martedì 24 luglio 2012

Siamo tutti greci


Siamo tutti greci

Un paese piccolo, scalcinato e in bancarotta, tiene in ostaggio ancora e per sempre il cuore d’Europa. Con molte buone ragioni

“Onore a quanti nella propria vita / si proposero la difesa di Termopili. / Mai allontanandosi dal dovere; / giusti e retti in tutte le azioni, / con dolore perfino e compassione; / generosi se ricchi e, se poveri, / anche nel poco generosi, / pronti all’aiuto per quanto possono; / sempre con parole di verità / ma senza odio per chi mente. // E ancora maggiore onore è loro dovuto / se prevedono (e molti lo prevedono) / che alla fine apparirà un Efialte / e i Medi infine passeranno”.
Kostantinos Kavafis
(“Termopili”, 1903. Traduzione di Paola Maria Minucci)

Un paese piccolo, undici milioni di abitanti e quasi nulle risorse industriali, marginale in tutti i giochi politici ed economici, ora anche gravato del ruolo di responsabile originario del disastro dell’euro, ultimo della classe, campione di evasione fiscale e di welfare fin troppo creativo, con molte pensioni ai finti ciechi e alle figlie nubili dei funzionari statali (norma ora abolita, per la cronaca), scialacquatore e truffaldino nelle credenziali e nei conti, rimasto per più di mezzo secolo in mano a oligarchie politico-familiari che si sono rivelate o inette o impotenti o poco desiderose di mettere ordine in quei conti. Eppure non c’è cosa che non si perdonerebbe alla Grecia, e se la partita europea contro la Germania (quella di calcio, vissuta come una battaglia campale) si fosse giocata su parametri diversi da quelli della contabilità delle reti, la si sarebbe potuta dare senz’altro vincente a tavolino ai biancoazzurri: “L’unica speranza, anch’essa assai improbabile, è che venerdì, almeno nello stadio di Danzica (ah la memoria storica!) la nazionale di calcio greca dimostri a quella tedesca che il Dio dello Spread non è onnipotente e può essere mandato nel pallone”, aveva scritto Marco d’Eramo sul manifesto del 19 giugno, interpretando l’auspicio maggioritario (anche al Foglio, con il suo Collettivo Tsipras), e commentando l’inflessibilità tedesca nel non voler addolcire nemmeno un po’ le condizioni dettate ad Atene. Nein, niente modifiche al memorandum, neanche dopo il voto che ha premiato “il partito degli obbedienti di Nea Democratia”.
Ma sono davvero così tante le cose da perdonare alla Grecia? L’attivista no global Naomi Klein, nel 2011, la faceva certo troppo facile quando dichiarava al quotidiano ateniese Eleftherotypia che “il Fondo monetario internazionale ha diagnosticato che siete malati, che il vostro stesso carattere è sintomo di malattia, e ora vi stanno costringendo ad avere sensi di colpa per come siete, in una tattica di patologia sociale che non si limita alla Grecia, ma si estende a tutti i paesi del sud del Mediterraneo”. Oggi tocca all’americana di origine greca Arianna Huffington, che sul New York Times del 12 maggio ha rievocato l’adolescenza ateniese – prima di diventare una delle giornaliste più influenti del mondo, con il suo sito da 325 milioni di dollari – e ha detto che mettere in punizione un intero paese per le prossime due o tre generazioni è sbagliato, oltre che profondamente ingiusto: “Mentre vedo la moderna tragedia greca dispiegarsi in Europa, torno ai diciotto anni che ho trascorso ad Atene e alla mia scuola nella Plaka (la parte vecchia della città)… Mentre crescevo, la mia famiglia era una specie di piccolo microcosmo dell’attuale economia greca. Eravamo fortemente indebitati, e i ripetuti tentativi di mio padre di diventare proprietario di un giornale passavano dal fallimento alla bancarotta. Alla fine, mia madre portò via me e mia sorella e lo lasciò. Abbiamo continuato a vivere ad Atene e a vedere mio padre, ma nella nostra casa c’era un’unica camera da letto”. La giornalista racconta di come la madre tagliò qualsiasi spesa, “ma non quella per la nostra educazione e per un cibo sano”. Solo due vecchi vestiti, anche l’ultimo paio di orecchini venduto, prestiti chiesti in giro a chiunque, “purché le sue figlie potessero realizzare i loro sogni di una buona educazione – io a Cambridge, mia sorella alla Royal Academy of Dramatic Art di Londra”. E se ora, “i greci hanno agito irresponsabilmente prima del collasso economico – aggiunge – così come mio padre aveva agito irresponsabilmente nella vita privata e professionale, non è un buon motivo per punire i figli, per distruggere la loro parte di futuro in nome di un passato di cui non hanno nessuna responsabilità”. Mentre è chiaro a tutti che “l’implacabile percorso punitivo di austerità e di contrazione economica” sta negando un futuro ai giovani greci, ormai disoccupati al 54 per cento. Soprattutto, sta “distruggendo milioni di vite umane e paralizzando l’indomabile spirito greco”.
L’indomabile spirito greco: non è quello che ci piace pensare dei nostri cugini quasi fratelli (senz’altro fratelli, anzi, se si pensa a tutta la Magna Grecia)? Secondo il giornalista Dimitri Deliolanes, “la profondità di questo sentimento di simpatia per la Grecia, se non di vero amore, ha a che fare con l’idea di libertà. Dalla Grecia ci arriva questo, l’idea del libero cittadino non più suddito, un’idea che è cresciuta anche nel medioevo bizantino. Abbiamo fatto errori, c’è chi ha rubato e ha fatto casini, stanno dicendo i greci. Ma se ci togliete la libertà, se ci umiliate, allora ci ribelliamo, non ci stiamo. In fondo, è quello che è uscito anche dalle ultime elezioni. L’amore per la Grecia, per come lo interpreto io, ha a che fare con l’immagine del piccolo, del vessato che riesce a ribadire la propria libertà”.
Lo diceva con parole sue Jean-Pierre Vernant, il grande storico e antropologo che allo studio dei greci dell’antichità dedicò tutta la vita. Dopo aver conosciuto quelli contemporanei, però: “Perché i greci? Perché avevo percorso la Grecia a piedi, nel 1935, e l’avevo trovata magnifica. Nei nostri vagabondaggi attraverso la campagna, noi – quattro robusti giovanotti con lo zaino e i calzoni corti – eravamo accolti dai contadini, che ci ricevevano come se quegli stranieri che ospitavano rendessero loro il più grande onore. Quando arrivavamo nella piazza dei paesi, dove c’erano i caffè, la gente quasi litigava per decidere chi ci avrebbe alloggiato in casa… Ricevere l’ospite straniero appariva una fortuna piuttosto che un dovere, un favore divino da non lasciar cadere” (“Senza frontiere. Memoria, mito e politica”, Raffaello Cortina editore). Vernant lo dice con chiarezza: “Ho cercato di farmi greco interiormente, nei miei modi di pensare e nelle mie forme di sensibilità. Che lezioni ne ho tratto? Anzitutto, l’esigenza di una totale libertà di spirito: nessun divieto, nessun dogma, in nessun campo, deve ostacolare un’indagine critica, una ricerca priva di pregiudizi.
Libertà, “eleftherìa”: siamo sempre tutti lì, duemilacinquecento anni dopo, inchiodati al passo delle Termopili, con il manipolo di elleni che resistono all’immane esercito del Gran Re persiano. Metafora eterna del destino vinto dal coraggio, dall’onore e dall’amor di patria. Anche se ci sarà sempre un Efialte di turno, il traditore che vanificherà l’eroismo di Leonida e dei suoi, ne sarà comunque valsa la pena (se non altro perché siamo ancora qui a ricordarcelo, a ragionarci, a commuoverci). E anche senza tornare così indietro nel tempo, il greco si compiace e si ritrova sempre in quel famoso (e mai davvero pronunciato, ma certi miti fondativi non si curano dei dettagli) “ochi”: il “no” che il grigio e malatissimo dittatorucolo Metaxas oppose, alle tre del mattino del 28 ottobre del 1940, all’ultimatum di Mussolini (che Metaxas ammirava e avrebbe voluto imitare), il quale minacciava guerra se Atene non avesse accettato l’occupazione militare italiana di alcuni luoghi chiave del paese. (Tutti ricordiamo come sia poi finito il proposito del Duce di “spezzare le reni alla Grecia”). Nell’“ochi” di Metaxas c’è un’altra variazione sul tema molto greco e molto universale della trasfigurazione eroica dell’uomo insignificante, quando è necessario, del piccolo che diventa immenso, un po’ come il gol di Karagounis che manda a casa la potente Russia. L’altra faccia di questo eroe dell’imprevisto è l’anarchia profonda di un Karaghiozis (il personaggio che nel teatro delle ombre greco e turco impersona vizi e virtù del greco). E’ l’eterno Zorba, velleitario e ottimista, che balla su ogni disastro il suo sirtaki (ma fateci caso: il sirtòs si balla seri, concentrati, non allegri. E’ la danza dell’uscita dal labirinto dopo l’uccisione del Minotauro, è questione di vita o di morte, è la vita che, mentre danza sulla morte, sa che la lotta non finirà mai).
Fine della digressione. Tornando all’“ochi”, il “giorno del no” si ricorda ancora oggi in Grecia, così come il proverbio: “Al collo di un greco mai mettere un giogo”. Eppure sono molti i gioghi che da quelle parti hanno dovuto sopportare nei secoli, e che hanno accentuato lo scarto immane tra il peso ideale e culturale del paese nella storia del mondo e i suoi miseri destini politici.
La bizantinista Silvia Ronchey, a questo proposito, si ribella all’idea di una Grecia messa in punizione: “Ma per che cosa? Dopo Pericle e Alessandro Magno ci sono stati undici secoli di Bisanzio e molti secoli di impero ottomano, nei quali la Grecia è stata una provincia imperiale che ha avuto caratteristiche periferiche, decentrate, senza poter decidere nulla. Una provincia che ha accettato la politica del dominatore, fosse Roma o Costantinopoli. Michele Coniate aveva composto il suo bellissimo ‘Lamento sulle rovine di Atene’ già nel Dodicesimo secolo, con la città in totale decadenza proprio mentre Bisanzio era in piena espansione. Certo, sulle rovine di Sparta sorse Mistrà, con la sua grande scuola neoplatonica da cui avrà origine il Rinascimento. Ma la Grecia rimase a lungo in mano a una turcocrazia, più o meno illuminata. Ci sarà poi una guerra d’indipendenza voluta e comunque fatta dagli occidentali, fino a un re tedesco. E ora ci sono le banche americane”. Silvia Ronchey trova particolarmente ridicole “tutte le sciocchezze sulla pigrizia e l’inclinazione a scialacquare dei greci. Ma quando mai? Se c’è una popolazione che ha davvero vissuto nella tradizione contadina di sobrietà e di lavoro instancabile è quella greca. Vallo a dire a un contadino di Itaca, o all’emigrante che torna dopo quarant’anni dall’Australia. I debiti sono il diavolo, per un greco”. Semmai, “con la Grecia è la parte mediterranea dell’Europa che sta subendo un attacco, che non risparmierà né noi né gli spagnoli. Ricordo che, quando si parlava dell’ingresso della Turchia in Europa, uno studioso importante come il medievista Jacques Le Goff – pur appartenente alla stessa cultura francese che con Fernand Braudel aveva messo il Mediterraneo al centro della costruzione della modernità – diceva che in realtà i limiti meridionali dell’Europa non dovrebbero andare oltre la riviera ligure. Siamo tutti avvisati. Ma l’Europa nasce dalla Grecia, da Roma, dal mondo bizantino e dal diritto romano. Siamo tutti legati a quel teatro primario che è la cultura classica”.
Due studiose francesi, Jacqueline de Romilly e Monique Trédé, in “Piccole lezioni sul greco antico” (Il melangolo) hanno analizzato il miracolo di una lingua che “non ha mai cessato, fin dai tempi più antichi, di diffondersi per il mondo intero, senza essere imposta da una qualsiasi autorità politica”. Circostanza unica, è una lingua che si afferma “senza un autentico desiderio di conquista” e resiste sia alla dominazione romana sia a quella ottomana. Per l’accademica di Francia de Romilly e la studiosa di Storia antica Trédé, il merito è delle sue qualità di chiarezza, limpidezza, precisione, eleganza, concisione. La lingua greca ha dato parole “alla commedia, alla tragedia, alla storia, alla retorica, alla filosofia politica e morale, nel senso moderno del termine”. Parlano greco “gli eroi, i miti, le storie di cui si sono alimentate tutte le culture moderne d’Europa”. Parliamo greco ancora tutti noi, che abbiamo continuato a creare parole greche, come “psicoanalisi”. Per questo, chiedere perché si vuol bene alla Grecia è più o meno come chiedere perché si vuol bene a mamma e papà, secondo il filologo classico Maurizio Bettini: “La Grecia è dentro di noi. E’ stata l’anima della cultura romana, che a sua volta si è inventata una sua Grecia originale, una sua Grecia trascelta, fatta di autori esemplari, di grandi scrittori. E’ passata attraverso Dante che non aveva mai letto Omero ma che comunque attraverso i romani indica Omero come altissimo poeta. E non dimentichiamo che in certi periodi storici si è studiato più il greco che non le lingue nazionali”.
Un passato così glorioso, pesante come il mondo sulle spalle di Atlante, inclina alla comprensione nei confronti dell’“infelicità di essere greci”, per usare il titolo della raccolta di aforismi scritta dal pubblicitario Nikos Dimou nel 1975 e tornata d’attualità (in Italia l’ha ora pubblicata Castelvecchi): “Qualsiasi popolo che discendesse dagli antichi greci – scrive Dimou – sarebbe automaticamente infelice. A meno che non riuscisse a dimenticarli o a superarli. Quanto al tema dell’eredità, dividerei i greci in tre categorie: i consapevoli, i semi-inconsapevoli e gli inconsapevoli. I primi (pochi) lo sanno. Sentono il peso tremendo dell’eredità. Hanno capito il livello di sovrumana perfezione nella parola e nella forma dei loro antenati. E questo li schiaccia”. (C’è una sorta di inno nazionale ufficioso e parallelo, per i neo greci, che fa capire molte cose. E’ una canzone musicata da Mikis Theodorakis sulle parole del poeta e diplomatico Giorgos Seferis. “Rifiuto”, è il suo titolo, e parla di acqua bevuta nel meriggio assolato e rivelatasi amara, di sabbia su cui un nome scritto è stato spazzato via dal vento, di vita cominciata “ti pothos ke ti pathos”, con desiderio e con passione, ma che poi si è stati costretti a cambiare. Vogliamo cambiare la vita, insomma, ma poi, dobbiamo saperlo, è la vita che ci cambia. Vale per tutti, non solo per i greci).
Né schiacciati né troppo preoccupati apparivano invece gli elleni del 1960 ad Alberto Arbasino. Almeno quelli impegnati nello struscio a Omonia, la piazza ateniese “che è solo dei greci”: “E’ una folla così umile, allegra, pulita, gentile, sottomessa da secoli all’arbitrio del potere, che fa quasi tenerezza” (“Dall’Ellade a Bisanzio”, Adelphi). Come impressione non è troppo distante da quella del critico Emilio Cecchi, che nel suo “Viaggio in Grecia” (Muzzio) attribuiva ai greci non più che “casti sibaritismi”: “Questa gente scaltrissima negli affari e ingenua negli affetti, laboriosa e amantissima della famiglia, di poco vive, con nulla si diverte. Nella consumazione d’una bibita incantano un pomeriggio”. Un grande scrittore e pittore italiano come Alberto Savinio, che era nato il 25 agosto del 1891 ad Atene, le dedicò la più esplicativa delle dichiarazioni d’amore: “Allora come di lei mi risovviene, che si lasciava cogliere intera dai miei occhi di bambino, posata come un nido candidissimo di albatri nella nevosa conca della valle, ben fortunato mi reputo di essersi formata laggiù la mia ragione, fra i templi portatili, le colonne che girano assieme col girare del sole, le statue animate di serena magia, quando brillanti nella compagnia degli alberi, quando levate oscure di contro l’amorosissimo cielo” (“Alla città della mia infanzia dico”, in “Casa ‘La Vita’”, Adelphi). Savinio dice il vero, quando scrive che “gli dèi la visitavano sovente, di solito al mattino. Mercurio piombava dal cielo, scintillante come uno scarabeo nella sua corazza d’oro, posava un piede alato sulle case per riprendere lo slancio, rimbalzava in cielo”.
E allora: come non fare il tifo per i greci? “C’è un popolo che soffre. Un paese intero, la Grecia, di fronte al baratro economico e umanamente allo sbando”. Si apre così una lettera appello (primi firmatari l’italiano Gianni Pittella e la greca Anni Podimata, vicepresidenti del Parlamento europeo), che sarà presentata lunedì prossimo a Roma, quando i big europei si vedranno per fare il punto della situazione. L’appello chiede la revisione del memorandum europeo di intesa con la Grecia, perché “se Atene crolla anche l’Europa affonda” e perché “l’Europa senza la Grecia sarebbe come un bambino senza certificato di nascita” (letto e sottoscritto, tra gli altri, da Luigi Berlinguer, Franco Bassanini, Carlo Bernardini, Remo Bodei, Stefano Rodotà, Giorgio Salvini, Claudio Sardo).
Può sembrare retorico, chiedere a un altro importante filologo classico come Luciano Canfora perché ama la Grecia. Ma la sua risposta risulta tutt’altro che accademica. Degna, piuttosto, delle barricate a piazza Syntagma: “Perché la amo? Perché è il paese che più ha sofferto il predominio angloamericano dopo la Seconda guerra mondiale. Questo è alla radice del suo essere un paese sofferente, che tutti prendono a calci. Ed è il punto debole su cui anche frau Merkel si permette di dire ‘dovete votare l’euro ma comunque non vi diamo nemmeno un quattrino in più’. Neanche un Gauleiter (caposezione nazista, ndr) ai tempi di Hitler avrebbe fatto questo. Penso al fatto che i partigiani greci, dopo aver combattuto eroicamente i tedeschi, sono stati tenuti sotto tutela per anni dagli inglesi. Penso anche che gli americani hanno mandato loro i colonnelli, in tempi molto recenti”.
Nel giorno della partita di calcio che è diventata una battaglia campale, avremmo voluto planare su conclusioni meno tragiche, anche se non meno pensose. Magari con Emilio Cecchi, che così chiudeva il suo diario di viaggio nell’Ellade: “Cari, bravi Greci, addio. E’ chiusa la mia giornata nella vostra terra. Beati voi, anche per quello soltanto che di voi ci rimane. Voi non perdeste il vostro tempo. E una dura e meritata lezione al mondo sapeste darla. Mi par difficile che, ancora una volta, possiamo profittarne quanto sarebbe necessario. Grazie comunque, Greci carissimi. Grazie dell’intenzione. E addio”.

martedì 17 luglio 2012

Silvia Ronchey: Omero, solo tu ci salverai

La memoria dei classici Di secolo in secolo hanno sconfitto la tentazione della facilità, la banalità, la dittatura delle mode, la transitorietà di ogni cosa


Omero, solo tu ci salverai

SILVIA RONCHEY 


Alla fine di aprile del 1944, quando Patrick Leigh Fermor si svegliò fra le rocce di Creta, mentre il sole spuntava dietro la cresta dell’Ida, insieme al generale nazista che aveva rapito, accadde qualcosa di strano. Dopo aver fumato in silenzio, il generale, gli occhi azzurri fissi sulla vetta ancora innevata, cominciò a recitare: «Vides ut alta stet nive candidum / Soracte…». E Fermor proseguì: «… nec iam sustineat onus / silvae laborantes, geluque / flumina constiterint acuto». 

E così continuarono, per tutte le cinque strofe alcaiche che mancavano alla fine, racconta Fermor nel suo secondo libro di memorie (Tempo di regali, Adelphi, pp. 356, €18): «La guerra, per un attimo, era sembrata lontanissima. Molto tempo prima, avevamo bevuto alla stessa sorgente».
L’antico sospende il tempo, l’eterno sconfigge la storia. Prendiamo l’Iliade, l’abbiamo letta tutti, l’hanno letta tutti. Alessandro - il Conquistatore, ma anche l’allievo di Aristotele - durante le sue spedizioni militari teneva l’Iliade sotto il cuscino della tenda in cui dormiva. Mehmet II, il giovane sultano che conquistò Costantinopoli, durante l’assedio si faceva leggere brani dell’Iliade. Napoleone leggeva l’Iliade ad alta voce, «fermandosi spesso», diceva, «per ammirare con comodo».
Oggi, nonostante la molto pubblicizzata presenza dell’epitome di Alessandro Baricco (Feltrinelli, pp. 163, €5,60), anche gli studenti più pigri preferiscono leggere l’Iliade com’è, senza sconti né attualizzazioni, nelle filologiche traduzioni di Giovanni Cerri (Bur, pp. 586, €13) o di Guido Paduano (Einaudi, pp. 1570, €48). Perché un classico antico, come ha spiegato Jean Giono, è un «libro ad alta densità di lettura».
Giono da studente era povero, non poteva permettersi i libri alla moda, dalla copertina sfavillante. Però, racconta, poteva permettersi Omero, perché Omero era economico, perché Omero aveva un'alta densità. In seguito avrebbe scritto non un'epitome ma un magnifico, ironico pamphlet (Nascita dell'Odissea, Guanda, pp. 156, €7,50), in cui mostra di sapere bene che il classico, inossidabile e inscalfibile, non riducibile, irriducibile, sconfigge quelle che Braudel ha chiamato le «increspature di superficie» della storia, le sue dispute ideologiche e le sue mode demagogiche. Sbaraglia il, presente più contingente, regalandoci l'eternità di un presente assoluto, depurato da ogni transitorietà. Come scriveva Marguerite Yourcenar, «amiamo il passato perché è il presente sopravvissuto nella memoria dell’umanità». Come scriveva Walter Benjamin, gli antichi non erano antichi quando scrivevano, poiché usavano la lingua del presente. Un classico è tale e resiste lungo i secoli perché il suo linguaggio - formale, ma anche concettuale - rimane sempre lingua del presente. Perché un miracolo ha fatto sì che il suo autore superasse i vezzi e i limiti della sua epoca, la contingenza e storicità del logos - del discorso, ma anche del pensiero - rendendolo universale e tale da eludere il tempo.


L’essenza dei classici antichi, secondo una definizione di Massimo Cacciari (in Di fronte ai classici, a cura di Ivano Dionigi, Bur, pp. 299, €8), non è cronologica ma topologica: i classici «non sono epoche ma luoghi del pensiero». Un classico non serve il presente, ma crea un ponte tra passato e futuro. Classico, ha scritto Cacciari, non è qualcosa che rimanda al passato, è qualcosa che resiste al presente. I veri classici non fuggono, sfidano e sono sempre pericolosi. Un classico è sempre eversivo, sempre trasgressivo, sempre anticonformista. Leggere i classici, come diceva Leopardi, è un modo di «gettare i morti in faccia ai vivi». Ma è anche «contraddire la tirannia del momento». 
Non ha quindi senso chiederci se i classici antichi abbiano un futuro. Per definizione, ci aiutano a scavalcare il presente, le sue effimere ideologie, i suoi dibattiti, gli schemi stessi del nostro pensare. E in questo senso ci avvicinano, più ancora che al passato - a noi in effetti sempre inconoscibile -, al futuro.
Un classico, per usare un’espressione di Truman Capote, è una preghiera esaudita. Ed è perciò che questi e gli altri antichi libri che chiamiamo classici hanno resistito nei secoli, sono stati trasmessi di generazione in generazione, hanno sconfitto le imitazioni, le riduzioni, la tentazione della facilità, la competizione della banalità, la dittatura delle mode, la transitorietà di ogni cosa umana. Perché sono rimedi sperimentati, ricostituenti concentrati e universali, preghiere laiche e interconfessionali. E perché sono l’unica dipendenza non nociva fra tutte quelle escogitate nei millenni per alleviare i nostri dolori. 


Ilias picta ambrosiana, Biblioteca Ambrosiana, Milano.
Miniatura di un codice membranaceo del VI secolo dove
sono rappresentati i principali eroi dell'Iliade



mercoledì 11 luglio 2012

Scipione l'Africano nel Tempio Malatestiano di Rimini


Nella mia traduzione e commentario al Macrobio / Commento al Sogno di Scipione, che è stato definito, non da me – non amo autolodarmi –, «uno dei più seri e documentati tentativi di presentazione dell’opera macrobiana che siano apparsi in questi ultimi anni» (Francesco Paolo Ammirata, «Rec. a Macrobio, Il Commento al Sogno di Scipione, a cura di Moreno Neri, saggio introduttivo di Ilaria Ramelli, Milano, Bompiani, 2007, 916 pp. (Il pensiero occidentale), ISBN 978-88-452-5840-4.», in Mediaeval Sophia 5, gennaio-giugno 2009), si trova un mio corposo saggio sulla fortuna, nel corso dei secoli, della figura di Scipione nelle arti  - pittura, scultura, musica e così via, fino alla cosiddetta settima arte, il cinema (Moreno Neri, Scipione: sogni e magnanimità nelle arti, in appendice a Macrobio / Commento al sogno di Scipione; saggio introduttivo di Ilaria Ramelli; traduzione, bibliografia, note e apparati di Moreno Neri, Bompiani Il pensiero occidentale, Milano 2007, pp. 713-807) -,  corredato da una lunga appendice iconografica (Ibid., pp. i-lxxix, fuori testo tra pp. 800 e 801), dove si poteva osservare come, a proposito della trasmissione di Scipione, nel periodo rinascimentale e barocco, fossero tre le pietre miliari che più si ripetono nell’arte pittorica e della tessitura durante questi periodi: la gloria, rappresentata nel trionfo di Scipione sul campo di battaglia; la moderazione, rappresentata con l’episodio della continenza di Scipione; e il sogno, raccontato da Cicerone nella sua Repubblica. 
Devo spiegare sinteticamente le ragioni del mio interesse per Scipione. Ciò che mi ha condotto a Scipione, e quindi a Macrobio, è il mio essere riminese; di una città, perciò, che ospita quel monumento che è stato definito l’emblema stesso del Rinascimento, il Tempio Malatestiano (cfr. Cesare Brandi, Il Tempio Malatestiano (1956), in Tra Medioevo e Rinascimento: scritti sull’arte da Giotto a Jacopo della Quercia; a cura di Maria Andaloro, Jaca Book, Milano 2006, pp. 171-198: 171).
Al suo interno, nella prima Cappella a sinistra, sul lato destro della parte anteriore dell’Arca degli Antenati e dei Discendenti di Sigismondo, ritroviamo un bassorilievo in cui s’illustra il Trionfo del generale romano. Su questo rilievo marmoreo e sui suoi nascosti significati iconologici qui ci dilunghiamo.
Il Tempio Malatestiano di Rimini contiene nella Cappella della Madonna dell’Acqua un sarcofago ultimato nel 1454 e riempito con le ossa degli antenati e discendenti di Sigismondo Pandolfo Malatesta (1417-1468). Chiamato perciò l’Arca degli Antenati e Discendenti di Sigismondo si trova in una nicchia interna, coperta da un sontuoso drappeggio gotico in forma di baldacchino, sulla parete di sinistra ed è adornata da due bassorilievi che proclamano la fama e il trionfo di Sigismondo e della sua famiglia e che è l’espressione più diretta dell’iconografia dinastica del principe riminese. Le due sculture vengono ora interpretate come due Trionfi, quello di Minerva sul lato sinistro e quello di Scipione nel lato destro, mentre più anticamente il bassorilievo di sinistra veniva interpretato come il Tempio di Minerva e quello di destra semplicemente come un Trionfo. Ad ogni angolo vi sono i monogrammi $ scolpiti sugli stemmi malatestiani. Sigismondo appare in entrambi i bassorilievi, pur essendo travestito come Sigismondo/Scipione. L’iscrizione centrale nello scompartimento al centro tra i due bassorilievi, dedicata alla famiglia dei Malatesta, ci informa che in essi si illustrano i meriti di probità e di forza di Sigismondo. Infatti, l’iscrizione incisa sulla lastra che separa i due pannelli dichiara:
sigismvndvs pandvlfvs malatesta pandvlfi f(ilivs)
ingentibvs meritis probitatis fortitvdinis(-)qve
illvstri generi svo maioribvs posteris(-)qve
I due bassorilievi, quindi, simboleggiano le benemerenze della famiglia Malatesta nelle imprese culturali (Il trionfo di Minerva) e la gloria ottenuta con le vittorie militari (Il trionfo di Scipione).
Nel pannello che fa da compagno al Tempio o Trionfo di Minerva, il Trionfo di Scipione, vi è, per alcuni, l’immagine di Scipione il Giovane coi suoi occhi chiusi, come fosse in un sogno, classicamente inghirlandato e vestito di corazza e toga; per altri si tratta invece di Scipione il Vecchio. È portato seduto sopra un trono a due teste leonine, mentre regge un ramo di palma nella sinistra e un bastone nella destra, su un alto carro trionfale guidato da quattro cavalli — un onore concesso ai generali insigni nell’antica Roma. Il carro è riccamente lavorato, con le immancabili rose malatestiane nella parte superiore. Dei putti reggono degli scudi che portano l’altrettanto onnipresente sigla e dei festoni che fanno capo in mezzo ad una ghirlanda con al centro una testa. Il carro passa attraverso un arco trionfale con una sola apertura ispirato all’Arco di Tito e, insieme, al frontone del Tempio, una illustrazione del non più esistente antico arco trionfale di Scipione all’inizio del clivo Capitolino, che gli fu accordato nel 190 a.e.v. dopo l’annientamento di Annibale (Livio, Ab urbe condita XXXVII, 3). Nello sfondo, sulla cima, un paesaggio di obelischi, colonne a spirale (come la Traiana e l’Antonina) e un castello che rappresenta la Mole di Adriano, arieggiante perciò una veduta dell’Urbe. Le solite iniziali di Sigismondo e le rose sullla volta riccamente decorata dell’arco suggeriscono che il protagonista sia da identificarsi in Sigismondo. L’immagine di Sigismondo/Scipione è posta nella zona intermedia del carro e la personificazione della Fama, una figura nuda che suona la tromba nella parte più in alto a sinistra del bassorilievo, annuncia le sue lodi. La diagonale della sua tromba lascia l’osservatore senza dubbi sul fatto che Sigismondo sia il destinatario delle sue lodi. Il suo trono leonino proclama l’antichità della sua schiatta e la legittimità del suo dominio. Nell’iconografia del Tempio Malatestiano, è Sigismondo che afferma di discendere da Scipione il Vecchio. Il carro è trainato da quattro vivaci destrieri, guidati da staffieri agitanti una frusta. Ai lati una serie di figure, forse prigionieri.
Il trionfo è un passaggio, simboleggiato dall’attraversamento dell’arco, da uno stato umano a uno stato di ascesa, che spetta al vincitore di una battaglia. I cavalli bianchi denotano spiritualità e purezza solare, sono gli stessi che trasportano il carro del sole lungo il cielo. Il trono si trova su una piattaforma sopraelevata in quanto centro del mondo tra cielo e terra e quindi simboleggia l’autorità insieme divina e temporale del vincitore. Il trono è sorretto da due creature con il volto del leone: simboli solari, la coppia di leoni padroneggia la doppia forza, materiale e spirituale, e l’assoggettamento delle forze cosmiche. Ancora solare è la palma, emblema di Apollo a Delfi: rappresenta esultanza, fama (perché cresce sempre eretta), benedizione, trionfo, vittoria; osservava Aristotele che il suo legno si erge sotto il peso in luogo di piegarsi, essendo all’esterno la parte vecchia e nell’interno la giovane, perciò è simbolo di vittoria. Il pitagorico Plutarco dice … che non perde mai il suo fogliame, è continuamente adorna del medesimo verde. Propizio per gli uomini è considerato questo suo potere e adatto a rappresentare la vittoria (Quaestiones convivales 8, 723A-724F). Quanto al bastone o scettro, anch’esso simbolo solare e assiale, attributo del potere e della dignità, dell’autorità di colui che ha a lungo viaggiato e saputo vincere gli ostacoli incontrati nel suo percorso. E infine la Fama, qui raffigurata con una sola tromba, quella che propaga la verità; la tromba della menzogna è assente. E ancora la sferza, altro simbolo solare sacro ad Osiride e Apollo, è l’autorità che ripristina la potenza virile e la fecondità. Anche questo rilievo, come tanti altri presenti nel Tempio presenta un accostamento interessante con la carta del Carro di Bonifacio Bembo, VII Arcano maggiore dei tradizionali Tarocchi rinascimentali. Il significato esoterico dei due bassorilievi connessi è estremamente profondo, pur nella sua immediata semplicità di apoteosi o meglio di «indiamento» di Sigismondo, di cui troviamo un riflesso negli ultimi versi del Liber Isottaeus di Basinio: regis Ariminei celeberrima fama tropheis / vivet et invicti gloria summa ducis (del re di Rimini la celeberrima fama nei trofei / vivrà e la somma gloria dell’invitto condottiero).
Dunque, lo stesso Sigismondo Pandolfo Malatesta, artefice del Tempio, pretendeva di discendere da Scipione l’Africano.
L’associazione di Sigismondo con i due Scipioni fu certamente ispirata da più di un testo classico. Le fonti più probabili per tale iconografia sono, innanzitutto, i Saturnalia e il Commento al “Somnium Scipionis” di Cicerone di Macrobio, oltre all’Africa di Petrarca.
Il clima archeologizzante allora in voga, ma al tempo stesso la mancanza di fonti autorevoli sulla mitografia e l’astrologia, rendeva l’opera di Macrobio una delle fonti dirette d’ispirazione delle figure scultoree del Tempio Malatestiano.
L’Africa di Petrarca aveva codificato il crescente conflitto tra Scipione il Vecchio e il cartaginese Annibale. Il desiderio di Sigismondo di trionfare su Federico da Montefeltro riflette l’ultima sconfitta di Annibale da parte del suo antenato Scipione. Nel testo di Petrarca, infatti, vi è una quantità di passi che sono in risonanza con i contendenti signori quattrocenteschi di Rimini e di Urbino, fra cui le invettive che si lanciarono reciprocamente. Annibale, ad esempio, ebbe uno stretto rapporto con suo fratello come Federico lo aveva con Ottaviano degli Ubaldini. Scipione, a sua volta, fu vicino a suo zio e a suo padre come Sigismondo lo era a Pandolfo e a Carlo Malatesta, rispettivamente genitore e zio. Annibale, come Federico, aveva perso un occhio: Annibale per un’infezione e Federico in un torneo. Scipione (Africa II, 43) chiama Annibale un “brigante monocolo” e lo paragona a Polifemo che spunta dalla sua caverna eolia (Africa VII, 1115).
Il mito delle origini celesti di Scipione può essere collegato al culto solare di Rimini. Petrarca paragona Scipione al Sole e Giove si meraviglia di fronte alla splendore del generale romano ed anche Apollo si stupisce di avere un rivale (Africa VII, 1262 ss.). In virtù della sua associazione con gli Scipioni, Sigismondo proclama le sue origini divine, il suo rapporto con il sole e la sua ambizione di distruggere Federico come Scipione distrusse Annibale.
Per quel serio gioco di coincidenze e rimandi che tanto attraeva la nuova cultura rinascimentale, va accennato che Scipione l’Africano e la sua cerchia erano un’organizzazione pitagorica, così come la cerchia di Sigismondo era un’istituzione esoterica.
A Scipione l’Africano i Malatesta, come ci racconta Gaspare Broglio, segretario e compagno d’armi di Sigismondo, facevano risalire la loro progenie. Durante il Rinascimento, fu, dunque, il munifico signore di Rimini che per primo s’impadronì di Scipione come antenato — ben prima dei veneziani Cornaro e di Scipione Borghese. Quale autorità più plausibile potevano consultare Sigismondo Malatesta e i suoi consiglieri, se non il Somnium Scipionis? Non solo esso era il trattato classico sull’immortalità e apoteosi di un principe, ma Scipione l’Africano era il vantato antenato di Sigismondo. Ricorda Broglio nella sua Cronaca che «quelli illustrissimi signori [Malatesti]» erano «disciesi della illustrissima casa del magnio et illustrissimo imperadore zoè capitano dello exercito romano nominato al suo tempo Scipione Africano» ed egli dichiara che un argomento che distolse Sigismondo dall’assassinare il pontefice Paolo II, che gli voleva togliere l’amata città di Rimini, fu questo: «se tu comporti tal vilipendio poteratti tu mai più appellare della Ill.ma e degna Casa delli Scipioni boni romani, li quali mai mancarono di loro honore?» (Il testo della Cronaca Universale di Gaspare Broglio si legge in un manoscritto autografo del XV sec. conservato nella Biblioteca Gambalunga di Rimini [ms 77 = 69, D. III.48] e si trova trascritto in Luigi Tonini, Rimini nella Signoria de’ Malatesti – parte prima, vol. II, Tipografia Albertini e C., Rimini 1880).
Sull’argomento scipionico cfr. Maria Grazia Pernis & Laurie Schneider Adams, L’Aquila e l’Elefante: Federico da Montefeltro e Sigismondo Malatesta, trad. di Moreno Neri, Raffaelli Editore, Rimini 2005, pp. 131, 141-142 [Maria Grazia Pernis & Laurie Schneider Adams / Federico da Montefeltro and Sigismondo Malatesta. The Eagle and the Elephant, Peter Lang, New York etc. 2003, pp. 90, 98-99]. 
Un vanto genealogico quello di Scipione, modello da imitare ed exemplum di condotta di tutti gli uomini del Rinascimento, fatto «col sorriso intimo» – come crede Montherlant – «di chi non si lascia ingannare dai propri sogni ma getta nel fuoco tutto ciò che gli si offre per ravvivare la fiamma» (Henry de Montherlant, Il Malatesta di Montherlant – La rappresentazione a Rimini, in Il Resto del Carlino, lunedì 28 luglio 1969, p. 3. L’articolo del Carlino è ripubblicato nella versione italiana di Montherlant / L’infini est du côté de Malatesta (Gallimard nrf, Paris 1951): Henry de Montherlant / L’infinito è dalla parte di Malatesta; introduzione di Giuseppe Scaraffia; con un’appendice di documenti e immagini a cura di Moreno Neri, Raffaelli Editore, Rimini 2004, pp. 141-143: cit. p. 142. Il Malatesta di Montherlant, scritto tra il marzo 1943 e il febbraio 1944, fu pubblicato solo nel 1948 ed ebbe la sua prima a Parigi nel Théâtre Marigny il 19 dicembre 1950, con la regia di Jean-Louis Barrault che interpretava anche Sigismondo Pandolfo Malatesta. Per le considerazioni del drammaturgo francese su Scipione, vedi nella trad. it. cit. pp. 52, 56, 61 e 78).
 
Particolare della Cappella degli Antenati, Tempio Malatestiano, Rimini.

Particolare dell'Arca degli Antenati, Tempio Malatestiano, Rimini.
Da parte mia, consideravo le due curiose coincidenze che Sigismondo moriva a cinquantun anni, la stessa età in cui era morto Scipione, e che il suo peggior nemico di tutta la vita, Federico da Montefeltro, signore di Urbino, fu monocolo come Annibale. Scoprì poi e pubblicai un paio di conferenze (una con mia traduzione) di Charles Mitchell del Warburg Institute (vedi Charles Mitchell, Le raffigurazioni del Tempio Malatestiano, (a cura di Moreno Neri), Raffaelli Editore, Rimini 2000; il libro contiene due saggi: il primo è la traduzione della versione in inglese pubblicata con il titolo The Imagery of Tempio Malatestiano, in Studi Romagnoli II, Faenza 1951, pp. 77-90, mentre il secondo è la ristampa di Il Tempio Malatestiano, in Studi Malatestiani, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Studi Storici, Fasc. 110-111, Roma 1978, pp. 71-103, testo di una conferenza, tenutasi nella Sala dell’Arengo a Rimini, il 6 dicembre 1968). In esse si dimostrava che tra le fonti letterarie dei lapicidi del Tempio vi furono Il Commento al Sogno di Scipione del neoplatonico del V secolo Macrobio e l’altro suo testo, giuntoci incompleto, i Saturnalia. In breve Mitchell sosteneva che il monumento riminese nascondesse un significato neoplatonico e individuava l’insistita ricorrenza di un simbolismo solare; l’intento della sua edificazione, per altro incompiuta, era una celebrazione di Sigismondo quale discendente di Scipione e l’illustrazione di una sua apoteosi come dio-solare, al pari di Scipione, cui doveva essere destinato un cielo laico, un cielo per grandi uomini e non per santi. Infatti, nel suo Sogno di Scipione, Cicerone immagina le anime meritevoli che salgono alle stelle.
 
Arca degli Antenati e dei Discendenti (1454), Cappella degli Antenati, Tempio Malatestiano, Rimini (Foto Alinari).
 
Tempio di Minerva - Particolare dell’Arca degli Antenati e dei Discendenti (Foto Brogi).

Trionfo di Scipione - Particolare dell’Arca degli Antenati e dei Discendenti (Foto Brogi).

Il Carro, VII Arcano maggiore dei tradizionali Tarocchi rinascimentali di Bonifacio Bembo, detti "Tarocchi Visconti-Sforza".