martedì 17 gennaio 2012

SULLE ORME DEL "GRAND TOUR"


Il ritorno ottocentesco delle rocche malatestiane lungo i sentieri del Grand Tour


… di tutto questo viaggio nel quale ho soggiornato in più di venti città, la graziosa città di Rimini mi ha sedotto più di tutte le altre.[i]

Così puntualizzava Charles Yriarte nel suo Les Bords de l’Adriatique nel 1878, un libro di viaggio di lusso, abbellito da 257 incisioni su legno. Yriarte proseguiva nella sua descrizione di viaggio, dalla Dalmazia a Otranto, lungo la strada ferrata parlando di paesi grandi come la mano, delle miniature di messale italiano, chiuse nelle loro fortificazioni ben conservate, talora imponenti, su colline ben difese. Dopo Ravenna, si limitava a vederle di lontano, sullo sferragliante e sbuffante treno, mentre dall’altro finestrino vedeva finalmente la linea blu del mare che chiudeva l’orizzonte e perfezionava l’insieme del paesaggio, dove al largo si stagliavano le vele color ruggine di trabaccoli e pescherecci.
Doveva subito confessare che lungo questo tratto adriatico tutto era da vedere, dappertutto c’era storia, ad ogni passo monumenti, e ogni città, ogni paese sarebbe valso un volume; e concludeva sconsolato:

 Ho dovuto fare una scelta, perché qui sono alle prese con necessità pratiche; ma che dispiaceri lungo la mia strada!



Veduta della città di Pesaro al tempo dei Malatesta
(illustrazione tratta da Rimini: Un Condottiere au XVe siècle …, Fig. 26 p. 43)

Quanto alla cittadina di Pesaro, che si raggiungeva lungo una strada graziosissima le cui rotaie costeggiavano continuamente la riva obbligando a seguire con gli occhi le vele gialle, orlate di greche o seminate di stelle, che solcavano le onde blu, era allora nota per il Cigno di Pesaro: Gioacchino Rossini, quel vecchio dal bel sorriso che fino a dieci anni prima Yriarte aveva veduto passeggiare sul boulevard des Italiens nella sua Parigi. Urbino era assolutamente hors de main (fuori di mano è la formula con cui Yriarte dà la traduzione in italiano): da Pesaro occorrevano cinque ore di diligenza per recarvisi. Uscendo da Pesaro, tra il mare e la strada aveva ancora avuto modo di osservare un certo numero di paesi e castelli storici, tutti provvisti delle loro torri di difesa o dosservazione, che offrivano al paesaggio una silhouette pittoresque et imposante. Anche Urbino era «una città pochissimo nota agli stranieri, pochissimo visitata e tuttavia merita desserlo».


 Urbino: il Palazzo dei Duchi
(illustrazione tratta da Les Bords de l’Adriatique …, p. 545)

La città di Rimini, dove aveva soggiornato per diversi giorni, era invece molto più lungamente nota per la sua tragica eroina: Francesca.
Yriarte avrebbe mantenuto, qualche anno dopo, la promessa e l’auspicio di poter dedicare all’episodio dei due sfortunati cognati un vero e proprio saggio, «stabilendo i fatti storici a fronte di quelli leggendari, e fornendo tutti i documenti a sostegno»[ii]. Anche in quest’occasione con quella mistura alchemica di romanticismo e positivismo che caratterizza un po’ tutte le sue opere, dove il soggetto è romantico, ma nondimeno indagato con i nuovi criteri del positivismo in campo scientifico e del naturalismo e realismo in ambito letterario.
Questa apparente eclettica oscillazione, in realtà un equilibrato amalgama, in cui l’eroe romantico, o l’eroina, assumeva una sua razionalità scientifica di individuo reale grazie a paradigmi certi e concreti, ossia i documenti d’archivio e i monumenti che divenivano i criteri e i modelli di un concreto sapere scientifico, aveva già avuto in Italia il suo manifesto nel saggio del 1866 La filosofia positiva e il metodo storico di Pasquale Villari (1826-1917), che in fondo non era altro che l'applicazione e lo sviluppo rigoroso del metodo di Francesco De Sanctis (1817-1883). Ma in quest’opera di diffusione culturale Yriarte, — che sostanzialmente nasceva come giornalista, autore e creatore di quelle riviste con cui l’Europa ottocentesca rese più vicini paesi e culture distanti contribuendo alla loro conoscenza — aveva modelli e predecessori illustri: Jules Michelet con il suo Histoire de la France au sezième siècle: Renaissance (Paris, 1857), Georg Voigt con Die Widerbelebung des klassischen Altertums, oder der erstejahrhundert des Humanismus (Berlin, 1859), e, soprattutto, Jacob Burckhardt con Die Kultur der Renaissance in Italien (Basel, 1860). Proprio da Burckhardt, il cui studio domina ancor oggi la nostra immagine del Rinascimento, Yriarte aveva tratto la lezione che, per un intervento davvero qualificato, era necessario attingere a fonti originali, a documenti d’archivio e, laddove possibile perché sopravvissuti, ai monumenti dell’epoca. Ma anche dai suoi carissimi amici, i celebri fratelli Goncourt, aveva appreso un rigore metodologico. Nelle prefazioni all’Histoire de la société française pendant la Révolution e ai Portrait intimes du XVIIIe siècle (1857-1858) i Goncourt sostenevano una nouvelle histoire che prescriveva di cercare le fonti in «un mondo di carta fino ad allora dimenticato», «nei diari, negli opuscoli, negli autografi, nelle incisioni, nei disegni, in tutti i monumenti personali» che un’epoca si lascia dietro; solo così, partendo magari da «un granello di sabbia», si poteva ricostruire un «microcosmo umano». 
Quasi non bastasse il rigoglio che poteva derivare dall'episodio dell'assassinio di Paolo e Francesca, il panorama affascinante intravisto da Yriarte in quella «piccola città di Rimini, sita sulla costa dell'Adriatico, il cui nome non richiama alla memoria dei più che il ricordo della fragilità di una donna, quella del furore di uno sposo e alcuni versi d'un canto immortale»[iii] doveva riservargli un'altra sorpresa. Così la descrive:  

Vagando, come ho abitudine di fare, senza piani preconcetti, limitandomi alla mia sola conoscenza degli stili per riconoscere i monumenti e le rovine, cado letteralmente immobilizzato, inchiodato sul posto dall’ammirazione, davanti a un monumento che ritengo uno dei più belli di tutta Italia. È purtroppo incompiuto; la data è splendida (1450), e l’iscrizione del frontone ha qualcosa di grandioso: A dio immortale, Sigismondo Pandolfo Malatesta, figlio di Pandolfo.
È la chiesa di San Francesco, tutto sommato abbastanza poco conosciuta, riprodotta pochissimo, così poco, che abbiamo dovuto rinunciare a trovarne fotografie in tutta Italia, e dovuto far eseguire nella stessa Rimini dieci cliché differenti dal signor Trevisani, per poter un giorno illustrarla, dopo avere cercato i documenti di archivio. A questo edificio è stato dato il nome di Tempio Malatestiano.
Ci si immagini una chiesa del tredicesimo secolo alla quale un principe potente, ricco, amico delle arti, ha fatto un viluppo (una camicia, per farmi meglio comprendere) il cui disegno è di Leon Battista Alberti, di Firenze. Ne offro la facciata[iv], ma è incompiuta; è per mezzo delle medaglie del tempo che si comprende ciò che doveva essere. È lo stile, al tempo stesso classico e pieno di nobile fantasia, della seconda metà del quindicesimo secolo che Alberti ha adottato. All’esterno è semplicissima, di una grande unità e di un gusto completamente squisito. Le modanature, i fregi, i viticci sono di quest’epoca fortunata dove tutto ciò che usciva delle mani degli artisti raggiungeva una perfezione che non sarà superata.
Sigismondo, figlio di Pandolfo, ha fatto di questo tempio l’opera della sua vita. Per abbellirlo ha saccheggiato Sant’Apollinare in Classe di Ravenna. Ha voluto riunire nelle cappelle dell’interno i sepolcri della sua famiglia e quello della sua sposa Isotta il cui monogramma, unito al suo, corre in tutte le fasce delle tre facciate. Con un pensiero pieno di grandezza, e che farebbe amare questo Malatesta gravato d’imprecazioni nella storia, ha voluto che sotto ciascuna delle arcate delle facciate laterali, in un sarcofago nobile e semplice e dalla forma antica, riposasse uno dei poeti, dei filosofi e dei sapienti che vissero alla sua corte.
L’interno è pieno di rivelazioni per lo studio delle arti. I più grandi artisti italiani del quindicesimo secolo hanno concorso a ornarlo, e, persino dopo le prodigiose tombe dei Frari e di San Giovanni e Paolo, ci si può stupire della perfezione delle opere scolpite che adornano ciascuno di questi santuari dell’arte. Singolare apprezzamento si deve portare su un’opera di questo tempo, in cui l’architettura tornava alle sorgenti antiche: essa è originale e romantica come un sistema ornamentale nato ieri e che non può essere improntato ad alcun tempo; vi sono delle audacie di composizione che colpiranno vivamente coloro che si occupano d’arte. Spero di avere ritrovato i nomi degli artisti che hanno collaborato a questo prezioso monumento e di potere provare che non si tratta niente di meno che di Luca della Robbia, Pisanello, Matteo de’ Pasti, Sperandeo, Simone Donatello, Piero della Francesca, Lorenzo Ghiberti e Bernardo Ciuffagni.
Molto prima della corte di Ferrara, prima dell’apogeo del regno degli Urbino, fin dal 1350, questa corte di Rimini era un centro intellettuale. Sigismondo, figlio di Pandolfo, fece di Rimini una piccola Atene, e numerosi grandi artisti hanno vissuto alla sua corte e sono morti al suo servizio. Aveva i suoi scienziati, i suoi filosofi, i suoi pittori, i suoi incisori di medaglie; era poeta, e si sono conservati i suoi versi alla bella Isotta, la sua sposa. Aveva anche la specialità della fortificazione, e gli si deve il disegno di numerose roccaforti delle città circostanti.[v]

Quella particolare aura di straordinarietà in cui si era imbattuto, facendolo arrestare come impietrito di fronte a quella chiesa pressoché sconosciuta al mondo, iniziò il fascino malatestiano in tutta l’Europa, e poi nel mondo. Il Tempio malatestiano non fu più uguale a quello che era stato, dopo il viaggio di Yriarte. Dopo la morte di Sigismondo era stato un ospite quasi indesiderabile, tra gli edifici della città. Se Sigismondo e Isotta ebbero un sogno di eternità, quello di raggiungere la vita eterna continuando a vivere attraverso il loro Tempio, il loro sogno fu esaudito.
Quanto al viaggio di Yriarte sarebbe continuato, attraverso i suoi libri dedicati a Rimini, alla sua storia e alla sua arte, e, ancora ripreso attraverso i posteri, altri visitatori avrebbero accolto i bassorilievi e le altre opere con lo stesso animo, e ne avrebbero tratto indizi e visioni[vi].
Yriarte quasi indovinava che questi futuri maestri si sarebbero confusi tra i turisti, inosservati e indistinti tra riti più materiali, quelli del denaro, del loisir e della vacanza:

La città è divenuta una stazione balneare importante, e vi si viene da tutti i punti d’Italia. Una città nuova si è formata sulla spiaggia, e ricorda molto, fatte le dovute proporzioni, quelle moderne città di Deauville o di Villers, dove i parigini affluiscono durante l’estate. Le famiglie ricche vi possiedono dei padiglioni che vengono ad abitare durante la stagione dei bagni e alcuni abitanti di Rimini, più avventurosi degli altri, hanno speculato sui terreni e costruito delle case in locazione. La spiaggia è bellissima, ma scopertissima e sabbiosa.[vii]

Ma chi era Yriarte? Chi era questo viaggiatore e scrittore, questo giornalista e illustratore? E come e perché, a seguito dei lussuosi volume di Yriarte, a cascata seguiranno enciclopedie, guide turistiche per viaggiatori, novelle, drammi, poesie e studi eruditi, in cui Rimini e il suo entroterra, «le Terre Malatestiane e del Montefeltro», «con le loro numerose roccaforti circostanti», saranno protagoniste?
Si può tentare di dare risposta a queste domande[viii]. E, alla luce di quanto vedremo, anche se gli eventi non si ripresentano in modo identico, ciò non impedirà che le esperienze di quel tempo lontano si prestino ancor oggi a riflettere sul presente, e forse anche a cercare di immaginare il futuro della nostra terra e la grazia di un possibile cambiamento, o meglio una magica trasmutazione, per il salto qualitativo dovuto al lavoro di un semplice araldo che ne ritrova e mostra il vero essere.



 Charles Yriarte (1832-98).
(ritratto della Gazette des Beaux-Arts, ser. 3, vol. 19, 1898, p. 431)

«Yriarte è pieno di anedotti», annotava Edmond de Goncourt nel suo diario[ix]. Lo incontrava spesso, negli anni tra il 1892 e il 1895, nel salotto della principessa Mathilde Bonaparte, dove Yriarte, che sembrava avere visto e conosciuto tutto e tutti, era capace di fare i racconti più interessanti. Nell’angolo del salone raccontava degli infruttuosi tentativi di Lord Hertford di conoscere Balzac, del coraggioso disprezzo per la morte di Claudius Popelin in fin di vita, della pazzia e dei deliri del sifilitico Maupassant, internato nella casa di salute del suo amico dottor Blanche a Passy. Bisognava infrangere la sua discrezione per scoprire che la sua descrizione di un’enorme grotta nell’Istria — che aveva visitato nel suo lungo viaggio la cui tappa più importante era stata Rimini — aveva fornito a Jules Verne lo scenario perfetto per l’evasione del suo Mathias Sandorf. Verne non aveva mai visitato l’Istria: aveva soltanto fatto il giro della costa croata con il suo yacht. Ma Yriarte gli aveva descritto l’enorme apertura della grotta su cui nel X secolo fu fondata la città di Pisino (Pazin) nel centro dell’Istria, la foiba, il ruscello che sparisce nell’orrido e l’adiacente castello cinquecentesco. Verne mise la sua proverbiale immaginazione sulla carta e avviò la storia del romanzo con una rocambolesca evasione. Ma, soprattutto, Yriarte affascinava gli ospiti del salotto descrivendo la spedizione dei Mille. Spiegava i lati meno noti del suo finanziamento da parte di Dumas che aveva acquistato, con i soldi che gli doveva l’editore Michel Lévy, 70.000 franchi di pistole e camicie rosse, disseminandole lungo le coste del Mediterraneo, con una prodigalità degna del Conte di Montecristo. Evocava l’amante dello scrittore, una ventenne attrice ex pescivendola, che, dopo aver seguito sulla goletta di Dumas l’impresa in una fantasiosa divisa da capitano di vascello, era stata costretta a tornare in Francia incinta, accompagnata da Yriarte, che dovette — ricordava — penar le pene del mondo per farle abbandonare gli abiti maschili, nonostante il suo stato.[x] Parlava invece raramente della sua partecipazione al giornale bilingue L'Indipendant/L’Indipendente, il quotidiano fondato a Napoli da Dumas e aveva un assoluto riserbo sulla sua iniziazione in massoneria, avvenuta in quel frangente, assieme al prolifico scrittore francese che aveva allora circa il doppio dei suoi anni, nella loggia «Fede Italica».
Questo viaggiatore e scrittore, questo giornalista e illustratore era nato a Parigi il 5 dicembre 1832[xi], da una famiglia d’origine spagnola — o meglio di etnia basca come la ypsilon del cognome tradisce. L’arte lo aveva ben presto attratto. Compiuti gli studi all’École des beaux-arts a Parigi, a vent’anni era entrato nello studio dell’architetto Constant Dufeux (1801-1870), che allora lavorava al Panthéon e al castello di Vincennes. Quattro anni dopo era stato nominato ispettore degli ospizi di Vincennes e Vésinet, ma dopo qualche anno l’impiego fu soppresso. Che fare? Yriarte ha una matita esperta e veloce, disegna xilografie per i giornali e il suo talento viene subito notato. Nell’ottobre del 1859 la Spagna ha dichiarato guerra al Marocco. Parte come corrispondente di guerra e disegnatore del Monde illustré, e assiste alla campagna nello stato maggiore di Leopoldo O'Donnel, allora presidente del governo spagnolo e insieme ministro della guerra. L'anno dopo è a Gaeta con il generale piemontese Cialdini. Racconta quello che vede e ci si accorge che scrive bene così come disegna bene (abilità indispensabile per gli «inviati speciali» ai tempi degli albori della fotografia). Ma prima d'essere all'assedio di Gaeta col «duca cacciator d'agguati», come si è detto, aveva seguito l'impresa dei Mille di Garibaldi in Sicilia sullo yacht  Emma di Alexandre Dumas, assieme a un’amante vestita da ammiraglio. Di tanto in tanto, lui e Dumas, scendendo a terra, inviano corrispondenze sull’evento ai giornali francesi, trovandosi a condividere con Garibaldi la vittoria di Milazzo, lo sbarco in Calabria, l'impetuosa avanzata delle camicie rosse lungo la penisola, la conquista di Napoli, di cui si attribuiscono una dubbia mediazione con i liberali napoletani per la resa incruenta della città. Yriarte è il fido custode dell’ultima arrivata delle amanti di Dumas. Dovrà con lei lasciare precipitosamente Napoli per Parigi, dove Émilie partorirà il 24 dicembre 1860 una graziosa bambina, Micaëlla-Clélie-Josepha-Élisabeth, una della dozzina di figli di madri diverse dello scrittore tra i più famosi di Francia e anche tra i più tumultuosi, ma che avrà come padrino Garibaldi in persona. Aveva confidato Dumas a Yriarte: «è per umanità che ho così tante amanti, se ne avessi soltanto una, morirebbe nel giro di otto giorni». Era comunque riuscito a rientrare in Italia e a fermarsi per un po’ di tempo a Napoli con Alexandre Dumas al palazzo di Chiatamone, a collaborare al suo gustoso Indipendente, a coadiuvarlo persino nel suo incarico di Direttore delle Belle Arti, un rodaggio di quella che sarebbe divenuta una delle sue principali attività. Tornato a Parigi nel 1862, la sua vivace penna tocca temi diversissimi: arte e critica artistica, vita elegante, ritratti di contemporanei, storia dei circoli parigini; non teme neppure di presentarci le celebrità della strada, mantenendo sempre il giusto tocco, delicatezza, stile e gusto.
Subito dopo l’infiammato, esaltante clima delle spedizioni marocchina e garibaldina, ci restituisce l’irripetibile atmosfera di un’epoca che oggi non c’è più — un’epoca di sentimenti belli e nobili, di cuori puri, di romantiche improvvisazioni, di amor di patria, ma anche di crudeltà di guerra —, facendo uscire, nel 1863, il suo primo libro «turistico», Sous la tente (Sotto la tenda), sui suoi itinerari, la storia del Marocco e la sua recente guerra con la Spagna. Il libro aprirà una lunga serie di viaggi e di conseguenti libri. Ma il libro sul Marocco inaugura anche quella che sarà una delle caratteristiche di eleganza di tutti i libri di Yriarte: la bellezza del corredo iconografico. Infatti è illustrato da Gustave Doré (siamo solo due anni dopo le sue celebri illustrazioni dell’Inferno dantesco). Del resto il gusto per la bellezza della scrittura, per le proporzioni e l’armonia dell’impaginazione, per l’accuratezza impeccabile delle immagini che intessono esteticamente la trama tipografica, per tutto ciò insomma che fa la veste di un oggetto di lettura o, in altri termini, tutto ciò che forma la predilezione per la bibliofilia — che sia quella del raffinato editore o dell’appassionato collezionista — in Yriarte si ritrova di continuo. Quanto all’intelligenza, sensibilità estetica e precisione del gusto, va ricordato ciò che gli esperti d’arte già sanno. E cioè che Yriarte fu l’autore nel 1867 — meno di quaranta anni dopo la morte del grande pittore spagnolo — della prima monografia su Francisco Goya[xii].
Caratteristica dei libri di Yriarte è dunque quella di essere sempre accompagnati da una ricca messe di tavole illustrative, spesso della mano dello stesso Yriarte, che modestamente quasi mai si indica come autore dei disegni e degli schizzi. I suoi articoli sul Le Figaro, La Vie parisienne, L’Art e poi sul Monde illustré — che dirigerà per sei anni dal 1864 — e su altri giornali ancora come Le XIXe Siècle, firmati a suo nome o con gli pseudonimi di Junior e di marquis de Villemer, gli procurano una buona reputazione e gli consentono di raccogliere in volumi i suoi vari pezzi di costume. Nel frattempo era stato anche nominato Ispettore dei lavori architettonici del Nouvel-Opéra in costruzione, condotti sotto la direzione dell’architetto Charles Garnier, dimostrando che non aveva dimenticato l’eclettismo che aveva imparato presso Dufeux. Risale al 1868 la sua prefazione ad un opuscolo dedicato ai fregi del Partenone di Fidia.
Nella campagna del 1870-71 servì come aiutante di campo del generale Vinoy, collaborando alla redazione dei dispacci militari per il Times. Fu allora che egli pubblicò il libro La Retraite de Mézières. In quel biennio, la guerra franco-prussiana, lo choc di Sédan, la caduta del Secondo Impero, le manifestazioni della Bastiglia, l’instaurazione della Comune di Parigi, sono per il giornalista, lo scrittore e l’illustratore, ma anche per il partigiano di Louis Adolphe Thiers (1797-1877) — statista e storico della Rivoluzione Francese, leader delle forze «repubblicane» conservatrici, tipico rappresentante della Francia moderata e liberale, ma capace di soffocare in una carneficina i Comunardi —, lo spunto di nuove opere d’attualità. Questa sua celebrazione di Thiers è quasi un’anticipazione di quelle figure di prìncipi rinascimentali che celebrerà: una mistura di liberalità e di cultura, empietà e talento guerresco e sanguinario. Del 1874 è infatti il primo libro di storia dell’arte e della civiltà rinascimentale con cui Yriarte si cimenta, quello sulla vita di Marcantonio Barbaro (1517 o 1518-1596) e sulla storia di Venezia dal 1508 al 1797.
Sul finire del 1871 aveva rinunciato alla direzione del Monde Illustré, e si mise a viaggiare, continuando la sua collaborazione alla Revue des Deux Mondes, alla Gazette des Beaux-Arts, all’Art. Il desiderio di paesi poco conosciuti e di viaggi lontani lo aveva ripreso. Questa volta, a tentarlo, è l’Europa orientale e la costa adriatica italiana che gli forniranno gli spunti per nuove narrazioni. In tre anni visita l’Istria e la Dalmazia, l’Erzegovina e la Bosnia, il Montenegro, la Serbia e i Balcani. Quindi tutta la costa Adriatica da Trieste ad Otranto, con quella basilare tappa a Rimini che abbiamo, tramite suo, descritto. Si era allontanato da Parigi anche per un altro motivo. Dopo la battagliera, spumeggiante vivacità dell’esperienza garibaldina, iniziato alla massoneria in Italia, al ritorno nel suo paese era diventato un membro del Grande Oriente di Francia. Come tutti i francesi era stato alle prese con l’impossibile dell’anno 1870. La disfatta del 1870, la caduta dell’impero e l’avvento della Terza Repubblica, aveva spaccato la libero-muratoria francese. Una parte si era legata al governo di Thiers: era la cosiddetta massoneria d’ordine. Ma esisteva anche una massoneria rivoluzionaria che appoggiava i Comunardi. Nell’aprile 1871, scoppia la guerra civile. Numerose delegazioni di massoni, agendo pubblicamente, tentarono una mediazione con Thiers per evitare gli esiti sanguinosi delle sue decisioni. Non li ascolterà. Alcune logge, senza l’accordo dei dignitari, si ritroveranno sulle barricate in compagnia dei Comunardi che offriranno loro la bandiera rossa della Comune. Il Grande Oriente di Francia rifiuta questa esibizione, ma molti massoni sfilano pubblicamente con gli esponenti della Comune. I fratelli uniti ai Comunardi minacciano di sollevarsi se i soldati di Versailles spareranno sulla folla. Thiers si burla dei massoni, vuole la fine dell’insurrezione. La massoneria sarà definita socialista e comunarda: un quarto degli eletti alla Comune è massone, ma la maggioranza della massoneria è liberale, democratica, anticlericale e cerca inutilmente la conciliazione fra Parigi e Versailles. Il vittorioso Thiers decide di chiudere le logge. I massoni compromessi sono fucilati o deportati. Il partigiano di Thiers non riusciva a capire esattamente quello che era successo. Aveva bisogno di cambiare aria, di allontanarsi per un po’ da quella bugiarda iscrizione: Liberté, Egalité, Fraternité.
Nel 1874, l’anno stesso del suo viaggio in Istria e Dalmazia, era dunque apparso La Vie d’un Patricien de Venise au XVIe siècle, il primo di quei libri che gli avrebbero contemporaneamente valso i suffragi dei letterati e degli eruditi e che gli avrebbero senza dubbio aperto le porte dell’Institut de France, se la morte avesse atteso un po’ più di tempo. Il 1875 è l’anno del viaggio nei Balcani, quando in Erzegovina, Bosnia e Bulgaria scoppiano insurrezioni contro la dominazione dell’Impero ottomano: ne pubblicherà dei ricordi.
Tutte le opere dedicate all’arte, sia quella rinascimentale che quelle consacrate agli artisti del suo tempo, sono anche caratterizzate dalla cura costante del ricercatore paziente, da cui dipende il merito fondamentale di questi testi, assieme ad inattese scoperte che ne aumentano il valore intrinseco. Sono qualità che si erano già potute apprezzare nel suo libro su Goya. Ma la storia dell’arte, degli artisti e dei prìncipi-mecenati dell’Italia nel XV e XVI secolo, fu la sua passione negli ultimi vent’anni della sua vita. Fu, nel tempo libero che gli lasciava il suo incarico di Ispettore delle Belle Arti al quale l’aveva chiamato nel 1881 Jules Ferry, ministro dell’istruzione pubblica dal 1879 al 1883 e suo fraterno amico e già suo collega nella Revue des Deux Mondes, la sua grande occupazione e la sua maggior gioia. Con Ferry, il ministro che fece votare in Francia nel 1882 la legge sulla gratuità e obbligatorietà della scuola primaria cosi come quella sulla laicità pubblica e che l’8 luglio 1875 era stato iniziato nella loggia «La Persévérante Amitié» del Grande Oriente di Francia, Yriarte aveva trovato una sua stabilità. Sindaco di Parigi durante la Comune, Ferry aveva vissuto la stessa crisi di Yriarte, le stesse esperienze personali, lo stesso orrore per le convulsioni socio-politiche e per i tumulti di strada. La Terza Repubblica doveva affiancare alla divisa Liberté, Egalité, Fraternité il motto positivista Ordre et Progrès. Solo l’educazione, l’istruzione e la cultura potevano assicurare un’unità psicologica e sociale. La massoneria stessa, con la sua esistenza, mostrava la possibilità di una morale sociale e laica, senza necessità di puntelli teologici, capace insieme di rispettare la fede personale e di combattere il clericalismo che si fa potere. Ferry e Yriarte avevano capito entrambi perché tra le colonne del tempio si alzavano in piedi e si mettevano «all’ordine», perché lavoravano «per il bene e per il progresso dell’umanità». Affermava Ferry, e Yriarte assentiva: «se teniamo tanto all’ordine [...] è perché l’ordine è la condizione primaria, essenziale del progresso. [...] il progresso non è una serie di sopprassalti né di colpi di mano [...] è uno sviluppo lento; è un fenomeno di trasformazione che si produce dapprima nei costumi per passare in seguito nelle leggi», ma per mettere ordine negli spiriti bisogna fronteggiare «l’internazionale nera» retrograda (clericali, gesuiti) come pure lo spirito d’utopia dell’«internazionale rossa». La Comune era stata simile al Terrore del 1793. Bisognava rimpiazzare l’animosità con il reciproco rispetto.

 
Festa di beneficenza offerta dalla Loggia massonica La Persévérante Amitié (schizzo di Charles Yriarte, 1877)
(Collezione privata di Moreno Neri)

Fu in quel periodo che Yriarte decise di non nascondere più la sua appartenenza massonica. La sua loggia «La Persévérante Amitié», loggia sorella di quella di Ferry e del filosofo Émile Littré, aprì le sua sale per feste di beneficenza e concerti, di cui si dava notizia nelle cronache mondane del Figaro. In uno schizzo di pugno di Yriarte, pubblicato nel 1877 si è autoritratto: è il primo a sinistra nella prima fila di dignitari massoni con il classico collare.
Ma il campo di Yriarte non era quello politico come per il fratello Ferry. Era quello dell’arte e della cultura. Nel 1889 diventava membro del consiglio superiore delle Direzione delle Belle Arti e, ormai da diversi anni, era conservatore delle collezioni di sir Richard Wallace[xiii].
Con perseveranza, si attaccava a qualche capolavoro o a qualche personaggio di quelle epoche feconde che ammirava e sulle quali non era ancora stato detto tutto o di cui poco si conosceva. Interrogava i documenti d’ogni sorta che potevano permettergli di saperne di più. Di un’opera riusciva quindi a farci capire a quale maestro bisognava decisamente attribuirla, chi l’aveva ispirata, quali erano state le sue successive vicissitudini e fortune. Con la stessa curiosità studiava certi famosi personaggi, alcuni meravigliosi, altri mostruosi, altri ancora di entrambe le paste, enigmi che turbavano la ragione umana, anime sfrenatamente perverse, tuttavia aperte al senso e all’intelligenza del bello, capaci dei peggiori crimini e nello stesso tempo di azioni gloriose. Sigismondo Malatesta, Cesare Borgia… gli ricordavano quei generali che aveva frequentato: O’Donnell, Garibaldi, Cialdini, Thiers…
Dopo Francesca da Rimini, nell’ultimo tratto della sua vita, una figura gli si era imposta più di altre: Isabella d’Este, pura, nobile e affascinante, la «divine italienne», come la chiamava. Le aveva già dedicato alcune pagine[xiv]; certamente pensava di renderle altri omaggi ancora. Nel 1895 è in missione a Mantova per ricreare gli interni degli appartamenti privati d’isabella d’Este  Con la stessa serietà, Yriarte servì lo Stato. La coscienza che metteva nei suoi libri la metteva nel compimento delle sue funzioni pubbliche. Fermo nelle sue opinioni, non esitava a esprimerle, ma lo faceva con tanta cortesia e tatto, che si sarebbe avuto torto ad offendersi dei suoi pareri, anche quando potevano dispiacere. Era la dirittura e la lealtà in persona. Negli ultimi anni della sua vita lo avevano lasciato i suoi migliori amici: il pittore Ferdinand Heilbuth, il filosofo Desormeaux e il collega Armand Baschet. Era ormai divenuto, in ambito giornalistico, una firma prestigiosa. Oltre a collaborare ai numerosi giornali e periodici illustrati francesi menzionati, lo ritroviamo, poco prima della sua morte avvenuta a Parigi il 10 aprile 1898, tra le firme prestigiose di Cosmopolis, una rivista trilingue (inglese, francese e tedesco) fondata nel 1897, che annoverava tra i suoi collaboratori i più importanti scrittori di Francia, d’Inghilterra e di Germania. Così Yriarte era nel novero con Kipling, Conrad, Henry James, Bernard Shaw, Yeats, Anatole France, Alphonse Daudet, Turgheniev, Theodor Mommsen, Nietzsche… solo per citarne alcuni[xv]. La morte nel 1898 lasciava incompiuta una sua opera su Andrea Mantegna che sarà pubblicata nel 1901.
Le numerose opere che ha lasciato durante la sua feconda vita mostrano una fonte d’ispirazione multiforme. Tutta la sua vita di ricercatore e di viaggiatore in Marocco, Spagna, Italia, Balcani, Inghilterra e Portogallo mostra il desiderio di coltivare il suo «cosmopolitismo» che non si comprende se è nato dalla sua adesione alla Massoneria o se, viceversa, questo suo orientamento lo portò ad affiliarsi a questa Istituzione. La sua esperienza della vita militare gli aveva permesso di scoprire la «grande, sublime poesia della vita nomade, vita biblica in cui l’uomo cresce al cospetto di Dio, all’aria libera». Si mostra come uno scrittore-viaggiatore, per il quale l’esperienza diretta è una conditio sine qua non della scrittura, i cui l’autore non è un semplice cronista, ma un viaggiatore assetato di conoscenze e di sensazioni i cui obiettivi sono «vedere, apprendere, sentire». Di qui la sua scrittura estetizzante, pittorica, à la manière de Théophile Gautier, che considerava come uno dei grandi del suo tempo, di qui il corredo alla sua scrittura di disegni da lui stesso o da altri realizzati per illustrare le sue opere.
Yriarte diede alle stampe il suo Rimini: Un condottiere au XVe siècle dopo un lungo periodo di ricerche in archivi, biblioteche, musei, collezioni private, e sopralluoghi e visite in Italia e nelle Romagne in particolare. Sono del 1876 le prime lettere che Giuseppe Vaccaj (1836-1912), pittore e sindaco di Pesaro, anche lui massone, riceve dallo storico francese conosciuto a Roma nel periodo del suo apprendistato artistico e divenuto poi amico di famiglia. Sono del 1879 tre articoli, pubblicati sulla Gazette des Beaux-Arts, su Les arts à la cour des Malatesta au XVe siècle, che possono considerarsi anticipazioni del volume. La corrispondenza con Vaccaj (notevole paesista cui la città delle Marche ha dedicato una mostra nel 2000), che sarà prodigo di consigli, informazioni e disegni per questo libro prezioso e raffinato, durerà fino al febbraio 1882[xvi].
Nell’apparato iconografico dei volumi dell’Yriarte sono appunto presenti alcuni croquis, qui  riprodotti, illustranti le rocche (quella di Rimini innanzitutto, ma anche Montefiore, Gradara, Verucchio). Alcuni degli schizzi sono dello stesso Yriarte, altri di Silvio Mariani di Verucchio, altri ancora, appunto, di Vaccaj.



Resti della Rocca di Montefiore costruita da Malatesta Guastafamiglia nel 1345.
Dallo schizzo del Sig. Vacaj, Sindaco di Pesaro
(illustrazione tratta da Rimini: Un Condottiere au XVe siècle …, Fig. 25 p. 41)



Rovine del Castello di Gradara, difeso da Sigismondo contro Sforza nel 1445 – Stato attuale – Schizzo del Sig. Vacaj, Sindaco di Pesaro
(illustrazione tratta da Rimini: Un Condottiere au XVe siècle …, Fig. 63 p. 124)



Resti del Castello di Verucchio. – Schizzo di Silvio Mariani di Verucchio
(illustrazione tratta da Rimini: Un Condottiere au XVe siècle …, Fig. 12 p. 24)



Resti della Fortezza di Verucchio, elevata nel 1448 da Sigismonfo Pandolfo.
Dallo schizzo di Silvio Mariani di Verucchio
(illustrazione tratta da Rimini: Un Condottiere au XVe siècle …, Fig. 13 p. 25)



Porta della Fortezza di Verucchio. Stato attuale.
(Schizzo trasmesso dal dottor Ariodante Mariani di Verucchio)
(illustrazione tratta da Rimini: Un Condottiere au XVe siècle …, Fig. 15 p. 26)

La sua opera su Rimini e la Corte malatestiana, anche se non tradotta in inglese come quelle su Firenze e Venezia[xvii], ebbe comunque una vastissima influenza sulla conoscenza della città di Rimini e del suo territorio. E questo nonostante — occorre ben sottolinearlo — le sue pubblicazioni abbiano avuto una tiratura e quindi una diffusione limitata, perché raramente erano libri popolari destinati al grande pubblico. Ma nell’Ottocento il francese era la lingua internazionale per eccellenza: quello che leggeva l’élite parigina, il giorno dopo lo leggeva il mondo[xviii].
Il principale merito che va assegnato all’Yriarte, scrittore famoso e apprezzatissimo alla sua epoca e oggi misconosciuto, fu certamente quello di essere riuscito a «sprovincializzare» con la sua opera — finalmente provvista di una quantità enorme di documentazione tratta dagli archivi, nonché di un sontuoso apparato iconografico — la conoscenza e gli studi sui monumenti e sull’arte del primo Rinascimento italiano, conoscenza e studi fino ad allora relegati in ambito nazionale e specialistico. Rimini e Urbino, i loro circostanti territori (le terre malatestiane e del Montefeltro), meritavano d’essere famosi per il loro cruciale ruolo nel Rinascimento italiano. È, dunque, con Yriarte che il ruolo della Corti rinascimentali dei Malatesta e dei Montefeltro, per lungo tempo come escluse dai percorsi geografici e delle relazioni culturali, riceve la sua definitiva consacrazione mondiale.
In quest’opera di diffusione culturale Yriarte aveva avuto pochi predecessori, ma altrettanto illustri, cui si devono, nella seconda metà dell’Ottocento, preziose e rare testimonianze: Jacob Burckhardt nel 1860 (con la menzionata Civiltà del Rinascimento in Italia, tradotta in italiano nel 1878), il popolare storico inglese John Addington Symonds (1840-1893), autore di Renaissance in Italy, opera in più volumi pubblicati tra il 1875 e il 1886 (che quindi più che un precorritore si può considerare un concorrente).
Yriarte fa tornare Rimini, Urbino e i suoi territori con le rocche che li circondano lungo i sentieri del Grand Tour, fin dalla seconda metà dell’Ottocento, quando Rimini risorge, anche grazie alla ferrovia lungo la linea Bologna-Ancona, come stazione balneare. Del nostro territorio, infatti, in un certo senso, si erano perdute le tracce, forse a causa delle omissioni del Vasari, forse per una non certo brillante dominazione papalina, succeduta prima ai Malatesta e quindi ai Montefeltro, e che vedrà, dopo secoli, le menti più brillanti delle Romagne tentare di scuotere il giogo pontificio fin dagli albori del Risorgimento.
Dopo il plebiscito che univa le Romagne al resto d’Italia, l’anno dopo, nel 1861, si inaugurava il tratto ferroviario Bologna-Rimini ed il seguente anno quello Rimini-Ancona, con solenne inaugurazione alla presenza di re Vittorio Emanuele II il 10 novembre. Nel breve volgere di qualche lustro lo sviluppo delle strade ferrate consentiva a Yriarte, proveniente dai Balcani, di percorrere a tappe la dorsale adriatica, dall’Istria, ancora tutta austriaca, fino a Bologna, e da qui a Ravenna fin giù a Otranto. De Ravenna a Otrante è appunto il titolo di un suo articolo apparso nel 1877 sul periodico illustrato Le tour du monde, relazione del suo viaggio del 1874, anticipatoria di Les Bords de l’Adriatique. Lanciata così, da un erudito francese, Rimini veniva fatta conoscere più largamente e messa in valore; una Rimini, che Charles Yriarte aggiunge a Venezia e a Firenze come terza capitale del Rinascimento. La valanga messa in moto a Parigi è ormai inarrestabile. Fino ad allora non si sapeva molto bene che cosa significasse questa città, ma Rimini, dopo qualche anno, è un soggiorno estivo ricercato da italiani e stranieri
Infatti, come si è detto, il lussuoso volume di Yriarte ebbe effetti prodigiosi su più diversi testi, da quelli enciclopedici alle prime guide turistiche, su novelle, drammi, poesie e studi eruditi, e tutti ripeteranno per decenni le asserzioni di Charles Yriarte. Così, fin dal 1886 al 1929, ogni edizione (dalla nona alla quattordicesima) dell’Encyclopaedia Britannica includerà la voce ‘Rimini’, compilata dallo storico Pasquale Villari. Anche la celebre e impareggiabile undicesima edizione dell’Encyclopaedia Britannica, summa della conoscenza europea uscita nel 1911, ripeteva, dunque, lo stesso articolo apparso nel 1886[xix].
Con lo sviluppo della rete ferroviaria e la crescita del turismo d’èlite i nomi di Sigismondo Pandolfo Malatesta e di Federico da Montefeltro arrivavano ad essere presenti anche in fonti meno prestigiose dal punto di vista letterario, ma di ben più ampia diffusione come le guide turistiche e i libri di viaggio. Anche i nostri territori facevano quindi il loro ingresso nelle notissime guide Baedeker[xx], così come, pochi anni dopo, nella guida turistica francese Petites villes d’Italie di André Maurel, nelle sue tredici ristampe della terza edizione dal 1906 al 1920.
Sull’influenza dei suoi libri e di come sulle orme di Yriarte giunsero nei nostri luoghi Frederick Hamilton Jackson, Edward Hutton, Ezra Pound, Adrian Stokes, Aldous Huxley, Bernard Berenson, Aby Warburg ed Henry de Montherlant, ce ne siamo occupati in altro luogo.
Il fatto che Yriarte non abbia né a Rimini né in una qualsiasi cittadina malatestiana nemmeno una via a lui dedicata, cosa che di recente sembra non negarsi a nessuno, ha a che fare con quello Zeitgeist che ha fatto precipitare l’Italia al ventisettesimo posto mondiale nella classifica dei paesi turistici, quando la nostra nazione dovrebbe essere, legittimamente, in testa. C’è materia per indignarsi e c’è da chiedere, più subito che presto, di cambiar registro.
Ai brividi del consumo culturale di massa, alle emozioni del libro e del catalogo patinato, che peccano più in omissioni che in opere, ci è dato preferire un’opera più umbratile: la scoperta, il restauro, anche minimo, fuori dal disciplinamento ufficiale e dai canoni consueti, di qualcosa di sconosciuto, dimenticato, distrutto, eppure testimonianza del passato. Un patrimonio unico che purtroppo non rientra neppure nei piccoli e costosi depliant turistici in lingua inglese, che di certo non danno nessun imput alla storia che qui si è tentato, se non di raccontare, di accennare. Non c’è da sorprendersi se i turisti stranieri affollino solo Firenze e Venezia, che sono gremite e sfigurate. È il loro riaffiorare improvviso a dare il piccolo piacere autentico di un incontro inatteso, la minuta speranza che la scoperta di queste radici, che taluno vorebbe tranciate, possano magari sovvertire il presente e allargare gli orizzonti del futuro.
Una paziente indagine sulla letteratura odeporica delle nostre rocche, di cui qui si è cercato di offrire un piccolo assaggio di un ricco nutrimento per chi è insaziabile di nuove sensazioni in territori ignoti e negletti, non è unoccupazione stravagante. Il trascorso istituto del Grand Tour contemplava, assieme a una formazione generale (conoscenza delle lingue, istituzioni e civiltà diverse), anche lacquisizione di un nuovo modo di «vedere» la realtà. Quelli di allora (ma ancora taluni di ora) erano viaggiatori attirati dal giardino dItalia, un giardino aldilà del giardino, e dal giardino di sogno di un paese che vedevano come un concentrato della storia.
La funzione delle rocche rispondeva ad esigenze militari. Lo stesso Yriarte ci spiega:

Questa disposizione verso lo studio del genio militare era d’altronde appieno nei costumi e nel gusto del tempo; i principi delle Marche e delle Romagne sono stati alla testa di questo movimento. Federico d’Urbino è restato il celebre ingegnere del suo tempo; Francesco Maria della Rovere s’è acquistato una reputazione in questa specialità, e Lorenzo de Medici, a detta di padre Alberto Guglielmotti, dirigeva gli ingegneri militari fiorentini. Alfonso di Ferrara, pure, spesso s’intitola «Bombardiere». Nel magnifico palazzo dei duchi di Urbino, residenza dei Montefeltro, si vedono ancora oggi una serie di settantadue bassorilievi di marmo rappresentanti tutto il materiale delle macchine da guerra in uso nel XV secolo: baliste, catapulte, bombarde, seghe per gli steccati, la cui esecuzione è attribuita allo scultore Ambrogio da Milano, allievo del celebre pittore Barocci di Urbino. Tutti gli elementi che compongono questi bassorilievi, eseguiti nel 1464, sono tratti dall’architetto militare Francesco di Giorgio, che era alla corte di Urbino ciò che Roberto Valturio era alla corte dei Malatesta, ma che aggiungeva alla sua scienza profonda il gusto purissimo nel disegno e la scienza d’un architetto consumato.
È probabile che Sigismondo, portato d’istinto alle cose belliche, abbia fatto principalmente studi sull’armamento e sulla fortificazione. È più probabile ancora, avendo fornito i disegni delle fortificazioni di Ragusa e di Rodi, che egli abbia giocato un considerevole ruolo nella costruzione della Rocca Malatestiana. In ogni caso, non abbiamo affatto da dubitare che gli si debba, se non l’invenzione delle bombe, come dice Roberto Valturio, quantomeno il grande perfezionamento che vi apportò costruendo per la prima volta il proiettile che, fino allora, era in legno cavo cerchiato di ferro e provvisto d’una miccia.[xxi]


 Avanzi della Rocca: fortezza dei Malatesta, Signori di Rimini
(illustrazione tratta da Les Bords de l’Adriatique …, p. 533)

Sigismondo, indubbiamente, come dice Adrian Stokes, era «oversize»[xxii], di dimensioni più grandi del normale, anche nell’arte militare. Non fu solo l’eccellente costruttore di un Tempio, di castelli, tra cui quello di Rimini, «il primo castello progettato per resistere all’artiglieria»[xxiii]. Fu anche un espugnatore di questi ultimi, spendendo parte della sua vita come «assediatore di città». Sigismondo, vincitore del re di Aragona, incoronato dai Fiorentini, meritò per i posteri il titolo di POLIORCETES SEMPER INVICTVS, come mostra la leggenda del disegno di una medaglia di Pisanello (o forse di Matteo de’ Pasti) ora perduta, fusa in occasione della presa della città di Vada. Sempre col titolo di Poliorcete è pure ricordato da Roberto Valturio nel De re militari, come anche da Pound nei suoi Cantos (IX/36), che nomina Sigismondo con l’epiteto dell’antico re di Macedonia Demetrio (336-283 a.C.).



Sigismondo Poliorcete, incisione di una medaglia ora perduta
(da Memorie istoriche di Rimino e de suoi signori artatamente scritte ad illustrare la zecca, e la moneta riminese …, nella stamperia di Lelio Della Volpe, In Bologna, 1789, part. della tav. 3)

Oggi sappiamo che, alla fine dei conti, Sigismondo soprintese alla costruzione o al rinnovamento di oltre cento fortificazioni[xxiv]. Si è detto che il vecchio adagio inglese che recita “la casa di un uomo è il suo castello” (a man’s home is his castle), ben si adatta a questo mecenate quattrocentesco. Sul simbolismo associato ai castelli nel Rinascimento si è persino scritto qualcosa[xxv].
Ma il guerriero che costruisce nuove rocche e rafforza quelle esistenti o le prende d’assalto ha sovente la generosità del vincitore. Non è infine sorprendente come con i Malatesti, i Medici, gli Este, gli Sforza, i Montefeltro, i Gonzaga e i grandi pontefici, l’Italia, già regina nell’antichità, riprendesse lo scettro e il dominio del mondo in nome della forma e dell’idea.
È tuttavia innegabile che lattenzione su questo tema, può essere posta anche su paramentri psicologici. Tempio e Castello/Castelli rappresentano la sintesi di meditazione e opera. Ecco come Roberto Assaggioli procede in chiave psicologica offrendoci una geografia antropologica:

Titurel trova e sceglie i suoi collaboratori e crea così il Gruppo e ne dirige le attività. Questo è un simbolo della psicosintesi interindividuale. In collaborazione, i Cavalieri costruiscono il Castello e il Tempio; il Castello è un simbolo di potenza, mentre il Tempio è il simbolo dell’aspetto religioso, dell’Amore, il luogo di comunione con lo Spirito. [...] il Castello viene costruito a difesa contro gli attacchi ostili dell’intero territorio scelto quale dimora dei Cavalieri; mentre il Tempio è il luogo dove essi compiono le loro cerimonie [...] il Castello rappresenta l’aspetto umano ed il rapporto col mondo esterno, e il Tempio rappresenta la vita interiore e la sorgente dell’ispirazione per le attività esterne.[xxvi]

Lo spostamento fisico con la visita di una Rocca, se vissuto con immedesimazione del Sé, diviene così un’applicazione della Tecnica dellAscesa e può perciò coincidere con una trasformazione spirituale del viaggiatore, che è sempre «un uomo insoddisfatto della vita ordinaria», un archetipico cavaliere del Graal, e mai un turista presuntuoso e frettoloso.

Moreno Neri
 




[i] Charles Yriarte, Les Bords de l’Adriatique et le Monténégro: Venise, l’Istrie, le Quarnero, la Dalmatie, le Monténégro et la rive italienne …, ouvrage contenant 257 gravures sur bois et 7 cartes, Librairie Hachette et Cie, Paris, 1878, p. 525-526. La traduzione, come per i brani seguenti tratti dal medesimo volume, è nostra. Una lunga anticipazione di questo testo apparve nel 1877, in un articolo di 80 pagine corredate da illustrazioni, pubblicato nella rivista Le Tour du Monde: nouveau journal des voyages sotto il titolo «De Ravenne à Otrante». Lo stesso articolo del grande e serio periodico illustrato francese, in versione italiana, fu pubblicato a Milano da Treves a dispense, nel 1878, sotto il titolo «Il giro del mondo - da Ravenna ad Otranto». Unaltra edizione italiana, successiva di un lustro, è Le rive dell'Adriatico e il Montenegro: Venezia, Chioggia, Trieste, l'Istria, il Quarnero e le sue isole, la Dalmazia, il Montenegro, Ravenna, Ancona, Loreto, Foggia, Brindisi, Lecce, Otranto / di Carlo Yriarte, Fratelli Treves, Milano, 1883. Oggi vedi anche i capitoli VIII-IX (pp. 479-591), edizione anastatica sulla base delledizione Hachette in versione digitale a cura di Alessandra De Paolis, nella collezione di edizioni digitali del CISVA (Centro Interuniversitario Internazionale di Studi sul Viaggio Adriatico), integralmente riprodotti e scaricabili in pdf: http://www.viaggioadriatico.it/ViaggiADR/biblioteca_digitale/titoli/scheda_bibliografica.2011-02-08.0041548579
[ii] Charles Yriarte, Françoise de Rimini dans la légende et dans l’histoire; avec vignettes et dessins inédits d’Ingres et d’Ary Scheffer, J. Rothschild, Paris, 1883. In esso l’autore non manca di sollevare la questione di dove avvenne il fattaccio. Rimini, Santarcangelo o Pesaro? Yriarte, con valide ragioni, propende per la prima città. Quanto a Gradara, essa non viene neppur nominata. Giacché, anche se poco noto ai più, la localizzazione dell’assassinio nel suo castello è invenzione degli anni ’30 del secolo scorso, basata su una dubbia tradizione popolare, e rafforzatasi con strategie di pubblicità turistica nei successivi anni ’60, con indubbia generosità o noncuranza da parte della città di Rimini, allora più affaccendata in materiali opere di cementificazione che in quelle culturali. La stessa rocca di Gradara è una Francescaland, un discutibile rifacimento novecentesco ad uso turistico.
[iii] Charles Yriarte, Rimini: Un Condottiere au XVe siècle. Etudes sur les lettres et les arts à la cour des Malatesta d’après les papiers d’état des archives d’Italie: Avec 200 dessins d’après les monuments du temps Paris, J. Rothschild Ed., Paris, 1882, p. 22. Trad. it. di Moreno Neri, Rimini: Un Condottiero del XV secolo. Studi sulle lettere e le arti alla corte dei Malatesta secondo le carte di stato degli archivi d’Italia — con 200 disegni dai monumenti del tempo, Raffaelli Editore, Rimini, 2003, p. 31.
[iv] Il riferimento è all’illustrazione originale di «San Francesco, il Tempio dei Malatesta, a Rimini» in p. 534 di Charles Yriarte, Les Bords de l’Adriatique…. L’illustrazione è stata riprodotta in Visitatori celebri nel Tempio di Rimini — E. M. Forster: Gemisto Pletone; Il Sepolcro di Pletone — Aldous Huxley: Rimini e Alberti — Adrian Stokes: Pisanello, Primo di quattro saggi sul Tempio Malatestiano di Rimini. Introduzione, traduzioni e note a cura di Moreno Neri, Raffaelli Editore, Rimini, 2004, p. 26, in alto.
[v] Charles Yriarte, Les Bords de l’Adriatique…, pp. 533-535.
[vi] Sull’effetto del lavoro di Yriarte su Rimini in rapporto a E. M. Forster, Aldous Huxley, Adrian Stokes, Ezra Pound, Bernard Berenson, ecc., vedi la mia introduzione al citato Visitatori celebri nel Tempio di Rimini, pp. 5-59.
[vii] Charles Yriarte, Les Bords de l’Adriatique…, pp. 535-536.
[viii] Su Yriarte vedi innanzitutto l’articolo contemporaneo a lui dedicato in Pierre Larousse, Grand Dictionnaire universel du XIXe siècle, vol. 15, Paris, 1870, p. 1431 (rist. anast. in 2 voll. Slatkine, Genève - Paris, 1982). Si rinvia inoltre al nostro articolo «La Scoperta di Rimini artistica e turistica. appunti di viaggio di Charles Yriarte, intellettuale francese dell’Ottocento» (prima parte) e (seconda parte), in L’Albero, anno I, n. 1, 2007, pp. 31- 35 e anno II, n. 1, pp. 32-39. La terza parte del lungo articolo è rimasta inedita.
[ix] Edmond de Goncourt - Jules de Goncourt, Diario. Memorie di vita letteraria (1851-1896), scelta, traduzione e introduzione di Mario Lavagetto, Garzanti, Milano, 1992, p. 434.
[x] Ibid., p. 402, 406, 433 e 434.
[xi] Vedi il suo necrologio: Albert Kaempfen, «Charles Yriarte», in Gazette des Beaux-Arts: Courrier Européen de l’Art et de la Curiosité, serie 3, vol. 19, 1898, pp. 431-433. Per alcuni dati biografici di Charles Yriarte, oltre al necrologio, vedi: Angelo De Gubernatis, «Yriarte (Carlo)», in Dizionario biografico degli scrittori contemporanei, coi tipi dei successori Le Monnier, Firenze, 1879, II, p. 1075; «Yriarte [iria´rt], Charles Émile», in Nordisk familjebok, 1a Ed., vol. XVIII, Aktiebolaget familjebokens, Stockholm, 1894, col. 125 e 2a Ed., vol. XXXIII, 1922, col. 590; Maurice Tourneux, «Yriarte, Charles-Emile», in La Grande Encyclopédie: inventaire raisonné des sciences, des lettres et des arts / par une société des savants et de gens de lettres; sous la direction de MM. Berthelot, ... Hartwig Derenbourg, … F.-Camille Dreyfus, … A. Giry [et al.], vol. 31, Société Anonyme de la Grande Encyclopédie, Paris, 1902, p. 1290; Charles Yriarte, «Memoires de Bagatelle: VI», in La Revue de Paris 10, 1903, pp. 380-414; Charles Yriarte, «The Hertford House Collection Bequeathed to the British Nation», in Pall Mall Magazine, 1900, pp. 4-18.
[xii] Charles Yriarte, Goya, sa biographie, les fresques, les toiles, les tapisseries, les eaux-fortes et le catalogue de l’oeuvre, Henri Plon, Paris, 1867. Libro classico nella bibliografia goyesca, fino a non molti anni di difficilissimo accesso per quell’ampio pubblico interessato a Goya, e che si distingue, soprattutto, per la bellezza e qualità della sua edizione, per non parlare della pulizia tipografica in cui spiccano cinquanta curatissime immagini delle opere di Goya, molte di pugno dello stesso Yriarte, nell’ottobre 1996 il Gobierno de Aragón ne ha ristampato un’edizione in facsimile dell’originale francese, accompagnata da una traduzione in castigliano, presentandola a Saragozza. Dal 18 giugno 2006 il libro è stato digitalizzato su Google Libri e pertanto può essere visionato e scaricato al seguente url: http://books.google.it/books?id=8UIBAAAAQAAJ&printsec=frontcover&dq=yriarte+goya&lr=&ei=MyjqR6_UHoKWzASwor2Ydg. Va anche segnalato su Goya il saggio di Yriarte, Goya aquafortiste, sulla rivista L’Art, vol. 9 (1877), pp. 3-10, 31-40, 56-60, 78-83.
[xiii] Costituita dai primi quattro marchesi di Hertford e dal figlio naturale del quarto marchese, Sir Richard Wallace, la raccolta, nota come la Wallace collection, una delle maggiori collezioni private al mondo, fu donata nel 1897 allo Stato inglese e aperta al pubblico nel 1900. La sede del museo è una sorta di castello francese in miniatura, Hertford House, costruito nel cuore di Londra, dimora dei marchesi. Il museo rappresenta una delle più belle collezioni private d’arte mai assemblate prima da una famiglia. Molte delle opere presenti erano conservate nel castello di Bagatelle nel Bois de Boulogne, residenza francese del marchese e di cui Yriarte era conservatore (vedi in proposito, in particolare Charles Yriarte, «Memoires de Bagatelle: VI», in La Revue de Paris 10 (1903), pp. 380-414 e Charles Yriarte , «The Hertford House Collection Bequeathed to the British Nation», in Pall Mall Magazine, 1900, pp. 4-18). La collezione comprende una notevole raccolta d’arte francese del XVIII secolo con dipinti, mobili e porcellane, miniature, statue, persino armature poltrone, tavolini, orologi rococò, ceramiche italiane. Tra i quadri, opere italiane (Tiziano, Foppa, Canaletto, Guardi), spagnole (Velazquez, Murillo) e fiamminghe (Hals, Rembrandt, Rubens, van Dyck) e quadri di pittori inglesi e francesi (Gainsborough, Poussin, Watteau Delacroix, Fragonard). La galleria possiede una preziosa collezione di arredi e di oggetti vari: armamenti reali e opulente esposizioni di scatole d’oro, sculture d’arte del periodo rinascimentale. Il museo rispetta fedelmente la disposizione degli oggetti prevista alla morte di Lady Wallace. Ciò che si visita, dunque, non è tanto un museo quanto la casa di ricchi collezionisti di oltre un secolo fa, interessante per qualità ed eclettismo. Il museo non è molto conosciuto, quindi si può visitarlo con calma e senza resse. Da notare che l’ingresso è gratuito per espressa volontà dei coniugi Wallace, che posero anche come condizione del lascito allo Stato inglese che tutto nella casa rimanesse come loro l’avevano lasciato, impedendo che la collezione fosse smembrata.
[xiv] Charles Yriarte, «Les relations d’Isabelle d’Este avec Léonard de Vinci, d’après des documents réunis par Armand Baschet», in Gazette des Beaux-Arts, vol. I - ser. 2, 37, 1888, pp. 118-131; Charles Yriarte, «Isabelle d’Este et les artistes de son temps», in Gazette des Beaux-Arts, ser. 3, 13, 1895, pp. 13-32.
Come noto, Isabella d’Este (1474-1539) è la protagonista del celebre libro di Maria Bellonci Rinascimento Privato, vincitore dello Strega nel 1986.
[xv] Su Cosmopolis n. 15, marzo 1897, vol. V, pp. 738-761, pubblicava il suo ultimo saggio La maison de Mantegna à Mantoue et «les triomphes de César» à Hampton Court.
[xvi] Cfr. Giuseppe Vaccaj: Disegni e dipinti dal 1856 al 1912 / a cura di Giuseppe Appella; Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro - Montani Antaldi Mostre, Il lavoro editoriale, Ancona, 2000, p. 169.
[xvii] Charles Yriarte, Florence: L’Histoire - Les Médicis - Les Humanistes - Les Lettres - Les Arts - orné de 500 gravures et planches, J. Rothschild Ed., Paris, 1881. Pochi anni dopo l’opera fu tradotta in inglese, prima in Inghilterra: Florence: its history, the Medici, the humanists, letters, arts (illustrated with 500 engravings; tr. by C. B. Pitman), S. Low, Marston, Searle, and Rivington, London, 1882; e poi negli Stati Uniti: Florence: Its History, The Medici, The Humanists, Letters, Arts, (new edition, revised and compared with the latest authorities by Maria Hornor Lansdale), The International Press, H. T. Coates & co., Philadelphia, PA, 1897.
Charles Yriarte, Venise: Histoire - Art - Industrie - La Ville - La Vie, J. Rothschild, Paris, 1878,. Ben presto anch’essa tradotta in inglese da F. J. Sitwell e pubblicata in Gran Bretagna e negli Stati Uniti: Venice: Its History - Art - Industries, and Modern Life, G. Bell and sons, London, 1880; Henry T. Coates & co., Philadelphia (PA), 1896. Va inoltre aggiunta in ambito anglosassone la sintesi di Venice; fac-similes of colored photographs of St. Mark’s cathedral, the Doge’s palace, the Piazza and Campanile, the Arsenal, the Grand Canal, the Bridge of sighs, the Riva dei Schiavoni, the Rialto bridge, together with half-tone engravings of drawings F. A. Stokes & brother, New York, 1889 e l’analoga descrizione veneziana, sotto altri titoli con stessi editore luogo e anno, Gondola and palace: facsimiles of colored photographs of the Doge’s palace; the Bridge of sighs; the Arsenal and the Piazza and Campanile. Accompanied by selections from the text by Charles Yriarte, e The Queen of the Adriatic.
[xviii] Grazie a internet e alle nuove tecniche di stampa print on demand, in particolare di testi fuori diritti, oggi molti dei libri di Charles Yriarte, sono facilmente acquistabili in ottime ristampe facsimili, a poche decine di dollari, su Amazon. Altrettanti suoi testi, qui menzionati, sono ora facilmente consultabili e liberamente scaricabili in pdf sullInternet Archive: http://openlibrary.org/authors/OL1152182A/Charles_Yriarte
Quando oltre una decina d’anni fa mi accingevo a tradurre Rimini: Un Condottiere au XVe siècle, la Biblioteca gambalunghiana di Rimini, dei cento esemplari della tiratura, ne possedeva due copie di cui una in cattivo stato. Per facilitare il mio lavoro, decisi di acquistarne una copia da un libraio antiquario ad un discreto prezzo. Oggi, grazie a internet, non ne avrei più bisogno.
Per dare un’idea dell’enorme diffusione di questo libro, si tenga conto che dei due libri digitalizzati su internet una copia proviene da Harvard e l’altra da Oxford; la copia di mia proprietà viene addirittura da «Krishnalok / Kalimpong / West Bengal / India».
[xix] I riferimenti esatti delle due edizioni citate sono: Pasquale Villari, Rimini, in Encyclopaedia Britannica, vol. 20: PRU-ROS, Adam & Charles Black, Edinburgh, 1886 (9th ed.), p. 557-560; Id., Rimini, in Encyclopaedia Britannica, vol. 23: REFE-SAIN, Cambridge University Press, Cambridge, 1911 (11th ed.), pp. 344-347.
[xx] Vedi Karl Baedeker, Italy. Handbook for Travelers - Second Part: Central Italy and Rome, nelle sue edd. del 1900 e del 1908. L’impresa di Baedeker, che aveva avuto inizio a Coblenza nel 1829 con una semplice guida turistica dedicata alla valle del Reno, ben presto, con lo sviluppo del turismo per strada ferrata, diveniva un fenomeno culturale. Ne assicurarono il successo e la diffusione — oltre al contenuto informativo e preciso e allo stile pacato che permetteva di ricondurre in un alveo rassicurante i fenomeni anche imprevisti ed esotici che il viaggiatore, ricco e borghese, avrebbe osservato sul posto — l’adozione, fin dal 1837, della lingua inglese, il formato tascabile, il prezzo accessibile e la facile riconoscibilità del prodotto, ottenuta grazie — per usare un termine mutuato dal moderno marketing — al packaging: la tipica copertina verde.
[xxi] Charles Yriarte, Rimini: Un Condottiero del XV secolo …, pp. 122 s.
Il giovane signore di Rimini aveva già disegnato, a sedici anni, il progetto della fortezza di legno che doveva servire nei festeggiamenti delle sue nozze con Ginevra d’Este. Si trattava dunque proprio dell’affermazione di un’inclinazione particolare e, più tardi, più volte, Sigismondo dirigerà i lavori dei suoi genieri, negli assedî delle città. È lui che fornì i disegni delle fortificazioni di Ragusa e di Rodi, al tempo in cui prestava servizio per la Repubblica di Venezia, pochi anni prima della sua morte (1464). Gli storici militari non dubitano che sia stato il primo ad aver avuto l’idea di fondere le bombe in bronzo, quando erano, in precedenza, fatte di legno cavo, cerchiato in ferro (cfr. Carlo Promis, Memoria II: Dello stato dell'artiglieria circa l’anno Millecinquecento e particolarmente delle dieci specie figurate da Francesco di Giorgio Martini, Tipografia Chierio e Mina, Torino, 1841, Parte Seconda, p. 166)). Possedeva, a Rimini, un campo permanente di studi militari come soli ne dirigevano i condottieri più rinomati. Là i giovani nobili di tutta Italia potevano venire ad apprendere l’arte della guerra, vicino a questo maestro sapiente impetuoso e duro che sceglieva pure, con la stessa cura voluttuosa, le sue armature magnifiche, i suoi cavalli da combattimento, e imprimeva su tutti gli equipaggiamenti dei suoi uomini il disegno della sua cifra abbracciata a quella di Isotta.
Vi era dunque qui, in lui, la manifestazione di un interesse costante per l’arte militare e della fortificazione
[xxii] Adrian Stokes, Stones of Rimini; traduzione di Moreno Neri, Raffaelli Editore, Rimini, 2002, p. 193.
[xxiii] Ivi.
[xxiv] Vedi Maria Grazia Pernis & Laurie Schneider Adams, L’Aquila e l’Elefante: Federico da Montefeltro e Sigismondo Malatesta; traduzione di Moreno Neri, Raffaelli Edore, Rimini, 2005, pp. 92 ss., con rinvii ad un’ampia bibliografia sul tema.
[xxv] Vedi Joanna Woods-Marsden, «Images of Castles in the Renaissance: Symbols of ‘Signoria’ / Symbols of Tyranny», in Art Journal 48.2, June 1989, pp. 130-137; Id., «How quattrocento princes used art: Sigismondo Pandolfo Malatesta of Rimini and cose militari», in Renaissance Studies 3.4 December 1989, pp. 387-414.
[xxvi] Roberto Assagioli, Principi e metodi della psicosintesi terapeutica, Astrolabio, Roma, 1973, p. 172.

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