lunedì 20 maggio 2013

Le Iniziazioni di Piero della Francesca: il Sigismondo inginocchiato


Le Iniziazioni di Piero della Francesca:
il Sigismondo inginocchiato

Organizzato dall'Associazione Culturale Clan Sinclair Italia e con il patrocinio del 
Comune di Fano - Assessorato alla Cultura
27 febbraio 2013, ore 18.00
MEMO - Mediateca Montanari di Fano





San Sigismondo e Sigismondo Pandolfo Malatesta 1450-1451
Affresco trasferito su tela, cm 257 x 345, Rimini, Tempio Malatestiano.


L’affresco si trova nella chiesa di S. Francesco, ricostruita all’esterno da Leon Battista Alberti e splendidamente decorata di bassorilievi da Agostino di Duccio e da altri lavoranti della pietra e comunemente nota col nome di “Tempio Malatestiano”.
Il committente Sigismondo Pandolfo Malatesta cancellò persino il nome di S. Francesco titolare della vecchia chiesa, vorrà che fosse chiamato Templum e verrà dedicato umanisticamente, e certo spiacendo alla Chiesa, con una iscrizione greca al Dio immortale ed alla città. Si noti al Dio e non a Dio; c’è una certa differenza. Un Tempio, emblema del Rinascimento, che volta a volta è stato definito Tempio esotico, esoterico, eroico, erotico, eretico. 
...
Inginocchiato in primo piano è Sigismondo Pandolfo Malatesta, signore di Rimini dal 1432 al 1468, di fronte al suo santo patrono. Sigismondo, pur essendo di profilo nella tipica postura del “devoto” genuflesso sul gradino di una pedana e impettito a mani giunte, è collocato al centro della scena, con dimensioni maggiori e su un piano più avanzato rispetto al santo, e spicca nitidamente, anche a causa dello spazio vuoto dello sfondo del muro. 
Ritroviamo Sigismondo in questa medaglia di Pisanello

Pisanello, Medaglia per Sigismondo Malatesta, bronzo, fusione, Ø mm 88,6, 
recto: busto di Sigismondo Malatesta 
SIGISMVNDVS • PANDVLFVS • DE • MALATESTIS • ARIMINI • FANI (rosa) d[OMINUS] (rosa), 
Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. I. 5891. 

La medaglia fu eseguita nel 1445 per celebrare la vittoria di Fano, la liberazione della città dall’assedio degli Sforza. I Malatesti furono signori di Fano dal 1356 al 1463. È effigiato di profilo Sigismondo Pandolfo Malatesta in forma di busto, girato a destra, con una ricca veste e con la tipica acconciatura ricadente sul collo che si vede anche nel suo ritratto che gli fece Piero della Francesca. Vi si legge lungo il bordo in senso orario l'iscrizione SIGISMVNDVS PANDVLFVS DE MALATESTIS ARIMINI FANI D[VX o OMINUS] ("Sigismondo Pandolfo Malatesta, comandante di Rimini e Fano").



Nell'affresco riminese vi un forame, una finestra rotonda od oculo. Intorno all’oculo con la veduta del castello, si leggono questi caratteri: 
CASTELLVM SISMONDVM ARIMINENSE MCCCCXLVI.
Dobbiamo certamente pensare che Sigismondo volle che fosse raffigurato accanto a sé il Castello che egli aveva fatto erigere a cominciare dal 20 maggio 1437 e che, per accontentarlo Piero della Francesca dovette fingere nella parete un oculo da cui si potesse intravvedere la fortezza.
Curiosamente – in pochi l’hanno notato (mi pare solo Carlo Bertelli, Piero. Un pittore per due nemici, Skira, Milano, 2012 p. 9) – il castello malatestiano ritorna, fra l’altro, in un altro dipinto di Piero della Francesca, la tavoletta che dovrebbe rappresentare Girolamo Amadi in preghiera davanti al suo patrono.  

Piero della Francesca, San Gerolamo e un devoto, 1450 circa, tempera su tavola, cm 49 x 42 
Venezia, Gallerie dell'Accademia
Sul tronco d'albero a sinistra: petri de bv[r]go s[an]c[t]i sep/vlcri opvs; 
a destra in basso, sul terreno davanti al devoto inginocchiato: hier. amadi. avg. e.

Perché abbiamo usato il condizionale, dicendo dovrebbe rappresentare Girolamo Amadi di fronte a s. Girolamo?  
Il santo raffigurato in questo dipinto viene comunemente identificato con san Gerolamo penitente, pur essendo privo dei suoi tipici attributi quali il galero, cioè il beretto rosso cardinalizio e il leone, di cui il santo, secondo la leggenda, conquisto la fedeltà togliendogli una spina dalla zampa. Si noterà che il devoto inginocchiato richiama i lineamenti di Giovanni Bacci, committente degli affreschi della Leggenda della Croce di San Francesco e ritratto nella Flagellazione.
Sul tronco d'albero a sinistra si legge petri de bv[r]go s[an]c[t]i sep/vlcri opvs, e a destra in basso, sul terreno prospicente il devoto inginocchiato, hier. amadi. avg. e.. Essendo Amadi il cognome di una famiglia veneziana vissuta tra il Quattrocento e il Cinquecento, fu ipotizzata una commissione proprio a Venezia. La maggior parte degli studiosi esclude però tale possibilità e assegna l'apposizione della scritta a un momento successivo, quando la famiglia ne acquisì la proprietà. Per motivi stilistici la datazione viene portata alla metà del Quattrocento, nell'ambito di quelle opere prodotte per le corti italiane di cui fa menzione Vasari.
Anche questo ritratto come l'affresco riminese descrive un'iniziazione.
….
La prima qualificazione dell’iniziato ai misteri pitagorico-platonici è l’amore per ciò che può chiarire l’essenza eterna che non può essere alterata dalla generazione e dalla corruzione (VI Repubblica).
Così come sono scarsissimi i nostri elementi di conoscenza sui rituali delle iniziazioni antiche, altrettanto scarsi sono i dati sul rituale iniziatico che veniva praticato nel Rinascimento.
Pletone viene chiamato da Bessarione mistagogo, che significa, maestro di iniziati, letteralmente colui che conduce all’iniziazione misterica. Bessarione ci dice anche che Pletone aveva raggiunto l’epopteia, il grado supremo, la visione. In una sua lettera indirizzatagli dall’Italia dopo la sua nomina a cardinale gli si rivolgeva come l’unico maestro vivente di iniziati — ancora , l’iniziatore ai misteri — e iniziato del cerchio più recondito di Platone — cioè chi ha raggiunto l’epopteia, ovvero il più alto grado degli iniziati ai misteri, colui che ha raggiunto la visione del sacro.
Io ritengo che l’utilizzo di questo appellativo da parte di colti bizantini sottintenda anche almeno un paio di altri significati. 
Il primo va accostato al § 13 della Vita di Proclo di Marino di Neapoli, dove si racconta che Proclo, dopo aver studiato, sotto la guida di Siriano, per due anni, tutte le opere di Aristotele “come se fosse un’iniziazione ai piccoli misteri", il maestro lo introdusse “alla vera sacra dottrina di Platone … e lo rese capace di contemplare (epoptein) in lui [i.e. Platone] i misteri veramente divini”. Il che descrive il quadro di un perfetta formazione filosofica. È peraltro troppo noto come in Platone e nei suoi dialoghi sia spesso presente il paragone del percorso della conoscenza come una strada iniziatica e come in più modi prenda a prestito la terminologia dei misteri di Eleusi.
Eusebio, Clemente d’Alessandria e Giustino riferiscono che nei misteri eleusini il mistagogo, cantava un inno composto da Orfeo. Che l’inno fosse stato realmente composto da Orfeo appare problematico, ma che un qualche inno sacro fosse cantato durante il rito d’iniziazione è fortemente probabile. Comunque, quello che qui importa è l’importanza che Pletone attribuiva agli inni e allocuzioni agli dèi, che costituiscono larga parte dei frammenti superstiti del suo Trattato delle Leggi.

Gemisto era solito dire che Platone e prima di lui i pitagorici giudicavano fosse meglio non scrivere sulle questioni più importanti, ma trasmetterle oralmente, per via esoterica.
Ogni rito è costituito da un insieme di simboli e quando parlo di simboli nei riti d’iniziazione non intendo solo gli oggetti e le figure rappresentate, come si potrebbe essere superficialmente tentati di pensare, ma anche alle posture dei personaggi, alle parole eventualmente scritte 
L’iniziazione è essenzialmente una trasmissione di un influenza spirituale.
La soverchia esistenza di statuti, regolamenti, riunioni in luoghi e date fisse, la registrazione dei suoi membri, archivi e verbali delle sue sedute e altri documenti scritti, in breve tutto il circondario di un apparato esteriore più o meno ingombrante, è perfettamente inutile per un organizzazione iniziatica, che in fatto di forme esteriori ha bisogno soltanto di un certo insieme di riti e di simboli, che insieme ai loro insegnamenti, devono regolarmente trasmettersi per tradizione orale. Ogni cosa scritta, ci spiega, lo stesso Pletone è solo un semplice promemoria. Ecco perché le Accademie e i suoi membri sono in qualche modo inafferrabili. Non lasciano alcuna traccia accessibile all’investigazione degli storici ordinari, il cui metodo ha come carattere essenziale quello di riferirsi ai soli documenti scritti.
E allora ha ragione uno studioso warburghiano:
I misteri pagani rinascimentali furono concepiti per iniziati: richiedono quindi un’iniziazione. (Edgar Wind, Misteri pagani nel Rinascimento).
Ma quello che diceva Gemisto, lo ripete il suo discepolo Bessarione. 
Nell’In calumniatorem Platonis, la sua celebre opera in 4 libri, si troverà già in apertura del primo libro, nel secondo capitolo, una sequenza di argomentazioni. Bessarione illustra i motivi che indussero Platone a non scrivere nulla se non «per aenigmata» delle cose più alte e divine, nella convinzione che queste non si dovessero comunicare al volgo. Platone - secondo Bessarione - ha aderito al precetto dei pitagorici di non rendere pubblico l’insegnamento esoterico della scuola. Costoro «per tutta la vita tenevano segreti i misteri delle cose divine, affinché nulla trapelasse agli estranei e agli indegni». Assecondando la propria inclinazione ad avvicinare, per quanto possibile, sapienza antica e verità cristiana, Bessarione assimila al segreto pitagorico il precetto evangelico: «non date ai cani le cose sante e non gettate le vostre perle ai porci». Passa quindi a sottolineare la necessità e i vantaggi della tradizione orale, «quasi che con maggior sicurezza possano custodirsi quelle dottrine così sublimi sulla realtà divina se contenute non nei libri ma negli animi; e più dotti divengano gli studiosi di tali questioni se, confidando piuttosto nella memoria che nelle lettere, consegnino all’animo e non ai codici i principi della filosofia». Accennando al mito di Theut nel Fedro, e quindi alla svalutazione del discorso scritto, immagine esteriore del discorso vivente dell’anima, Bessarione prospetta i pericoli conseguenti all’apprendimento estrinseco per mezzo delle lettere, che conduce all’«opinione» e all’«ombra della sapienza», mentre solo il ricordo per forza intrinseca dell’animo guida alla «vera sapienza».
Per rafforzare ulteriormente l’argomentazione Bessarione riporta, traendola dal De vita Pythagorae di Giamblico, la lettera di Liside a Ipparco tutta volta a dimostare, in chiave iniziatica, le ragioni del rispetto per «i divini insegnamenti di Pitagora», e dunque la necessità «di non dividere i beni della filosofia con quanti neppur lontanamente han pensato a purificarsi». Segreto pitagorico e segreto platonico s’identificano nella continuità di una tradizione sapienziale esoterica che si astiene da ogni divulgazione per mezzo della scrittura. Bessarione è convinto che il costume pitagorico sia stato «salvaguardato da tutti i successori della sètta fino ai tempi di Platone. Anche Platone l’ha sempre mantenuto con gran cura. Infatti ha insegnato non con i libri ma con la voce, né ha lasciato libri intorno all’oggetto del suo insegnamento. Se mai ha scritto qualcosa, egli la dichiara non sua ma di Socrate. E ancora, ha esposto i precetti sulle cose divine in maniera così breve oscura ed implicita, da renderne difficile l’intelligenza ai lettori».
A sostegno dell’interpretazione, Bessarione non manca di riportare i luoghi canonici del «platonismo esoterico», la seconda lettera a Dioniso de natura primi entis e la Settima lettera, concludendo: «Da ciò è manifesto che Pitagora e Platone hanno giudicato che non si dovesse scrivere assolutamente nulla e che questioni di tal fatta [sc. i principi primi teologico-filosofici] non dovessero esporsi agli occhi della moltitudine».
Né qui si arresta l’argomento del Cardinale che, riferendosi a un passo del De bello Gallico, evoca il divieto druidico di trasmettere in forma scritta i precetti della saggezza sacerdotale: «Così non solo a giudizio dei pitagorici, ma anche dei druidi, che l’antichità stimò per dottrina e costumi, non era lecito tramandare per iscritto l’insegnamento dei principi supremi, affinché le più elevate dottrine fossero propagate nel volgo. Dunque Platone non ha scritto nulla o pochissimo e in modo assai oscuro, intorno ai principi primi e supremi, perché non è lecito comunicare ai molti una così grande verità, ma è molto più giusto onorarla e venerarla con tutto l’animo».
Se dunque Platone è il filosofo dell’interiorità, che tanto più custodisce verità sacre quanto meno le estrinseca con gli strumenti della comunicazione scritta, come debbono essere giudicati i suoi dialoghi? Per Bessarione essi non vertono «de primis supremisque rebus», ma solo «de ceteris rebus» e, composti «con grande arte e con singolare dottrina », contengono «molti e utilissimi precetti di quasi tutte le scienze e discipline liberali», sebbene anche per questi insegnamenti valga il principio che meglio sarebbero appresi e conservati nell’«assidua meditazione spirituale» e dalla «memoria» piuttosto che attraverso l’espressione scritta.
Il primato della trasmissione interiore e orale della saggezza si fonda sull’esperienza della indistruttibilità della memoria nella successione dei maestri e dei discepoli. «Infatti le devastazioni, le distruzioni e gli incendi delle città, ed altre quasi infinite calamità possono più facilmente distruggere i libri che estinguere la memoria degli uomini». Pur anteponendo la memoria alle lettere e la silenziosa venerazione del divino alla divulgazione del sacro, Bessarione non nega l’utilità della tradizione scritta, così come pur esaltando Platone non intende negare i meriti, sebbene su un piano diverso e sostanzialmente inferiore, di Aristotele che, nelle accuse mosse dal Trapezunzio, era rivendicato come l’espressione più alta della scienza scritta e sistematizzata. Bessarione però non approfondisce, né coordina alle precedenti affermazioni, il generico riconoscimento del valore della tradizione scritta.

Arca di Giorgio Gemisto Pletone.Tempio Malatestiano, Rimini.

Di Gemisto Bizantino, de’ filosofi del tempo suo principe, la spoglia mortale Sigismondo Malatesta, figlio di Pandolfo, condottiero nella guerra Peloponnesiaca contro i Turchi, per l’immenso amore di cui arde verso gli eruditi, quivi curò affinché fosse trasportata e onoratamente sepolta.
Così letteralmente dal latino.
Come è noto, Sigismondo Malatesta, dopo la sua scomunica e le sue disgrazie politiche,  per salvare la sua vita dovette sostenere, al soldo della Repubblica di Venezia, una crociata contro i turchi nel Peloponneso; non li scaccia dalla Morea come veniva allora chiamata la penisola greca, ma gli riesce di liberare nel 1464 a Mistrà il suo “santo sepolcro”: sottrae i resti mortali di Pletone, li porta con sé a Rimini e li seppellisce sotto le arcate del Tempio Malatestiano. Nell’affresco di Rimini si sovrapporrebbe quindi un’altra iniziazione, quella alla filosofia di Platone che Sigismondo avrebbe ricevuto dallo stesso Pletone nel 1439. O meglio, più che alla filosofia platonica ai “misteri platonici” come racconta Marsilio Ficino nel 1492 nel suo proemio alla traduzione delle Enneadi di Plotino. Vale la pena ricordare che il verbo Mueô, in greco da cui deriva il termine misteri,  vuole anche dire, in modo assai preciso, iniziare ai misteri e, in pari tempo, istruire (ma anzitutto istruire senza parole come avveniva in effetti negli Antichi Misteri) e consacrare. Mustes, poi, è l’iniziato ai misteri.












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