martedì 3 maggio 2011

PITAGORA: LA SUA POLITICA, LA NOSTRA MASSONERIA



Oggi mi è arrivato l'ultimo numero de L'ACACIA, che contiene un mio articolo.
Il riferimento bibliografico è: Moreno Neri, "Pitagora: la sua politica, la nostra Massoneria", in L'Acacia N. 1 - 2010, pp. 29-37. Purtroppo nella pubblicazione a stampa del testo sono andate perdute tutte le note (così imparo a non chiedere le bozze da correggere!).
L'articolo è la rielaborazione del mio intervento al convegno intitolato "da Pitagora all'Imperium", tenutosi a Roma il 5 marzo 2763 ab U. c. (2010 Era Volgare), in  occasione dei festeggiamenti per il 150° anniversario della fondazione del Rito Simbolico Italiano. 



In ogni caso, è da tempo on line sul web, ospitato nella sezione "Memoranda" del forum de La Cittadella a questo link.
Ad ogni buon conto lo ripropongo in questo post, con tutte le sue note, e ci aggiungo anche quattro immagini con le relative didascalie.


 
PITAGORA:
LA SUA POLITICA, LA NOSTRA MASSONERIA





Nella storia della filosofia quello del Pitagorismo è uno dei problemi più disagevoli. Questo perché — come è noto — la maggior parte e più precisa della nostra documentazione proviene dal Pitagorismo rinnovellato degli ultimi anni della Repubblica romana e dei primi quattro secoli della cosiddetta era cristiana attraverso i neoplatonici. Dunque le nostre fonti sono Diogene Laerzio, le vite di Pitagora di Porfirio e Giamblico, solo per fare i nomi delle autorità più celebri.
È dunque immediatamente comprensibile come in queste tarde fonti vi possa essere stata la tendenza ad arricchire l’antico Pitagorismo di gran parte dell’apporto della filosofia posteriore, soprattutto platonica e stoica. Bisogna tuttavia ricordare che, tra l’antico pitagorismo del IV sec. a.C. e la sua rinascita alla fine della prima metà del I sec. a.C., non sono poche le testimonianze che attestano come la tradizione della “scuola italica” non si spense. Fu negli ambienti romani che il Pitagorismo trovò gli adepti più ferventi (Posidonio d’Apamea, Nigidio Figulo, Statilio Tauro). Va infine sottolineato che nella serena visione di tolleranza degli Antichi — così come accadeva in ambito religioso — quelle che noi moderni “categorizziamo” come correnti filosofiche non costituivano mai un sistema chiuso e blindato, ma aperto ed integrabile. Pitagorismo, Platonismo (diretto discendente del primo) e Stoicismo avevano motivi e temi fondati su una prospettiva enoteistica che ne facilitavano un’armoniosa fusione. Le uniche eccezioni a questo intrinseco sincretismo erano costituite dal materialismo epicureo e dallo scetticismo.
D’altra parte, il fatto che le fonti su Pitagora siano “tarde”, ossia assai distanti nel tempo dal periodo in cui visse Pitagora e fiorì la sua Scuola, non deve essere motivo soverchio di preoccupazione. Noi studiosi spesso ci dimentichiamo di dire e spiegare che presso gli Antichi — dove non esisteva la nozione moderna di “diritto d’autore” e tantomeno quella negativa di “plagio” — scrivere era spesso un’opera di compilazione. Copiare da autori precedenti che si erano occupati del medesimo soggetto, ricombinare al meglio tutti gli elementi esistenti che si era riusciti a reperire era la cifra e il metodo normale dell’Antichità. Si trattava, per farci intendere con una terminologia della contemporaneità (si pensi alla musica o al web), di un metodo non dissimile da quello del “remix” o della “campionatura”, oggi favorita dalle nuove tecnologie e da un concetto di diritto d’autore sempre più labile. Con ciò si vuol dire che le notizie che abbiamo su Pitagora e sui Pitagorici beneficiano comunque, a causa del loro metodo compilatorio, di un sufficiente sostrato di vetustà e autenticità.
Ma tanto è leggendaria la figura di Pitagora, quanto resta nebulosa la sua reale posizione politica, anche se non ci sono dubbi sulla sua grande influenza politica sulle città dell’Italia meridionale. Aristosseno ci parla infatti genericamente del desiderio delle poleis di consegnare ai Pitagorici la guida politica. In genere si presuppone come ideale pitagorico quello dell’aristocrazia, ma meglio sarebbe parlare di “aristocrazia di metafisici”. Nicomaco d’altra parte descrive l’attività politica di Pitagora in modo tale da farcelo immaginare come, se non proprio un democratico, quantomeno un liberale convinto (“con i suoi discorsi, riempì le città di dottrine di libertà e le liberò”), inducendo persino un tiranno siciliano a rinunciare al potere e a dividere le sue proprietà tra la sorella e i cittadini. [1] Come nemico della tirannide ci viene descritto da Giamblico e da Aristosseno; ancora più anticamente Neante (tardo IV sec. a.C.) descrive lo stesso atteggiamento di amanti della libertà o antitirannici dei Pitagorici. Al tempo stesso vi sono anche descrizioni assai differenti, anzi, si direbbe opposte, che giungono fino al biasimo di aver tentato, lui o i suoi discepoli, di instaurare la tirannide. Le fonti sono Dicearco e Teopompo. Lo stesso Diogene Laerzio ci riferisce come le rivolte contro i Pitagorici fossero state state provocate da queste ragioni e che questa non era un’opinione di pochi.
Senza dubbio questi sono dati che ci dicono poco sulla vera concezione politica di Pitagora, prima di tutto perché il loro interesse è spostato sulle rivolte antipitagoriche, motivate democraticamente e comunque scoppiate alcuni decenni dopo la morte di Pitagora. In ogni caso i risultati confermano come può essere contraddittoria e divergente la tradizione su Pitagora. Al punto tale che la tradizione, incurante dei rapporti cronologici, ha fatto discepoli di Pitagora i più grandi legislatori italici: a cominciare dal secondo re di Roma Numa, per non parlare di Zaleuco, Caronda, Timarato, Teeteto, Elicaone, Aristocrate, Fizia. E come ultimi rampolli della scuola pitagorica Archita di Taranto e il tebano Epaminonda.
D’altra parte, tutti gli studiosi concordano sul fatto che nel secolo in cui visse Pitagora, in quasi tutte le colonie greche si viveva un momento storico decisivo. Si affacciava una nuova classe sociale, nata grazie allo sviluppo del commercio e della pirateria. Si assisteva dunque a un rapido processo di trasformazione politica ed economica che, se per una classe rappresentava un fattore di sviluppo e di progresso, per altre rappresentava un fattore di disordine e di caos.
Notissimo è il racconto che vuole che Pitagora sia stato il primo a inventare il termine filosofo. Si ha l’impressione che filosofia e politica si presentino sulla scena, in quel tempo, quali risposte alla scomparsa degli dèi sulla terra. Ma la via del filosofare è riservata a pochi. [2]

Ritratto immaginario di Pitagora. Da André Thevet, Les Vrais Pourtraicts et vies des hommes illustres, grecs, latins et payens recueillis de leurs tableaux, livres, medailles antiques et modernes …, G. Chaudière, Paris, 1584.


L’uomo — così si racconta che Pitagora spiegò a un tiranno — entra nel mondo come a una panegiria, ossia a una festa, una fiera: allo stesso modo infatti alcuni vi partecipano per lottare, altri per commerciare, altri ancora, e sono i migliori, per assistervi; così nella vita, diceva, alcuni nascono schiavi della bramosia di gloria e del comando, folli di rivalità, altri cacciatori di ricchezza e lusso, infine vi sono i filosofi della verità, coloro che contemplano l’universo, le cosa più belle. [3]
Cosa si può esigere da chi assiste a questa festa, se è un iniziato? Che osservi, evidentemente, e che faccia ogni sforzo per cogliere bene ciò che vede. Tale è l’obiettivo dell’iniziato. Egli è fatto per esaminare, con tutta la perspicacia di cui è capace, “il Primo, cioè la natura dei numeri e dei rapporti”, ossia la natura degli esseri, le loro relazioni e le ragioni del loro stesso divenire. [4] Si può dunque essere presenti nel mondo in parecchi modi, così come si può assistere in diversi modi ad una festa o ad una fiera. Si può prendere parte alle attività mercantili, acquistare o vendere del bestiame, senza interrogarsi sui princìpi di questo commercio e di questa fiera. Si può, viceversa, adottare l’atteggiamento di quelli che ricercano i princìpi delle loro attività. Parimenti, nel mondo, si può essere attratti dalla ricchezza e dal lusso, come mandrie di bestie che di niente si preoccupano più che del foraggio, senza quindi pensare ai princìpi di queste attitudini e di queste attività. Resta il fatto che possiamo — e tale è l’atteggiamento del saggio — interrogarci sui princìpi delle nostre attività nel mondo e farli nostri, ossia adottare un atteggiamento teoretico. Esso consiste nel chiedersi cos’è il mondo e chi lo governa, chi siamo, per cosa veniamo all’esistenza e per compiere quale opera, se abbiamo qualche legame e una relazione con l’essere che governa l’universo.
L’esoterismo, insomma, non sfugge a quest’obbligo di formulazione e di riadattamento permanente di verità eterne che è il marchio di tutto il pensiero dell’uomo occidentale; esso sembra legato alla volontà stessa di superamento, d’impegno individuale di conquista dell’assoluto in un universo mentale in cui la Tradizione gioca un ruolo fondamentale.
Quanto alla Tradizione, sempre Giamblico ci dice che Pitagora parlava ai giovani “mostrando che nell’universo, come nella vita, nella città e nella natura in genere, ciò che viene prima in ordine di tempo è venerato più di quanto viene dopo”. [5]
Diogene Laerzio ascrive a Pitagora tre opere: sull’educazione, sulla politica, sulla natura. [6] Questi tre scritti, se sono esistiti e non c’è motivo di dubitarne, sono andati perduti. La tradizione ci conferma, se ancora ve ne fosse bisogno, che la dimensione politica era al centro dell’attenzione del nostro Pitagora. 

Pitagora e la Musica. Cattedrale di Chartres, Archivolto del portale di destra della facciata occidentale, 1145-55.


La frattura tra l’autorità regale, da cui discendono i diversi poteri dello Stato e le varie funzioni di governo, e le nuove forme partecipative che si affacciavano alla ribalta nella Grecia del V secolo a.C. (ivi inclusa, ovviamente, la Magna Grecia), doveva essere in cima alle preoccupazioni di Pitagora. Come ben sintetizza Cristoforo Andreoli: “Il confronto in assemblea e la ricerca di una mediazione fra opinioni non disciplinate da un fattore trascendente di unificazione, sono il segno della scomparsa di quest’ultimo dalla regola di vita della comunità. Il rilievo esclusivo assunto dalla componente partecipativa, oggi intesa alla stregua di sinonimo della politica, è perciò la condizione che inevitabilmente consente l’esercizio di poteri e funzioni regali a individui inadatti ad assolverli”. [7]
È indubbio che Pitagora, attraverso l’istituzione della sua rigorosissima Scuola, doveva essere profondamente convinto che la costituzione più perfetta di uno Stato corrisponderebbe invano alle mire del più saggio legislatore, qualora la custodia di essa non fosse affidata costantemente a uomini degni di eseguirla. Di qui la necessità di una iniziazione a una nuova regola di vita. La sua associazione era aperta anche alle donne, come dimostra il celebre esempio di Teanò (nonché le numerose altre menzionate da Giamblico), e agli stranieri. Come eterìa politica, il suo forte attaccamento alla disciplina e le sue stesse modalità di affiliazione la dovevano rendere ostile all’instabilità democratica. D’altra parte il suo successo in termini di reclutamento di un buon numero di cittadini delle poleis della Magna Grecia non poteva non modificarne l’orientamento politico. L’aristocrazia della sapienza e della cultura trovava nondimeno un ampio correttivo nel profondo sentimento umano della loro dottrina morale, tanto che c’è anche chi ha visto nei Pitagorici una concezione politica illuminista ante litteram. [8]
Nello ierós lógos la morale pitagorica può così riassumersi: rispettare gli dèi e assoggettarsi alla loro volontà, restare fermamente al posto da loro assegnatoci nella vita, prestare aiuto alla legalità contro i faziosi, serbare fedeltà agli amici e dirsi che tra amici tutto è comune (philótes isótes), essere moderato e semplice nell’uso dei beni, vergognarsi quando si è agito male, guardarsi dal giurare invano e fare onore al proprio giuramento, mantenere infine il segreto sugli insegnamenti ricevuti per effetto dell’iniziazione. Si tratta, com’è evidente, di norme dettate dalle esigenze di una concezione del mondo fortemente strutturata e gerarchica.
“Che cosa c’è di più saggio? il numero. Che cosa c’è di più bello? l’armonia”. In questi due articoli del catechismo degli acusmatici sono enunciate le due idee predominanti della scuola pitagorica. Quanto all’armonia, diceva il pitagorico Filolao, la cosa più bella è “l’unità del molteplice composto e la concordanza delle discordanze”. [9]
Le leggi dell’uomo non sono altro che un’immagine di quelle cosmiche. L’armonia dell’universo deve riflettersi e agire nel mondo fisico e nella collettività, e l’intera vita degli uomini deve essere regolata secondo gli stessi princìpi dell’armonia celeste. Non solo, tutti gli individui devono tendere al raggiungimento dell’armonia interiore esercitando il controllo sui propri istinti e risolvendo le pulsioni violente, in un perfetto equilibrio tra elementi pari e dispari. Affinché ognuno possa inserirsi armoniosamente nel flusso generale della vita, trovandovi il proprio posto, è necessaria una presa di consapevolezza dei princìpi che regolano l’universo, che può essere raggiunta soltanto con una corretta e faticosa educazione. Per i Pitagorici era inconcepibile vivere senza il riferimento a una autorità dominante. Proprio per questo essi insegnavano il rispetto verso gli dei, lo Stato e i genitori, la pietà verso i defunti, la lealtà verso gli amici (tra i quali “tutto e comune”), la giustizia, l’educazione, la riservatezza, la continenza e la temperanza verso ognuno indistintamente e il rispetto verso le altre specie viventi e condannavano ogni tipo di eccesso. [10]
In un tale sistema, dove l’universo è organizzato secondo dei princìpi di ordine e armonia, nessuna parte del corpo sociale poteva essere trascurata, poiché tutto e tutti dovevano partecipare alla realizzazione del perfetto kosmos.
La concezione rigorosamente monista, come, d’altra parte, ogni concezione monarchica e gerarchica tradizionale, è infatti fondata sulla concezione monistica esoterica dell’universo. Alla monade pitagorica o al principio unico platonico corrisponde politicamente l’unicità e l’unità dell’autorità somma di governo, ossia la monarchia, nel senso etimologico del termine. Si tratta, per inciso di una nozione iniziatica, attuata in Occidente da Cesare, tanto esaltato da Dante e il cui nome designava anche in altre lingue (Kaiser, Zar) l’imperatore, seguita e propugnata da tutte le associazioni e correnti iniziatiche dell’Occidente, e che era alla base anche delle concezioni sociali della sapienza orientale ed estremo orientale. Al concetto romano di imperium, si può infatti aggiungere, tra le più autorevoli manifestazioni, il concetto musulmano del Califfato, quello indù del Chakravarti (Re del Mondo) e quello imperiale cinese e giapponese.
Come sarà più chiaro ancora nel pensiero di Platone, lo Stato giusto è quello che attua la maggior unità possibile e, d’altra parte, questo risultato può essere ottenuto solo se il governo è nelle mani dei veri filosofi. Tra questi i Pitagorici che Platone definisce uomini che “partecipano ad un tempo, sia per natura sia per educazione, alla filosofia e alla vita politica”. [11]

Platone con i suoi discepoli nei giardini dell’Accademia. Emblema musivo, Museo Archeologico Nazionale di Napoli, 110-90 a.C.
 
La necessità di un’esigenza etico-pedagogica avvicinò i Pitagorici al modello rappresentato dallo stato spartano. Si deve ad A. Delatte [12] l’approfondimento dei rapporti tra scuola pitagorica e laconismo. L’“innegabile parentela” tra spartanismo e pitagorismo è stata lucidamente riesaminata da F. Ollier [13], che ha tuttavia escluso prestiti tra l’uno e l’altro osservando correttamente che Pitagora e i suoi discepoli si sono ispirati a un antico deposito comune della sapienza ellenica, che nei Dori e in particolare nell’arcaica Lacedemone, si era meglio preservata che altrove. Spartiati e Pitagorici hanno attinto alla medesima fonte, senza che si possa dire che i primi sono stati iniziati dai secondi. È dopo la distruzione delle scuole in Italia e il susseguente trasferimento dei Pitagorici in Grecia che nasce l’ammirazione per Sparta e sorgono profondi rapporti tra la scuola e la grande città dorica. È allora che nasce la leggenda riferita da Timeo [14] che faceva di Pitagora un ammiratore e un allievo di Sparta.
La conquista dei popoli per opera di Roma diverrà poi, più che per Alessandro e i Persiani, una missione, conferita dal fato, per organizzare con la pace romana il mondo, o meglio l’ecumene (le terre note e abitate) alla più grande unità.
Infatti non siamo venuti al mondo solo per noi, ma la nostra nascita in parte rivendica a sé la patria, in parte gli amici, cui certo non possono giovare coloro che ritirandosi in solitudine si son separati dagli uomini, come membra dall’unità del corpo.
L’armonia che governa la natura viene presa, dunque, come modello che deve regolare anche il mondo dei rapporti umani. Si tratta di un riflesso dello stato cosmico che l’uomo continua a portare nelle profondità del suo essere. Famoso è il concetto pitagorico di philia che si può illustrare con le parole di Giamblico: “Nel modo più perspicuo Pitagora insegnò l’amicizia di tutti con tutti: amicizia degli dei con gli uomini, tramite la pietà religiosa e un culto fondato sulla scienza; amicizia reciproca delle dottrine e, in generale, amicizia dell’anima col corpo e della ragione con le parti irrazionali di quella, tramite la filosofia e la contemplazione speculativa che le è propria; amicizia degli uomini fra loro: tra i cittadini tramite una sana osservanza delle leggi, tra i diveri gruppi etnici tramite la retta conoscenza della natura umana; amicizia dell’uomo con la donna, i figli, i fratelli e i parenti, tramite saldi vincoli di unione, e insomma amicizia di tutti con tutti e financo con alcuni animali irrazionali, tramite il sentimento della giustizia e della naturale vicinanza e solidarietà. Amicizia del corpo mortale con se stesso, pacificazione e conciliazione delle contrarie potenze in esso latenti tramite la temperanza secondo il modello del benessere che nell’universo si produce dal concorso degli elementi cosmici”. [15]
A quale punto della scala graduata tra animale, uomo e divino fosse giunto il Samio lo attesta questa frase di Aristotele: “c’è una specie di animale ragionevole che è il dio, una seconda che è l’uomo, mentre Pitagora è l’esempio della terza”. [16] Insomma, era uno di quegli uomini ispirati e demoniaci, che sono intermediari tra l’ordine divino e l’ordine umano.
Ma molto di quanto detto in precedenza, ovvero la necessità di ricondurre la molteplicità all’unità, è mirabilmente sintetizzato in un simbolo. In breve la chiave della dottrina pitagorica è la tetraktys, la formula grafica generale dell’unità nella molteplicità: l’uno evolve il molteplice e lo pervade. La tetratktys è un modo per esprimere questa idea. Se geometricamente i primi quattro numeri corrispondono a punto, linea, superficie e solido, cosmologicamente l’Uno è Dio, il Due la materia, l’indefinito, la limitazione dell’imperfetto, il Tre la combinazione della Monade e della Diade che partecipando alla natura di entrambe esprime il mondo fenomenico, la Tetrade, o forma della perfezione, esprime la vacuità del Tutto e la Decade, o somma del tutto, coinvolge l’intero cosmo. L’universo è la combinazione del molteplice e tuttavia l’espressione di un solo spirito: un caos per i sensi, un cosmo (cioè un ordine) per la ragione.
Allo stesso modo che nell’ambito dimensionale la tetraktys rappresenta l’Uno (il vivente stesso, come ci dice Aristotele), la lunghezza, la larghezza e la profondità, sul piano elementale l’Uno corrisponde al fuoco, il due all’aria, il tre all’acqua e il quattro alla terra, ossia il percorso che va dall’elemento più rarefatto a quello più denso. [17] In un altro approccio simbolico, quello dei numeri come idee stesse o princìpi: l’intelletto [noùs] è l’uno e la scienza [epistéme] il due (in un modo solo, infatti, essa va verso una cosa sola), l’opinione [doxa] il numero della superficie, la sensazione [aísthesis] quello del solido”. [18] 
Un’altra lista della tetraktys, oltre a quella di Teone di Smirne, si trova nella Teologia dell’aritmetica di Giamblico. [19]
La dottrina pitagorica ci pone di fronte a dei problemi che hanno al tempo stesso una portata storica, filosofica e massonica.
Tuttavia non occorre il Robert Langdon di Dan Brown per decifrare formule esoteriche e massoniche come concordia discors [20], e pluribus unum [21] o ordo ab chao [22]. Basta un Massone perspicace per scorgere in esse il loro fondo pitagorico e l’ingiunzione a “radunare ciò che è sparso” e a riportare all’uno il manifestato.
Occorre rifarsi e ripartire da uno studioso come Arturo Reghini (1878-1946), di cui mai mi stanco di esortare a conoscerlo e studiarlo. [23]
Si troverà in Reghini come il concetto di imperium implicasse la volontà di restaurazione di quei princìpi di “serena tolleranza” di tutti i culti, carattere imprescindibile della natura “romana” e, questa sì, “radice della cultura europea”, soffocati dall’affermazione delle fedi monoteistiche.
Reghini — pythagoricus latomusque insignis (pitagorico e massone insigne) come reca inciso la sua lapide nel cimitero di Budrio dov’è sepolto — con gli strumenti filologici del suo tempo, è riuscito fondatamente a dimostrare l’origine della Massoneria negli antichi Misteri pagani, nella schola italica di Pitagora e nei collegia fabrorum romani. [24]

Lapide del loculo di Arturo Reghini nel cimitero di Budrio (BO). È la stessa lastra già posta sulla tomba a terra a cura del Fratello Giulio Parise nel 1946.

Da lungo tempo, direi anzi fin dalle sue origini nel 1859, il Rito Simbolico Italiano ha scorto che la ricerca della conoscenza ha sempre coltivato non solo una caratteristica latomica, ma anche una caratteristica architettonica, se non addirittura urbanistica e pertanto civica e politica (data l’equazione tra polis, urbs e civitas). Plutarco ci tramanda, inoltre, il detto di Platone secondo cui “dio geometrizza sempre”, che rispecchia perfettamente l’attività costruttrice del Demiurgo, che cala i modelli intellegibili nella materia sensibile mediante le figure geometriche e i numeri, e corrisponde bene all’epigrafe che sarebbe stata scritta sul portone dell’Accademia: “Non entri chi non è geometra”.
Personalmente mi diverto ancora a scandalizzare i Fratelli della mia Loggia, quando si lavora in 3° grado, in genere per un passaggio, lanciando loro un metaforico guanto di sfida. Li invito a dimostrarmi, documenti e prove alla mano, che il 3° grado “azzurro” non sia un aggiunta settententesca. Non ci sono infatti prove che la leggenda di Hiram, così centrale nella Massoneria, sia antecedente al 1730. [25] In un certo qual modo sono ancora più drastico, oserei direi draconiano, del Fratello Arturo Reghini, le cui affermazioni sono da tenere in ancor più maggior conto nella considerazione che fu tra i fondatori della Rispettabile Loggia “Lucifero” di Rito Simbolico, all’Oriente di Firenze e all’obbedienza del GOI e fu nella sua vita alto dignitario, tra l’altro, e del Rito Scozzese - 33 di Piazza del Gesù - e del Rito di Memphis, il quale affermava:

“I rituali di questi alti gradi sono talora uno sviluppo della leggenda di Hiram, oppure si riattaccano ai Rosacroce, all’ermetismo, ai Templari, allo gnosticismo, ai catari..., vale a dire non hanno un vero e proprio carattere massonico, e dal punto di vista della iniziazione massonica sono assolutamente superflui. La massoneria sta tutta nei primi tre gradi, riconosciuti da tutti i riti, e posti alla base degli alti gradi e delle camere superiori dei varii riti. Il compagno libero muratore, una volta divenuto maestro ha simbolicamente terminato la sua grande opera; e gli alti gradi potrebbero avere una qualche funzione veramente massonica soltanto se contribuissero alla corretta interpretazione della tradizione muratoria ed a una più intelligente comprensione ed applicazione del rito ossia dell’arte regia.
Naturalmente questo non significa che si debbano abolire gli alti gradi perché i fratelli insigniti degli alti gradi sono liberi, e quelli di loro cui piace di riunirsi in riti e corpi per svolgere lavori non in contrasto con quelli massonici debbono avere la libertà di farlo. Però dal punto di vista strettamente massonico questa loro appartenenza ad altri riti ed a camere superiori non li pone in alcun modo al di sopra di quei maestri che non sentono il bisogno di altro lavoro che quello della universale massoneria dei primi tre gradi. Del resto è manifesto che riti distinti, come quello di Swedenborg, quelli scozzesi, quello della Stretta Osservanza, quello di Memphis... appunto perché differenti non sono più universali, oppure lo sono solo in quanto si basano sopra i primi tre gradi. Dimenticarlo o tentare di snaturare il carattere universale, libero e tollerante della Massoneria, per imporre ai fratelli delle Loggie particolari punti di vista ed obbiettivi, sarebbe mettersi contro lo spirito della tradizione muratoria e contro la lettera delle Costituzioni della Fratellanza.” [26]

La Massoneria celebra nell’uomo-costruttore la sintesi tra umano e divino. Il problema, per quel che riguarda un Ordine iniziatico, è capire se esso rappresenti solo uno sforzo verso la Conoscenza, associato ad un rigoroso abbandono dell’involucro egoico oppure se sia possibile sciogliere l’inconcludente nodo dei binomi segreto iniziatico/vita profana, speculativo/operativo, quello che nel pensiero classico tradizionale veniva chiamata vita contemplativa/vita attiva. Ora, non è qui il caso di sottolineare ancora una volta come la Scuola Italica di Pitagora mutò completamente il modo di intendere l’Uomo e il suo ruolo nella cosmo. È possibile in altri termini conciliare lo sforzo spirituale del proprio perfezionamento interiore con il pensiero e la preoccupazione della giustizia? E perché? La teoria deve necessariamente essere disgiunta dalla pratica?
Si tratta naturalmente di domande retoriche. Ma mi piace qui concludere con Platone che nella sua celebre Lettera VII, dopo i suoi sfortunati viaggi in Sicilia dove pensava di veder realizzato il suo modello politico aiutato solo dai Pitagorici, dichiarava di aver veduto che  “i mali non avrebbero mai lasciato l’umanità se prima non fosse giunta al potere una generazione di veri filosofi, o i reggitori di stato non si fossero, per qualche intervento divino, votati alla filosofia.” [27]


Moreno Neri


[1] Porfirio, Vita di Pitagora, 21.
[2] Mario Vegetti (Filosofia e sapere della città antica, in Filosofi e società, Zanichelli, Bologna, 1975, I) parla tra i presocratici di “filosofi dell’agorà” e “filosofi dell’acropoli” — Eraclito Parmenide e il nostro Pitagora —, questi ultimi depositari di un pensiero sacro che appartiene indiscutibilmente alla zona del Tempio e che non può necessariamente appartenere alla maggioranza profana della piazza.
[3] Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei piu celebri filosofi, VIII, 8; ma si veda anche Cicerone, Tuscolane, V, 3, 8; Filone di Alessandria, De specialibus legibus, II, 44-45; Plutarco, De tranquillitate animi (Sulla serenità dell’anima), 20; la definizione è anche ripresa da Giamblico, Vita di Pitagora, 58.
[4] Giamblico, Vita di Pitagora, 59.
[5] Giamblico, Vita di Pitagora, 37.
[6] Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei piu celebri filosofi, VII, 6.
[7] Cristoforo Andreoli, La «politica totale» di Pitagora, Edizioni di Ar, Padova, 2003, p. 64.
[8] Maria Timpanaro Cardini, Pitagorici: testimonianze e frammenti, La nuova Italia, Firenze, 1969, II, p. 85.
[9] Filolao, fr. 10.
[10] Cfr. Giamblico, Vita di Pitagora, 32
[11] Platone, Timeo, 19 E-20 A.
[12] Armand Delatte, Essai sur la politique pythagoricienne, Vaillant-Carmanne - E. Champion, Liège - Paris, 1922; rist. anast. Slatkine, Genève, 1979.
[13] François Ollier, Le mirage spartiate. Étude sur l’idéalisation de Sparte dans l’antiquité grecque de l’origine jusqu’aux cyniques, Impr. de la Haute-Loire - E. de Boccard, Le Puy-en-Velay - Paris, 1933, I, pp. 198-205.
[14] Timeo, Sulla natura del cosmo e dell’anima, XX, 4; Giamblico, Vita di Pitagora, 25.
[15] Giamblico, Vita di Pitagora, 69.
[16] Aristotele, fr. 187.
[17] Teone di Smirne, Matematica utile per comprendere Platone. Nel testo di questo matematico pitagorico, vissuto intorno al 70-135 d.C., si enumerano ben undici analogie della tetraktys (quali, ad es., il quaternario delle stagioni, le quattro età della vita, le quattro parti del corpo): vedi Theonis Smyrnaei philosophi platonici expositio rerum mathematicarum ad legendum Platonem utilium / recensuit Eduardus Hiller, in aedibus B. G. Teubneri, Stutgardiae - Lipsiae, 1995, pp. 97-98.
[18] Aristotele, Anima, A 2, 404 b 18-27. Si veda anche un testo, risalente al I sec. a.C., i Placita Philosophorum di Aezio, I, 3, 8, dove di questa tetraktys delle funzioni cognitive si forniscono altre testimonianze e spiegazioni. Ad esempio che l’intelletto è monade, perché è proprio secondo l’unità che scatta la nostra comprensione: così gli uomini, che sono una molteplicità non possono essere compresi né concepiti, essendo individui e di numero infinito, per contro concepiamo l’uomo in sé come unità e nessuno gli assomiglia.
[19] L’oggetto di questo lavoro è necessariamente limitato e il tema della tetraktys offre aspetti così complessi e singolari che in queste pagine non si può esaminarla che incidentalmente. È comunque mio auspicio e intenzione porla formalmente in un successivo contributo. Su questo fondamentale soggetto d’elezione per l’esercizio dell’immaginazione analogica,  si rinvia intanto a Paul Kucharsky, Ètude sur la doctrine pythagoricienne de la tétrade, Les Belles Lettres, Paris, 1952.
[20] Questa nozione romana, che si ritrova in Orazio, Ovidio e Lucano, è di derivazione pitagorica. È la legge universale dell’“equilibrio interno” (enanthiosis) che governa armonicamente il vivente, dove vi è la necessità che non prevalga una delle coppie di contrari che provoca il perturbamento. “L’armonia … sorge sempre dagli opposti, poiché è l’unificazione del diverso e la riconciliazione del contrario” (Nicomaco di Gerasa, Introduzione all’aritmetica, II, 19, 1).
[21] Cfr. Cicerone, De Officis, I, 17, 56: Pythagoras vult in amicitia, ut unus fiat ex pluribus (vuole Pitagora nell’amicizia che da molti se ne faccia uno). Vi è nella formula l’immagine della catena di unione e dell’eggregore che fa di più cuori un sol cuore.
[22] Anche se l’origine di questo motto della massoneria scozzese è ignota e il suo concetto fu caro all’illuminismo (pur essendo probabilmente di provenienza alchemica), furono i Pitagorici a chiamare per primi l’universo kosmos, che in greco significa ordine. Nel motto è evidente la struttura diadica del vivente tra cielo e terra, luce e oscurità.
[23] Un’eccellente introduzione alla sua figura è il quaderno monografico, edito nel 2006 in occasione del 60° anniversario della sua morte, Arturo Reghini. La Sapienza pagana e pitagorica del ’900, La Cittadella, A. VI/VII, n.s., n° triplo 23-24-25, MMDCCLIX a.U.c., luglio-dicembre 2006 – gennaio-marzo 2007 e.v. Ci sia inoltre consentito di rinviare a Arturo Reghini / Per la restituzione della massoneria pitagorica italiana / Arturo Reghini; scritti scelti e ordinati da Moreno Neri; introduzione di Vinicio Serino, Raffaelli Editore, Rimini, 2005. Tra i numerosi scritti massonici di Reghini sono fondamentali: Le parole sacre e di passo dei primi tre gradi e il massimo mistero massonico: studio critico ed iniziatico, presso la casa editrice Atanor, Todi, 1922; Considerazioni sul rituale dell’apprendista libero muratore; con una nota sulla vita e l’attivita massonica dell’autore di Giulio Parise, Edizioni di studii iniziatici, Napoli, [1946]; I numeri sacri nella tradizione pitagorica massonica, Ignis, Roma, 1947.
[24] Di qui il nome di “Collegi” delle logge del Rito Simbolico Italiano, ispirate al nome delle corporazioni muratorie romane. Collegio deriva etimologicamente da collìgere, “raccogliere insieme”, composto di cum, “insieme”, e lègere, “raccogliere, scegliere”, dunque il collegium è una congregazione di scelte persone che esercitano la stessa arte.
[25] La leggenda hiramica è attestata per la prima volta in Samuel Pritchard, Masonry Dissected: being A Universal and Genuine Description of All its Branches, from the Original to this Present Time. As it deliver’d in the Constituted Regular Lodges …, J. Wilford, London, 1730. Un’altra delle versioni più antiche di questo racconto appare ne L’Ordre des Francs-Maçons Trahi, et leur Secret Révélé, A Amsterdam, 1745.
[26] Arturo Reghini, I numeri sacri nella tradizione pitagorica massonica, Atanor, Roma, 1994, pp. 16-17 (prima ed. Edizioni di Studi Iniziatici, Napoli, 1946).
[27] Platone, Lettera VII, 326 A-B.


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