intenti se non truffaldini certamente
manipolatori, spostano l’attenzione dagli argomenti. Anche quando l’appello
alla paura fosse legittimo, è ragionevole bilanciarlo con reali prove o serie ragioni
che mostrino chiaramente quanto asserito.
“La
cannabis è dannosa e la legalizzazione non funziona: laddove è stata
legalizzata la prostituzione c’è stato un aumento della domanda che non ha
ridotto il mercato nero.
Abbiamo visto che anche i terroristi di
queste ultime settimane erano sotto effetto di stupefacenti”.
Eccezionale! Qui abbiamo una
bella sfumatura del famoso argumentum ad
hominem. Non si discutono le argomentazioni di chi propone la
legalizzazione, ma si associa indebitamente il consumo della cannabis prima
alla prostituzione e poi al terrorismo. L’irrilevanza di questi argomenti è
facilmente dimostrabile: è altamente probabile che “i terroristi di queste
ultime settimane” fossero lettori del Corano, bisogna dunque proibire questo
libro? Chi avanza argomentazioni di questo genere, cerca di ottenere il consenso sulla propria posizione screditando
la proposta rappresentandola innanzitutto come inutile e immorale e poi
pericolosa per la nostra incolumità (associare il consumo della cannabis al
terrorismo – lo dice la parola stessa – è di nuovo un argumentum in terrorem). Anche in
questo caso, anziché criticare e confutare
una tesi su di un piano logico-razionale, si attacca chi l’ha proposta
attribuendogli inesistenti “colpe per associazione” con una forte carica
emotiva e retorica. Si tratta di un vecchio arnese retorico, molto ben indagato
per sviare dalla sostanza dell’argomento: una tattica oratoria efficacemente e
ironicamente chiamata reductio ad
Hitlerum. Con questa argomentazione fallace può essere considerato non
etico, o comunque condannabile o deprecabile, dipingere, amare i cani o essere
vegetariani, tutte attività e inclinazioni in cui era coinvolto il dittatore
nazista.
Risulta lampante che argomentazioni di questo tipo sono un
disperato tentativo di sostenere la propria posizione in mancanza di argomenti
validi. Tuttavia se si riflette bene ci si accorge, ancora una volta, che chi
gioca questa carta non ha come reale destinatario di questa fallacia la
controparte della discussione, ma una terza parte, l’uditorio o i lettori (a
nessuno dei quali piace essere associato ai clienti delle prostitute o ai
terroristi). L’intento è quello di demonizzare gli avversari associandoli con
il male e di far così deragliare qualsiasi corretta discussione.
“Con
il disastro in cui versa l’Italia, con le minacce che incombono sull’Europa, il
flagello dell’immigrazione incontrollata, l’assedio alla cultura cristiana, è
possibile che la politica senta come grande emergenza la legalizzazione delle
canne? Se un extraterrestre si affacciasse ora sulla Terra resterebbe
inorridito. Credo che serva un rigurgito di saggezza contro questa deriva
folle”.
E i
due marò? Ce li vogliamo dimenticare?
Qui sopra abbiamo l’esempio
di una delle più note fallacie: l’ignoratio elenchi (la sua traduzione
approssimativa è “ignorare la questione”), forse la più nota mossa scorretta
nel gioco dell’argomentazione, la più grave violazione delle sue regole:
proporre questioni senza alcun rapporto col tema della discussione. Questa tecnica nasconde bene
il mancato utilizzo del modo adeguato di argomentare che consiste invece nel
citare dei fatti concreti che dimostrino il torto della tesi avversaria. L’importante
è andare fuori tema ed è perfetta per la distrazione di massa. Si ignora bellamente la questione in argomento ed è
abitudine per chi se ne avvale di accompagnare la mancanza di confutazione della tesi con una
bella manciata di sdegno e di insulti quanto basta, senza che i giudizi su
altre questioni non pertinenti (“il disastro in cui versa l’Italia, con le
minacce che incombono sull’Europa, il flagello dell’immigrazione incontrollata,
l’assedio alla cultura cristiana”) siano supportati dalla benché minima
dimostrazione, pur potendo in sé anche essere validi. Nel caso qui esaminato
(ma valido per tutte le fallacie di ignoratio elenchi) si giunge a una conclusione
irrilevante per l’argomento in corso: in breve le priorità sono altre (concetto
ribadito da uno dei due ineffabili ministri presenti alla conferenza). Infatti,
oggi si preferisce definire questa fallacia di rilevanza con un neologismo
recente: “benaltrismo”. Da tempo invece, nei Paesi di lingua inglese, questo
tipo di fallacia volta a confondere e distrarre è chiamata red herring (aringa rossa), perché l’aringa affumicata veniva
utilizzata per distogliere dalla traccia i cani dei cacciatori concorrenti
sviandoli su false piste.
Nel contesto politico è
diffusissima e spesso usata in modo deliberato, è una manovra diversiva per far
ignorare e far tralasciare l’argomento, si introduce un disordine concettuale
che mescola altre questioni non pertinenti e non correlate all’argomento in oggetto
con la funzione di distrarre da esso. Ancora una volta si fa leva su argomenti
retorici, populisti e qualunquisti, generici e fondati su luoghi comuni per
evitare l’obiettivo di una discussione razionale sul tema in argomento.
“Ci
pare schizofrenico che da una parte ci sia la legge sull’omicidio stradale e
dall’altra si voglia legalizzare la cannabis”.
Qui abbiamo una fallacia
strutturale: la falsa analogia. In un’analogia, due elementi sono presentati
come simili per il fatto di avere in comune una qualche proprietà. Ma un’analogia
non può avere estensione illimitata e, soprattutto, non può fondarsi sulla
condivisione di una sola proprietà. Infatti le analogie in sé non sono né vere
né false, presentano tra esse semplicemente diversi gradi, che vanno dalle
strette somiglianze alle estreme differenze. Nel caso contrario si parlerebbe d’identità
o di diversità.
Nel caso in esame la legge
sull’omicidio stradale e la proposta di legge sulla legalizzazione della
cannabis hanno in comune l’elemento che in entrambe si parla di sostanze
stupefacenti o psicotrope, ma hanno fini e obiettivi diversi. Limitandoci all’elemento
comune, come per l’alcol la legalizzazione della cannabis non comporta l’attenuazione
delle norme e delle pene previste dal delitto di omicidio stradale, e neppure
delle sanzioni previste dal Codice della strada per la guida in stato di
alterazione psico-fisica. Perciò tra omicidio stradale e legalizzazione della
cannabis non esiste alcuna proprietà significativa in comune come evidenziata
nell’argomentazione. In questo caso si dice che è basata su un’analogia troppo
debole o difettosa o impropria per poter sostenere il fine prefissato che, qui,
è un giudizio negativo sulla legalizzazione.
Le analogie deboli sono quasi
sempre un’alternativa retorica alla mancanza di altre prove o evidenze e
andrebbero sempre evitate in una corretta discussione politica. In una falsa
analogia non è necessario concludere il ragionamento, anzi a fini persuasivi è
più utile non farlo. Infatti, ciò che c’è di forte, per così dire, in questo
argomento è che si insinua e si suggerisce che con la legalizzazione della
cannabis si avrà un aumento degli omicidi stradali: un ennesimo argumentum in terrorem sopra esaminato. La scorretta enfasi posta con la messa
in rapporto alla legge sull’omicidio stradale induce chi legge a questo errore:
anche questa è un’altra fallacia di ambiguità chiamata “fallacia di enfasi”.
A proposito, dimenticavo … c’è
una falsa analogia anche nella dichiarazione sopra riportata dove si equiparano
gli effetti della legalizzazione della prostituzione con quelli della
legalizzazione della cannabis. Chiedetevi qual è l’elemento in comune per chi
ha posto l’analogia. Forse perché si tratta di rendere leciti dei piaceri
voluttuari, ovvero, per un moralista, dei “peccati”?
“Il 99% di persone che abbiamo avuto e abbiamo
oggi in trattamento [nella
comunità di San Patrignano, ndr] hanno avuto il primo contatto con la
cannabis. Purtroppo tra i giovani si sta diffondendo l’idea che la cannabis non
sia dannosa, il primo danno di questo dibattito è già fatto”.
È da circa trent’anni che
sento questo argomento: è un mantra di San Patrignano. Di tutte le
argomentazioni fallaci fin qui esaminate a prima vista potrebbe sembrare la più
seria perché finalmente, in qualche maniera, si affronta l’argomento. Purtroppo
si tratta di un “paralogismo”, ossia un sillogismo, un ragionamento concatenato
fallace.
Un sillogismo perfetto
funziona così: A implica B (premessa maggiore), B è vero (premessa minore),
dunque A è vero. Il classico esempio è: (premessa maggiore) tutti gli uomini
sono mortali, (premessa minore) tutti i
greci sono uomini; (conclusione) dunque tutti i greci sono mortali.
Accade purtroppo che se anche
le due premesse sono vere, la conclusione non lo è necessariamente. In un
paralogismo si dice che tale conclusione è un non sequitur (di nuovo un espressione latina che significa “non ne
consegue”).
Nel caso in esame l’affermazione
precedente assumerebbe questa forma: il 99%
dei tossicodipendenti ha avuto il
primo contatto con la cannabis (premessa maggiore); le persone consumano la cannabis ritenendo
che non sia dannosa (premessa minore); quindi il 99% delle persone che consumano cannabis diventeranno tossicodipendenti (conseguenza fallace). A onor del vero nella dichiarazione originale (anche qui
come già nel caso esaminato della “falsa analogia”) la conseguenza è utilmente nascosta
ma è altrettanto subdolamente inserita in quanto intenzionalmente implicita.
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Nella figura i due insiemi rappresentano la quantità di consumatori di marijuana (ellisse più grande) e di eroinomani (cerchio più piccolo). La maggioranza dei tossicodipendenti ha consumato anche marijuana, ma, vedendo il grafico, non si può concluderne che i consumatori di cannabis diventeranno in maggioranza (anzi al 99%) eroinomani. |
Nel complesso siamo di fronte
a un mancato argomentare che pensiamo
di aver esplicitato per quanto possibile. Benché la questione della
legalizzazione della cannabis possa essere per molti controversa, il modo in
cui è stata affrontata non può che generare indignazione. È stato ignorato il
modo corretto di ragionare che caratterizza una buona discussione e infranta ogni regola di buona condotta nell’argomentazione.
Si resta perciò basiti o meglio stupefatti (per restare in tema) nel leggere,
alla fine dell’articolo oggetto della nostra indagine, che la ministra Lorenzin
ha osservato: “Spero che questa sia l’occasione per aprire un dibattito aperto
e franco…”, seguita dal collega il ministro Costa che ha auspicato: “Credo che
non ci debbano essere forzature parlamentari, che ci debba essere un dibattito
sereno”. Chi dunque desidera la dissoluzione di qualsiasi corretto confronto
politico non può che augurarsi che l’Italia sia governata da ministri simili.
Per concludere, sempre che
abbiate ancora la testa tutta intera dopo aver letto questo lungo articolo,
occorre stare molto attenti al significato e al senso dei discorsi. Conoscere
le fallacie di ragionamento aumenta la probabilità di smascherarle ed evitarle.
Ma soprattutto permette di
comprendere i motivi per cui un argomento è debole oppure no, valido o no, razionale
oppure no.
Allenatevi
a riconoscerle.
E diffidate dei politicanti e
dei loro gregari che ne fanno uso.
martedì 16 agosto 2016
CONTRO LE FALLACIE DELLA COMUNICAZIONE POLITICA
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Sarebbe
davvero bello, Agatone se la sapienza fosse in grado di scorrere dal più pieno
al più vuoto di noi, quando ci mettiamo in contatto l’uno con l’altro, come
l’acqua che scorre nelle coppe attraverso un filo di lana da quella più piena a
quella più vuota.
(Platone, Simposio, 175 D)
Sarebbe bello. Ma da molto
tempo so che non è così. La sapienza non si trasmette come un fluido. È
un’esperienza personale che si può solo vivere e non è possibile travasarla
bella e pronta, meccanicamente. Occorre una grande motivazione interiore, lo
sforzo individuale e un’inesauribile passione per il dialogo tra persona e
persona, l’avvio della comunicazione filosofico-maieutica attraverso il serrato
metodo dialettico.
Ma se uno è non “gravido”,
vale a dire spiritualmente vuoto? Se non c’è un brandello di onestà né
intellettuale né esistenziale, se non si trova un frammento di domanda, se non
si scorge una briciola di problematicità, anche nella peggiore distorsione e nella
banalizzazione più infima, far emergere dall’anima dell’interlocutore qualcosa
di vitale è un’impresa impossibile.
Socrate parla di maieutica (maieutiké significa
ostetricia) perché la sua tecnica è un’opera analoga a quella
dell’ostetrica. È un metodo che non vuole immettere la verità nell’animo ma
intende estrarla: è come un modo per far partorire le menti. Non lancia
programmi di redenzione e non pretende di trascinarsi torme di seguaci, perché
la conoscenza può solo sgorgare dalla propria anima. La maieutica, attraverso
il discorso, si limita ad orientare il pensiero dell’interlocutore verso la
verità.
Chi segue quest’arte non ha nessun
intento di redenzione, non gli appartiene lo spirito del missionario. Si può
esercitare infatti solo con chi è in uno stato di aporía nel quale consiste l’inizio della “gravidanza”
intellettuale. Occorre che l’interlocutore che si ha di fronte sia disponibile
ad ascoltare un’altra tesi e sia spinto da questa a cercare definizioni sempre
più precise dell’argomento in discussione, fino al momento in cui entrerà nell’aporía (che significa letteralmente
“strada senza uscita”). A questo punto dichiarerà la sua incompetenza sulla
questione e riconoscerà come infondata la sua certezza iniziale. Il riscatto
dalla schiavitù mentale è dunque un fatto del tutto personale, e questa fase
volta alla liberazione dal falso sapere, dalla convinzione cioè di avere delle
verità certe, è una bella cosa perché indica la voglia di sapere: nella
perplessità del vicolo cieco è da vedere un compito ed un invito ad
approfondire la ricerca, vale a dire che l’aporía
è la prima leva del processo conoscitivo. Volendo, se ne può trarre un profitto
straordinario e, come spiega Socrate nel Teeteto,
“è chiaro che da me non hanno imparato
nulla, bensì proprio e solo da se stessi molte cose e belle hanno trovato e
generato; ma d’averli aiutati a generare, questo sì, il merito spetta al dio e
a me”.
Questa incertezza che coglie
l’individuo che si accorge della insufficienza del valore intrinseco della
propria opinione, fa sì che per alcuni sia molto difficile affermare il proprio
imbarazzo e altrettanto sgradevole confessare la propria ignoranza. L’abitudine
a non mollare le proprie convinzioni riprende il sopravvento come se esse non
fossero mai state vagliate ed esaminate. La messa in discussione delle proprie
iniziali certezze è per loro sempre inquietante per non dire destabilizzante e
provoca comprensibilmente ostilità e irritazione.
Del resto Socrate nell’Apologia paragona se stesso a un tafàno “appiccicato dal dio ai fianchi della Città come ai fianchi di un grande
cavallo di razza, ma proprio per la sua mole un po’ pigro e bisognoso di venir
pungolato”. C’è dunque chi si fa stimolare, rimbrottare e, finalmente,
svegliare, ma altri – e sono i più – colpiranno e condanneranno a morte il
fastidioso tafàno.
Si
sarà compreso che anche io ritengo che la politica sia essenzialmente la virtù
di rendere gli altri migliori. E, inoltre, che utilizzo la griglia
interpretativa della filosofia antica e di Platone specialmente a causa della
sua duttilità e mobilità, non solo per una scelta morale di definire una verità
a fondamento del reale ma anche come condizione di senso per la
reinterpretazione del presente, essendo innegabilmente una fonte inesauribile
per la riflessione, un patrimonio imprescindibile e tuttora attuale che non
deve andare perduto. Riconoscendo che, anche nell’attualità, la visione della
verità, o comunque un suo avvicinamento, possa fondarsi solo sul dialogo e
sulla dialettica, perché non si dà verità se non nell’orizzonte del ricercare e
dello spiegare le ragioni pertinenti di ogni autentico dialogo.
Ma se uno è, come si diceva,
spiritualmente vuoto, se è amico della protervia e dell’impostura e partorisce
aborti, mostri, fantasmi o menzogne, invece di qualcosa di vitale o vero, il
dialogo va soppresso oppure il sedicente interlocutore va mantenuto alla
distanza di sicurezza indispensabile in quanto dannoso e irresponsabile allo
stesso modo in cui scorpioni e serpenti non sono responsabili del veleno che
portano con sé.
Socrate,
negli ultimi momenti della sua vita, raccomanda a Critone nel Fedone: “Tu sai bene che il parlare
scorretto non solo è cosa per sé sconveniente, ma fa male anche alle anime”.
Il “parlare scorretto” o,
tecnicamente, la fallacia argomentativa, la manipolazione del discorso, cagiona
del male all’anima. Chi ha in odio i ragionamenti, il “misologo”, è il malato
più degno di compianto. Chi non possiede la tecnica del ragionare e non si
esprime correttamente rinuncia al desiderio di conoscenza. La “misologia” –
quasi sempre associata alla misantropia che tutti odia e insulta e denigra e
che con tutti ha disaccordi – ben si concilia con lo scontro polemico,
recalcitra dal tema in oggetto sottraendosi all’esigenza di mantenere la discussione
nei confini di una ricerca condivisa: “Costoro, infatti, quando discutono di
qualche cosa, non si preoccupano di sapere come stiano veramente le cose su cui
verte la loro discussione, ma desiderano unicamente che ciò che essi affermano
essere vero sembri tale anche a quelli che sono presenti” (Platone, Fedone, 91 A).
La
malattia dell’anima è l’ignoranza, la forma peggiore di malanno che possa
capitare a un uomo. Chi ne è portatore ci turba e va tenuto a debita distanza
per restare in salute non lasciandoci contaminare dai falsi ragionamenti. Tanto
meno avremo relazioni con costoro e tanto più resteremo assicurati al nostro
sapere e non saremo contaminati, deteriorati e corrotti dalla loro cattiva
natura. Il suo stadio meno curabile è quello in cui il malato crede di esser
sano e si comporta come se lo fosse. Ho l’abitudine, anzi la regola, se mi
imbatto personalmente con chi inquina la verità, di tracciare una linea
invalicabile del dialogo e di non estenderla oltre, poiché non mi interessano
le chiacchiere insensate, mere assurdità e robacce varie. Spiego, espressamente
e con pazienza, che un ulteriore rapporto rischia di spingermi in basso. In un
ragionamento la cosa non accade nella solitaria indagine in prima persona. Ma
nella ricerca del come stanno le cose su un tema necessita anche
l’apprendimento da altri: il percorso insieme verso la ricerca ha come
strumento privilegiato il dialogo. Se vogliamo proseguire con la metafora del
basso/alto, il dialogo tra chi sta in alto permette di ricostruire una visione
più ampia e panoramica perché la frequentazione reciproca, gli scambi tra esperienze
diverse, la condivisione delle idee, in breve l’intreccio
delle diverse prospettive concorre a superare la limitatezza dello sguardo di
ciascuno.
Per
questo quando qualcuno dice qualcosa ho l’abitudine di stare attento,
soprattutto se dice qualcosa di interessante e poiché sono desideroso di
apprendere, gli faccio domande, torno sull’argomento e confronto le cose dette
per capire meglio. Se invece chi parla è un uomo senza valore, che non sa né
cosa né come deve ricercare, sono poco interessato a riprendere le questioni,
una volta fatto cadere l’avversario vittima del proprio presunto sapere. Seneca
nel De ira raccomandava di non essere
animosi nelle discussioni se si entra in conflitto con degli ignoranti che non
hanno mai imparato e neppure vogliono imparare. Non li correggerai, bensì li bacchetterai
e ferirai. Non va esaminato solo se ciò che dici è vero, ma anche se colui al
quale ti rivolgi è in grado di intendere la verità. La persona di valore
accoglie i rilievi, ma chi non lo è difficilmente accetterà la mano tesa del
tuo discorso.
Il
grande problema di oggi è che coloro che ragionano bene, parlano correttamente e
argomentano a tono sono pochi. Per quanto, come ci dicono, ci si trovi
nell’epoca della comunicazione, una grandissima percentuale delle nostre
relazioni, dalla politica ai giornali, dai social-media alle assemblee
condominiali, è pervasa da modi di ragionare errati e non validi da cui
tutti, chi più chi meno, siamo trascinati. Gli Antichi, fin dai tempi di
Aristotele, chiamavano “fallacie logiche” questi modi di argomentare falsi,
fuori tema, irrilevanti e non validi e, benché erronei, spiegavano come
fossero attraenti e seducenti a causa dei loro trucchi, inganni ed espedienti. I
molti, in quanto “massa”, sono inesperti e vedendo le cose da lontano, come
spiega Aristotele, prendono per oro ciò che è soltanto giallastro. Per
quanto debole o facile da confutare possa essere un argomento, esso può permettere
che una persona raggiunga il suo obiettivo. Convincendo, appunto.
Siccome
continuo a sperare che i “molti” non siano impermeabili all’azione educativa,
questi modi vanno smascherati e resi patrimonio comune di quante più persone
possibili. L’ignoranza è qualcosa di molto simile al buio. Capisco che le mie potrebbero
sembrare una condotta e una prospettiva per così dire “illuministiche”,
ma “educare” viene da e-ducere che
significa “trarre fuori” e quindi abbiamo di nuovo a che fare con la maieutica:
estrarre una conoscenza che tutti possediamo e che non è imposta da altri. Ecco
perché occorre coniugare partecipazione dal basso con condivisione dall’alto. A
maggior ragione, perché una volta scoperti i trucchi delle fallacie, ci
accorgiamo che gli “errori” di logica sono dappertutto. Chi ha poi degli
interessi personali utilizza e strumentalizza le “fallacie” alla grande e senza
scrupoli, perché chi è ignorante e incapace cerca sempre di soverchiare i suoi
molti simili e i suoi pochi opposti. L’esperto, il bravo e il giusto, al
contrario, mai vuole avere partita vinta sui suoi simili né vuole avere alcun
vantaggio sui suoi pari.
Il rapporto con gli altri, prima nella cura di sé e poi
nell’azione di formazione di soggetti nella
e della politica, è sempre più
necessario. Prima se ne proclama la necessità e prima si comincia a tradurlo
effettivamente in pratica.
Nonostante tutto non sono pessimista. Scorgo molta voglia
diffusa di ripristinare nella politica i concetti di preparazione e di competenza,
sempre più persone si dedicano alla buona logica in politica e ne descrivono
errori e scorrettezze e vedo infine riaffiorare il concetto del lavoro di
gruppo a discapito di quello di caporioni mediocri, imbonitori e imbroglioni,
allestitori di spettacoli Se la politica riuscirà a scrollarsi di dosso il
problema degli enormi effetti persuasivi delle argomentazioni invalide che si
insinuano con grandissima facilità nei nostri processi di pensiero,
condizionando emozioni, comportamenti e scelte politiche ed economiche, se una
nuova politica si porrà l’obiettivo costante di smascherare l’enorme potere
persuasivo di buona parte della propaganda e il conseguente consenso che ne
deriva, vedo qualche spiraglio nel futuro per far affermare sempre di più la conoscenza
e meno le opinioni di questo o quell’“ego” che spara verità assolutamente
astruse da competenze reali nei problemi in discussione.
Il disvelamento dei giochi linguistici ovvero la
rivelazione dell’armamentario del populista, del demagogo e del politico sofista
è un’istruzione che serve non solo nel campo strettamente politico, ma è
un’armatura protettiva nei confronti del resto del mondo. Fin dai tempi della
logica aristotelica si tratta di capire quando argomenti che sembrano essere
dialettici invece non lo sono. Aristotele definisce la “refutazione sofistica”
come un metodo puramente distruttivo: non si applica per dimostrare una propria
contro-tesi ma per distruggere quella dell’avversario. In questo caso le
fallacie possono essere attribuite a persone che hanno tutta l’intenzione di
ingannare: in questo senso le comunicazioni difettose hanno un intento
manipolatorio. Molti altri dei nostri interlocutori, invece, le impiegano
inavvertitamente: sono all’oscuro di cosa sia un ragionamento logico, una
prova, una documentazione o di cosa costituisca in genere un ragionamento
oggettivamente preciso, coerente e rilevante. Per questo le fallacie logiche sono
così seducenti e attraenti ed è per questo che spesso sono utilizzate con
malizia e premeditazione. A queste insensatezze e idiozie quotidiane che ci
circondano siamo quasi tutti assuefatti.
E invece io sostengo che logica e politica devono andare a
braccetto. Di più, devono baciarsi appassionatamente, proprio perché la
politica è concretamente costituita di tesi e argomenti che si confrontano:
l’argomentazione è la sostanza della democrazia e una corretta argomentazione,
in grado di difendersi dall’ignoranza e dalla manipolazione, fa di una
democrazia un sistema autentico e legittimo.
Un’introduzione, molto
sommaria, alle più comuni fallacie di ragionamento può essere utile per
migliorare il livello generale di discussione e soprattutto per capire i
“trucchi” di parole con cui spesso la gente viene imbrogliata.
Del trucco più applicato ne
parla Platone nel Protagora. È
sufficiente replicare con lunghi discorsi, eludendo gli argomenti e non volendo
darne una confutazione argomentata, tirando anzi in lungo finché la maggioranza
degli astanti si dimentichi su cosa verteva la discussione.
Questo il motivo per cui va
preferita la dialettica alla retorica, perché la dialettica permette di
chiedere e rendere ragione di ciò che viene affermato. Con la dialettica si
discute, la retorica impone la contesa. La discussione avviene con comprensione
tra alleati o amici, mentre tra avversari e tra nemici si compete. Una delle
maniere di chi vuol contendere e non discutere è allentare le redini ai
discorsi: si sciolgono tutte le vele e abbandonandosi al vento, si fugge nel
mare delle parole, perdendo di vista la terra dell’argomento. Nella discussione
dialettica occorre la disponibilità verso l’oggetto su cui si discorre e, nello
stesso tempo, l’apertura verso l’interlocutore.
La politica contemporanea e le
moltitudini che la seguono non si pongono come fine primario la loro e propria educazione
né si pongono quello di costituirsi un’adeguata base filosofica attraverso il
metodo della dialettica, fondamento necessario per ogni adeguata decisione
politica che ha veramente a cura l’umanità e non la massima utilità personale o
di alcune oligarchie di cui si fa parte.
La disciplina che,
anche quando crede di aver trovato risposte, chiede ancora è la filosofia.
Essere filosofi non è, come il mondo d’oggi ci porta a credere, una prerogativa
o un’esclusiva specifica dei filosofi di professione (che anzi temo fortemente
che oggi nella stragrande maggioranza non lo siano). La filosofia non è
un’oziosa esercitazione per qualche accademico, ma un’arte del vivere, un
atteggiamento coscienziale. La terapia che qui suggerisco è dunque dedicarsi
alla dialettica, una teoria dell’argomentazione orientata alla filosofia. Nata
nelle città della Grecia e della Magna Grecia nel V/IV sec. a.C. con la logica
e l’arte dell’argomentazione come norma per salvare le ragioni, la competenza
logica e argomentativa è un metodo di cui tutti i cittadini, oggi, devono
disporre per argomentare bene e
saper riconoscere le fallacie di quegli argomenti che, pur
essendo scorretti, appaiono psicologicamente persuasivi. Filosoficamente, è
cattiva politica ed è politica totalitaria (da qualunque parte provenga) ogni
politica che non pratica e non accetta il corretto e libero confronto, il
dialogo franco e la serena ricerca.
Ma certamente per usare il metodo dell’argomentazione in
modo divergente rispetto alla prassi del nostro tempo, oggi ben esercitata in
tutti i dibattiti politici, occorre una chiara consapevolezza volta alla verità
e alla vita associata o, più precisamente, occorre da un lato la coscienza
antidogmatica della fragilità delle conoscenze insieme alla precisa consapevolezza
di ciò che fa di un argomento un buon argomento, e dall’altro che il reale
destinatario nelle situazioni controversiali democratiche, ossia il popolo, che
è sovrano rispetto alla verità pubblica, si appropri di tutti gli strumenti che
possono servirgli per permettergli di esercitare razionalmente la sua sovranità.
Dal momento che la
nostra vita sociale si svolge attraverso il linguaggio e il discorso, il loro
degrado e manipolazione accompagna e condiziona il degrado e manipolazione dei
modi di vivere sociali e su questi inganni e auto-inganni occorre intervenire,
magari cominciando a offrire una cassetta degli attrezzi, un kit utile a chi sia seriamente
interessato a riflettere sulla comunicazione e sulla politica.
Di questi strumenti, ossia
dei mezzi per riconoscere alcuni dei tranelli e fallacie logiche, ci occuperemo
dunque in seguito, accompagnandole con qualche esempio pratico, per mostrare quanto
sia prezioso un collegamento tra le teorie che riguardano dialettica versus retorica e fallacie logiche e la realtà
della vita e delle cose, che palesano quale possa essere l’utilità della
filosofia anche fuori dall’ambiente universitario e dall’erudizione fine a se
stessa.
Questo per far meglio
comprendere come i criteri di validazione (ossia del controllo di correttezza)
del dibattito politico e sociale devono avvenire su base epistemologica. Vale a
dire che l’esattezza e la precisione dovrebbero informare non solo l’attività
dei politici ma ogni scelta razionale della troppo sciatta,
svagata e sfiduciata esistenza del popolo sovrano. Più semplicemente è importante
(ed è sempre importante) ragionare bene.
Ovviamente se
non si vuole essere una particella di una massa gregaria manipolata da capi
demagoghi e loro gregari ma parte attiva di quella costruzione che, secondo la
nostra bella Costituzione, rimuovendone gli ostacoli consente “il pieno sviluppo della
persona umana”.
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