lunedì 14 marzo 2011

Le raffigurazioni del Tempio Malatestiano di Charles Mitchell



Charles Mitchell / Le raffigurazioni del Tempio Malatestiano (a cura di Moreno Neri), Raffaelli Editore, Rimini, 2000.

“Le raffigurazioni del Tempio Malatestiano” di Charles Mitchell è stato il mio primo libro curato e tradotto per l’editore Raffaelli. Uscito nel mese di dicembre del 2000 in 200 esemplari numerati oggi è, purtroppo, esaurito.
È anche il mio primo libro, di una non breve sequenza, ad essere dedicato a un preponderante impegno di restituzione della memoria dell’interpretazione simbolica del Tempio Malatestiano di Rimini.


La copertina del libro


Ritaglio stampa de La Voce di Rimini, sabato 27 gennaio 2001, p. 37

Un giorno, poi, racconterò come e quando, perché e da chi e da che cosa è nata questa mia predilezione a far riemergere, come oggetto di studio e di ricerca, le tracce, nella memoria e nella scrittura — in un campo di indagine che si apre alle vibrazioni e alle risonanze culturali tra Rinascimento, Antico e Contemporaneo —, delle interpretazioni sul significato del Tempio Malatestiano. E come, contemporaneamente a questo interesse, si incarnasse in me lo sforzo di conoscere sempre di più “il principe dei filosofi del suo tempo”, quel Gemisto Pletone, il cui nome fu per me sottratto, senza schiamazzo, dall’oblio, un lontano 27 ottobre 1998, quando una delegazione di ventisette greci giunse, anche a mio beneficio, a elevare per un lungo istante alla terza arca del tempio uno stefano di alloro, palme, mirto e rose.
Charles Mitchell (nato a Londra il 25 gennaio 1912 e morto ad Oxford il 23 Ottobre 1995) è stato uno storico dell’arte, membro per molti anni  (1945-1960) del famoso Institute e in seguito docente universitario in diversi college inglesi e professore al Centre for Advanced Studies in the Visual Arts, della National Gallery of Art di Washington (1984-1985). Charles Mitchell sarà sempre ricordato per il suo contributo allo studio della rinascita degli studi classici del Rinascimento in Italia. Oltre ai due saggi sul Tempio Malatestiano, riprodotti nel prezioso ospuscolo da me curato, ha scritto numerosi articoli, di cui qui ricordiamo quelli su Giotto e Assisi e sul più famoso romanzo allegorico del Rinascimento, l’Hypnerotomachia Poliphili (1499) e, tra i suoi libri, occorre menzionare quello scritto con Edward Bodner, Cyriacus of Ancona’s Journeys in the Propontis and the Northern Aegean, 1444-45 (1976), citato nella nostra bibliografia nell’articolo, presente sul nostro blog, dal titolo “Ciriaco d’Ancona: un viaggiatore tra antiquaria e tradizione”.
Che l’iconografia del Tempio celi significati arcani noti solo alla cerchia della corte malatestiana era stato rivelato da Roberto Valturio, amico e consigliere di Sigismondo Pandolfo Malatesta, che in un famoso passo del De Re Militari (XII,13) aveva alluso a “simboli tratti dai più occulti penetrali della filosofia e altrettanto atti ad attrarre fortemente i dotti quanto a permanere nascosti al volgo”.
Un’interpretazione della struttura mitico-simbolica, racchiusa nel monumento concepito dal Malatesta, ci è stata offerta, verso gli anni 50 del secolo scorso, da Charles Mitchell.
Contraria a questa interpretazione vi è quella che non ammette le intenzioni ed i significati nascosti nel Tempio e nega che l’interpretazione degli aspetti decorativi porti ad una conoscenza superiore. Questa corrente si ispira alla concezione estetica di Croce che, contrario a Warburg (fondatore di quello che unanimente ritenuto il maggior istituto di studi rinascimentali), affermava che “decorazione vale semplicemente arte”, il cercare in essa intenzioni e significati nascosti è inutile; l’allegoria dei simboli “non conferma niente,...non si devono dividere i critici in contemporanei o posteriori, ma unicamente intendenti o no di arte, sensibili o no al bello”. Ma, ciononostante, sulla scia di Mitchell (e prima di Aby Warburg) e sugli interrogativi dell’interpretazione pagana del tempio si sono soffermati numerosi studiosi: Frances Amelia Yates ed Edgar Wind, entrambi del Warburg Institute, inoltre i nostri Eugenio Garin ed Elemire Zolla. Tutte vittime, “nate in Platonia”, di una sconsiderata o voluta dimenticanza. Quel che è certo è che, dopo questi studiosi, si è potuto ricominciare a parlare del Tempio in un’ottica differente da quella alla quale si è abituati in questi ultimi decenni ed è iniziato a farsi strada, in quanti sono ancora dotati di coraggiosa intelligenza e di perspicacia, il bisogno di altri modi di conoscenza e di altri sistemi di interpretazione da quelli consueti nei quali si riscontrano molte banalità e molti luoghi comuni interpretativi, se non addirittura volute cancellazioni, travisamenti e mascheramenti (valga per tutti la trasformazione dei numerosi demoni platonici in cristiani angeli e angioletti).
Proprio non molto tempo prima della mia “ripresa” di Mitchell, il 13 settembre 1998, un servizio giornalistico nel “domenicale” de Il Sole 24 ORE, dedicato al Tempio, faceva arrivare l’autore, Marco Bona Castellotti, a concludere  che “prende consistenza la concezione del Tempio Malatestiano, platonizzante e ermetica, intessuta di esoterismo e non estranea a influenze orientali”. Il che era un vero squarcio di luce nell’oscurata mentalità moderna.
Se vi fossero scienza e tempo bastevoli, sol prendendo partito dalle poche pagine di Charles Mitchell, se ne potrebbero tuttora ricavare proposizioni e deduzioni ancora insospettate.
Insomma, Walter Raffaelli farebbe ottima cosa a ristampare questa inestimabile plaquette. Proceda a una seconda ristampa e a una nuova doverosa restitutio memoriae di Mitchell a fronte della anoressica ricezione italiana, e principalmente riminese, di questi due studi warburghiani! Se così non sarà, potrei rimediare scansendo l’unica copia che mi rimane e pubblicandola qui, on-line.
Il libretto, di una novantina di pagine e con illustrazioni in bianco e nero, contiene due saggi di Mitchell sul Tempio Malatestiano. Il primo è la mia traduzione della versione in inglese pubblicata con il titolo “The Imagery of the Tempio Malatestiano” in Studi Romagnoli II, Fratelli Lega, Faenza 1951, pp.77-90 ed è un saggio che lo studioso del Warburg Institute compilò dietro invito dello studioso santarcangiolese Augusto Campana (1906-1995). Il secondo saggio è la ristampa di “Il Tempio Malatestiano”, in Studi Malatastiani, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Studi Storici - Fasc. 110-111, Roma, 1978, pp. 71-103. Quest’ultimo è il testo della conferenza, tenutasi nella Sala dell’Arengo a Rimini, il 6 dicembre 1968. Tra parentesi, la conferenza fu organizzata da Mario Zuffa, allora direttore della Biblioteca Gambalunga e del Museo, che è stato il padre di quello che è ancora uno dei miei amici più cari e di più lunga data, Marcello Zuffa.
Il tentativo di interpretazione di Mitchell è di assoluta importanza. Condotta sulle linee dell’insegnamento ermetico (in senso molto lato), è basata su alcuni testi di Macrobio, erudito neoplatonico del IV secolo d.C. Tra le fonti letterarie, ispiratrici dell’apparato del Tempio, Mitchell ritiene che esse vadano rinvenute, oltre che nelle opere del citato Macrobio, anche in quelle di Platone, Porfirio, Giamblico e Gemisto Pletone. Le varie parti, ispirate al tema solare, avrebbero dovuto vedere, a conclusione dell’edificio, al centro della grande rotonda cupolata, un occhio aperto al sommo della volta.
Dunque nel 1951/52 Mitchell scopre alcuni fatti importanti e cioè che molte delle sculture presenti nel monumento riminese sono direttamente ispirate a due testi di Macrobio un erudito romano del IV secolo d. C. – in epoca in cui si assiste al trionfo del cristianesimo e al declino del paganesimo. Le opere Il Commento al Sogno di Scipione e i Saturnali sono un compendio di tutte le dottrine pitagoriche e platoniche, comprese quelle metafisiche, le più esoteriche. A sua volta, il Tempio Malatestiano, secondo il severo studioso dell’Istituto Warburg, sarebbe un compendio marmoreo delle dottrine neoplatoniche ed ermetiche, una traduzione in pietra dei testi di Ermete Trismegisto, Giamblico e Macrobio, un trattato criptico di teologia solare. Ogni statua, bassorilievo, motivo decorativo nasconderebbe un significato segreto, noto solo agli “iniziati” della corte malatestiana.
Questa interpretazione non ortodossa del Tempio Malatestiano è quella che ha ricevuto il maggiore apprezzamento da parte della comunità scientifica internazionale.
In un altro importante libro, da me in seguito tradotto, Maria Grazia Pernis & Laurie Schneider Adams / L’aquila e l’elefante: Federico da Montefeltro e Sigismondo Malatesta; traduzione di Moreno Neri, Raffaelli Editore, Rimini 2005 [tit. orig. Federico da Montefeltro & Sigismondo Malatesta. The Eagle and the Elephant, Peter Lang, New York - Wahington, D.C - Baltimore - Bern - Frankfurt am Main - Berlin - Vienna - Paris, 2003 (Studies in Italian Culture. Literature in History 20)], troviamo scritto, a proposito del primo saggio di Mitchell, “The Imagery of the Tempio Malatestiano”, che “in questo lavoro, l’analisi di Mitchell dell’iconografia del tempio è veramente convincente. Al contrario, la sua interpretazione del medesimo monumento che propose più di vent’anni dopo, non lo è […]. La nuova interpretazione di Mitchell, infatti, proietta un’immagine «cristiana» della personalità di Sigismondo che contrasta con l’atteggiamento «pagano» descritto dalla maggior parte dei suoi contemporanei” (nella traduzione p. 142 n. 22; nell’originale p. 151 n. 22).
Per capire cos’è successo, leggiamo le prime righe del saggio “Il Tempio Malatestiano” di Mitchell:

Più di venti anni sono trascorsi da quando l’amico Augusto Campana mi invitò a contribuire, con un lavoro sul programma iconografico del Tempio Malatestiano, alla serie di studi malatestiani che fu pubblicata nel secondo volume di «Studi Romagnoli». In quell’articolo avanzai il suggerimento che vi fossero due fili conduttori nella trama del programma scultorio della chiesa: primo, un tema gentilizio scipionico (poiché Sigismondo Malatesta pretendeva di discendere dagli Scipioni) basato sul Somnium Scipionis di Cicerone e sul relativo commentario di Macrobio; e, secondo, un tema di teologia solare parzialmente attinto dal primo libro macrobiano dei Saturnalia. Argomentai quindi, in modo troppo azzardato, che il Tempio fosse una specie di tempio solare pagano, e Sigismondo una specie di roi soleil rinascimentale; ed all’inizio del saggio espressi la speranza che «entro non molto» potessi avere l’opportunità di svolgere queste proposte in una pubblicazione più solida e più ampia. Ebbene, venti anni sono molti per l’adempimento di una promessa, e certamente non merito la carità di Campana e dei miei colleghi riminesi che non mi hanno ancora dato per perduto del tutto. Né so, a fortiori, come ringraziarvi a dovere, dal profondo del cuore, per la vostra ospitalità e gentilezza nell’invitarmi nuovamente a Rimini e nell’assegnarmi l’onore, da me immeritato, di discutere il più nobile monumento che Sigismondo Malatesta abbia lasciato a questa illustre ed antica città.
In un certo senso, tuttavia, la mia lentezza è stata salutare, in quanto, nonostante le troppe interruzioni, non ho lasciato cadere i problemi sollevati dal mio saggio del 1951, e queste ulteriori ricerche mi hanno convinto che, sebbene i fili conduttori dell’argomento scipionico e di quello solare rimangano intatti, le conclusioni che ne trassi nell’intrecciarli erano tutte false. Definendo il Tempio un tempio pagano e descrivendo Sigismondo come una specie di dio solare feci certamente cattiva teologia pagana, cattiva teologia cristiana e cattiva archeologia rinascimentale; e sono lieto di confessare i miei peccati di fronte a un pubblico così indulgente. In effetti ho completato la stesura di un volumetto sul Tempio, un lavoro scritto un po’ come un libro giallo, che raccoglie ad uno ad uno gli indizi sparsi qua e là e mantiene la soluzione in sospeso fino alla fine. Oggi, invece, mi propongo di rovesciare il procedimento, per narrare la storia del Tempio, come la vorrei ricostruire io, nell’ordine in cui l’opera fu progettata ed eseguita.”

Dopodiché Mitchell, nelle numerose seguenti pagine, ribadisce e approfondisce l’interpretazione macrobiana-scipionica e il tema solare in maniera ancor più persuasiva del primo saggio, semmai ve ne fosse stato bisogno.
Ma a un certo punto ipotizza che all’interno del Tempio, oltre alle cappelle presenti (tre sulla destra e tre sulla sinistra), avrebbe dovuto esserci nella navata una terza sezione ineseguita, che avrebbe dovuto trattare della “salvezza cristiana” e Mitchell concludeva che

il Tempio Malatestiano è una visione imperfetta della verità a cui tendeva il neo-platonismo italiano del Quattrocento. Dopo pochi anni che l’Alberti aveva concepito nuovamente il Tempio, Marsilio Ficino ed altri sognarono una riconciliazione fra la prisca theologia del paganesimo antico e la rivelazione di Cristo. Ispiratore dell’accademia platonica fiorentina fu il venerabile filosofo neopagano bizantino Giorgio Gemisto Pletone, il cui corpo, asportato da Mistrà da Sigismondo Malatesta, l’ultimo principe cristiano che combatté contro i Turchi sul territorio bizantino, fu collocato nella terza arcata meridionale del Tempio nel 1465; e fu dallo stesso Pletone, probabilmente, che l’Alberti e i suoi collaboratori derivarono, direttamente o indirettamente, certi testi greci su cui alcune immagini esoteriche del Tempio sembrano basarsi.
L’Alberti riuscì, idealmente se non come esecuzione compiuta, ad effettuare una riconciliazione visibile fra la teologia pagana e la teologia cristiana per mezzo della «similitudine del sole», «il figlio (secondo Platone) del Bene». La più drammatica perdita nel Tempio attuale, però, è la serie d’immagini, progettata per l’ultima cappella di destra, che avrebbe raffigurato la Passione di Cristo. Ivi, più che in ogni altro luogo del Tempio, avremmo visto chiaramente come l’Alberti e Sigismondo intendessero congiungere la dottrina solare dell’antichità pagana e la vera fede del cristianesimo. Ma abbiamo almeno un indizio di ciò che avremmo potuto vedere e ammirare se il Tempio fosse stato completato. Mi riferisco ad un rilievo di Agostino di Duccio conservato nel Victoria and Albert Museum di Londra, che fu scolpito, probabilmente, per essere collocato in qualche luogo del Tempio. Esso raffigura la Vergine e il Bambino circondati da angeli coronati da rose malatestiane. Uno di essi offre al Bimbo una corona da vincitore, mentre con l’altra mano sfiora un vaso contenente palme apollinee i cui manici sono formati da serpenti apollinei; e il Bambino intorno al collo porta, come un amuleto, un medaglione di Helios che guida la sua quadriga per il cielo.
Così la lux mundi, predetta dai Profeti e dalle Sibille (ora raffigurati nella cappella dei Martiri), fu oscuramente percepita dagli antichi nella dottrina solare degli Egizi, degli Assiri e dei Pitagorici (come la vediamo tuttora nelle cappelle degli Angeli, di San Gerolamo e delle Muse) finché, nell’età della Grazia, essa sfolgorò a pieno raggio dal seno di Cristo - il sol salutis.

The Great Malatestian Temple Swindle

Ora quando si parla di storia (intendo la storia “seria”, non le panzane che ci propinano numerosi blog) occorre esibire delle prove certe. E questo vale, va da sé, anche per la storia dell’arte. Dopo, capita anche che lo storico avanzi delle ipotesi. E anche in questo caso occorrono delle prove al di là di ogni ragionevole dubbio o quantomeno degli “indizi”, cioè qualche elemento o circostanza certa, atta a sostenere l’ipotesi e la ricostruzione. Ebbene, l’“indizio” di Mitchell a sostegno della sua ipotesi, proposta nel suo secondo saggio, “di ciò che avremmo potuto vedere e ammirare se il Tempio fosse stato completato”, ossia l’ipotetica terza sezione si basa su un bassorilievo di Agostino di Duccio conservato nel Victoria and Albert Museum di Londra (attualmente collocato nella Medieval and Renaissance Gallery, room 64a, case 7), probabilmente scolpito, per essere collocato in qualche luogo del Tempio.
Devo dire che anch’io per alcuni anni presi per buono, o comunque da valutare con rispetto, questo dato costituente un’indicazione della tesi del secondo saggio di Mitchell. E, tuttavia, continuavo a pensarla allo stesso modo delle due summenzionate studiose americane Maria Grazia Pernis e Laurie Schneider Adams. Non è che nel Tempio Malatestiano manchino, pur nella loro penuria, immagini che si rifanno alla tradizione cristiana e biblica, anche se è vero che sono assenti Madonne e Cristi, i principali soggetti della “teologia cristiana”. Mitchell riempiva un vuoto, esibendo un documento sensato che dava la possibilità di provare la sua tesi.


Agostino di Duccio, Rilievo scolpito in pietra. Londra, Victoria and Albert Museum
(Fig. 41, riprodotta nella mia ed. dei saggi di C. Mitchell., p. 42)

Nella figura riprodotta nel saggio di Mitchell s’intravvedono infatti delle rose. Se andiamo sul sito del Victoria and Albert Museum e ricerchiamo il medesimo bassorilievo di Agostino di Duccio, troviamo un immagine migliore, che riproduciamo qui sotto.
La scheda della pagina del V&A Museum dedicata a questo bassorilievo reca di nuovo l’affermazione “The stylised rose on the foreheads of the angels is a Malatesta emblem which also appears at Rimini”. E ancora: “The style of the relief is closely related to sculptures in the Tempio Malatestiano at Rimini, where Agostino di Duccio was responsible for much of the sculptural decoration from 1449 until 1457” e si ripete: “The relief relates stylistically to Agostino’s other work, but most particularly to the Tempio Malatestiano”. Tra i tanti riferimenti bibliografici troviamo Mitchell e il suo saggio sul Tempio Malatestiano.


Agostino di Duccio, Virgin and Child with five angels:


Tutto bene? Sembrerebbe di sì. Mitchell ci appare essersi attenuto a un documento attendibile, e dietro di lui il compilatore della scheda del Victoria and Albert Museum.
Purtroppo per Mitchell (e anche per l’anonimo estensore della scheda del V&A Museum), neanche un paio d’anni dopo la mie edizione mitchelliana, mentre ero impegnato nella traduzione di un altro bel libro sul Tempio Malatestiano, Stones of Rimini di Adrian Stokes (Faber & Faber, London, 1934; a suo tempo ne parleremo e, credo, a lungo), mi imbattei in una fotografia dello stesso soggetto riprodotta in questo testo e molto più dettagliata delle due precedenti. Nonostante si tratti di una vecchia foto, capita spesso che foto degli anni ’20 e ’30 del Tempio mostrino maggiori dettagli di quelle più recenti e anche contemporanee (si confrontino, ad esempio, le vecchie foto Alinari del Tempio con quelle attuali).
Eccola qui sotto (con un doppio clic, potete ingrandirla - come del resto quasi tutte le immagini di questo blog, che per lo più, se di mia produzione, sono di buona risoluzione).


London, Victoria and Albert Museum: Agostino di Duccio - Madonna e Bambino con angeli
(Adrian Stokes, Stones of Rimini, traduzione di Moreno Neri, Raffaelli Editore, Rimini, p. 116 Tav. 8.).

Qui, diversamente dalle precedenti immagini, le presunte “rose malatestiane” si possono osservare bene. La caratteristica della onnipresente rosa malatestiana (che con l’Elefante era una delle armi dei Malatesta) è di essere quadriloba o quadripetala (anche se è chiaramente ispirata dalla rosa eglantina o rosa eglanteria, nome scientifico della rosa canina, l’antenata delle nostre rose, che tuttavia in natura si presenta con cinque petali). Scrivo onnipresente perché le rose con stemmi malatestiani alternate alle lettere intrecciate $ inghirlandano il Tempio con un alto stilobate e le ritroveremo tutte frequentemente ripetute nei fregi interni. [Per un primo approccio alla rosa malatestiana, si rinvia a Ennio Lazzarini, La Rosa a Rimini. Ipotesi di studio, Società Editrice “Il Ponte Vecchio”, Cesena, 1995 (VICUS. Testi e documenti di storia locale 9)].


Rosa malatestiana


Rosa eglantina

Se si guardano i fiori del bassorilievo del V&A Museum, come riprodotto nel libro di Stokes, ci si accorge facilmente che sono stati erroneamente scambiati per la tipica rosa malatestiana: io ne ho individuati uno a otto petali e due a cinque. Dunque il bassorilievo attribuito ad Agostino di Duccio conservato a Londra non reca nemmeno una delle inconfondibili rose malatestiane e bisogna ricordare che il linguaggio araldico, così come quello simbolico, richiede un assoluto controllo e precisione.
Cade così, un po’ con ignominia, il paralogismo indiziario di Mitchell: se c’è questo bassorilievo di Agostino di Duccio con le rose malatestiane, esso sarebbe stato collocato nel Tempio Malatestiano nella terza sezione dedicata alla salvezza di Cristo.
Cosa pensare di questa manipolazione dell’immagine da parte di Mitchell? Una beffa, una “grande truffa”? Perché questo détournement? Rispetto al primo saggio, un ribaltone che mascherava la ricomposizione con la cultura cristiana dominante nel ‘68 (come al tempo di Sigismondo, ma lui se infischiava). Si era presentata a Mitchell la necessità di mantenere asservita l’interpretazione del Tempio riminese a quel sistema di potere e di valori cristianeggiante?
Oppure era l’ultima beffa, ma così sottile da rasentare quelle inventate dai situazionisti e che sarebbero state riprese dai punk? Ma Mitchell non era uno dei Sex Pistols (che erano di là a venire), anche se era inglese come Malcolm McLaren.
Un inconsapevole magliaro? (sul Tempio Malatestiano vi sono coscientissimi e coscienziosissimi magliari ben lubrificati da sostanziosi contributi).
Forse alla fine solo un marchiano errore, dovuto a quella pigrizia che ogni tanto coglie anche lo storico più serio: non siamo tutti perfetti, nessuno storico lo è (me compreso).
Ci tocca però concludere che Charles Mitchell — riposi comunque in pace, perché in ogni caso è stato un grande studioso — col suo secondo saggio, nella parte in cui prospetta che se il Tempio fosse stato terminato sarebbe divenuto un tempio cristiano, ha fatto certamente “cattiva teologia pagana, cattiva teologia cristiana e cattiva archeologia rinascimentale”.

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