Caterina
Ricciardi
Adrian Stokes e Ezra Pound
nel Tempio Malatestiano di Rimini
1.
I precursori
Ezra
Pound scopre il Tempio Malatestiano intorno al 15 maggio del 1922. Adrian
Stokes il 5 luglio del 1925. I due si incontreranno solo nel 1926 sui campi da
tennis di Rapallo, quando Stokes ha già al suo attivo un libro, Sunrise in
the West: A Modern Interpretation of Past and Present (1926), con sulla copertina la riproduzione di un
bassorilievo del Tempio, un dettaglio che Pound avrebbe osservato “con
stupore”: un interesse nel Tempio a quell’epoca suonava solo “peculiare” (Read
71). I suoi “Canti Malatestiani”, apparsi per la prima volta nel 1923 su The
Criterion di T. S. Eliot, sono
pubblicati in volume, con le straordinarie decorazioni di Henry Strater, in A
Draft of XVI Cantos proprio nel 1925.
Una copia viene depositata trionfalmente nella Biblioteca Malatestiana di
Cesena il 26 maggio del 1925 (Cesari 55). Eppure, a Donald Davie nel 1956
Stokes ammetterà di non aver “letto” allora alcuna delle opere del poeta (Read
72), una tarda affermazione forse inesatta. In ogni modo, dall’esperienza del
Tempio di Rimini, oltre che dall’incontro con Pound, maturano due importanti
contributi alla storia dell’arte rinascimentale: The Quattro Cento. A Different
Conception of Italian Renaissance (1932) e Stones of Rimini (1934). Grazie a Pound, Stones of Rimini viene anticipata in alcune parti sul Criterion nel 1929 (“The Sculptor Agostino di Duccio”) e nel
1933 (“from The Tempio”), quest’ultimo estratto esattamente dieci anni dopo i
“Canti Malatestiani”.
Stokes
era arrivato in Italia nel 1922. All’inizio l’esperienza di Rapallo, in modo
particolare, è per lui
--giovanissimo (aveva diciannove anni)-- illuminante. In seguito, in Inside
Out (1947), egli ricorderà come nella
luce mediterranea ci fosse un “rivelarsi delle cose” (“a revealing of things”),
dello “spazio” soprattutto “al di là di ogni esperienza precedente” (IF 309-310) e “revealing” è, nel suo rapporto con il
marmo, parola importante. Nel paesaggio mediterraneo, aggiunge, “il processo
dell’esistenza umana è fuori e dà forma, contorno preciso, alle poche cose che
giacciono nel profondo” (IF 310).
Un concetto che aveva espresso già in The Quattro Cento: al Sud “la vita è fuori, sparsa nello spazio”, un
effetto che si manifesta con immediatezza “senza ritmo, come il volto aperto di
una rosa” (QC 7).
Non
v’è dubbio che la Rapallo in quegli anni conservava una sua speciale magica
esistenza se W. B. Yeats nel 1928 la paragonava al villaggio della scena
imperturbata e imperturbabile dell’Ode su un’urna greca di Keats: “Rapallo, sottile linea di infranta
madreperla lungo l’orlo dell’acqua. La cittadina descritta nell’Ode on a
Grecian Urn” (Yeats 71). Prima di una
definitiva rottura, Pound e Stokes si incontreranno ancora in quegli anni, a
Rapallo e a Venezia: nel 1927, 1928, 1929 e ancora nel 1935 e nel 1938.
Complesse quali possano essere state le ragioni del distacco, nel 1934 Stokes
ammetterà a Pound il suo debito: “Ora mi riconosco al meglio come tuo
discepolo, ovvero senza te e i tuoi cantos non avrei potuto scrivere come
scrivo ora e non avrei potuto giungere così vicino al Tempio e a Sigismondo.
L’influsso dei cantos è stato piuttosto inconsapevole poiché, rileggendo il
Pisanello, ora mi rendo conto per la prima volta quanto ho echeggiato i cantos
qui e là. Devono essermi penetrati nel profondo perché non l’avrei mai fatto in
modo consapevole” (Read 78).
Questi
due amanti (e, a quanto pare a un certo punto, anche rivali nell’apprezzamento)
del Tempio avevano avuto pochi predecessori, ma altrettanto illustri, cui si
devono fra fine Ottocento e i primi del Novecento preziose e rare
testimonianze: J. A. Symonds nel 1874, Jacob Burckhardt nel 1878 (ma La
civiltà del Rinascimento in Italia è
del 1860), Charles Yriarte nel 1882, Arthur Symons (autore di una bella poesia
su Isotta e le sue rose) nel 1903, Hamilton Jackson nel 1903-1906, Edward Hutton nel 1906; e quindi gli
italiani: Corrado Ricci a partire dal 1907 e Antonio Beltramelli con il suo Tempio
d’amore del 1912, anno del restauro
del Tempio ad opera del Ricci. Infine, Aldous Huxley arriverà a Rimini nel
1925, lo stesso anno di Stokes. Ci sono anche illustri assenti all’appello,
forse dovuti alle omissioni del Vasari, colpevole di aver trascurato di
trasmettere nella sua descrizione del Tempio (nella “vita” dell’Alberti) i nomi
di Piero della Francesca e Agostino di Duccio, contribuendo forse a far perdere
per tanto tempo le tracce di Rimini lungo i sentieri del Grand Tour, fino ai
primi del Novecento quando Rimini risorge, grazie a una ferrovia, come stazione
balneare.
Gli
storici dell’arte, Roberto Longhi e Bernard Berenson in particolare, seguiranno
alla ricerca di Piero della Francesca. La seminale monografia di Longhi su
Piero è del 1927, quella di Berenson del 1950, del 1951 quella di Kenneth
Clark. Ma intanto Berenson, nel suo The Italian Painters of the Renaissance del 1907 (1909, 1929), pur dedicando pagine intense
sull’impersonalità dell’arte di Piero della Francesca (quasi in anticipo sulla
poetica antiromantica di Eliot), non menziona l’affresco riminese. A Rimini il
grande connaisseur, il dominatore del nuovo sapere in tema di critica d’arte
come pure, non dimentichiamo purtroppo, del mercato dell’arte, arriva tardi.
Negli anni Venti Adrian Stokes è lì, nel Tempio, un giovane alle prime armi
che, del Tempio, ne sa di più del riverito Maestro, cicerone quest’ultimo,
nella circostanza, di una delle signore della ricca borghesia, magari in cerca
di capolavori da comprare, ma, direbbe Pound nel c. 97, il Tempio è “sacro”
perché “non è in vendita” (“The temple is holy because it is not for sale”).
L’incontro pare degno di memoria. Come ricorda Pound nella sua recensione a The
Quattro Cento: “Un giorno si potrà
forse avere la vera storia dell’incontro leggendario fra il giovane Stokes e
Berenson nel tempio di Rimini, il giovanotto che dice al superiore più anziano
‘dove andare a parare’, immagino, con grande delizia dell’altro. Uno conosce il
vino al punto da essere in grado di elencare i nomi delle annate, Stokes
conosce l’epoca come se avesse bevuto un bel po’ di vino di Borgogna” (VA 225). Ovvero: Berenson, il grande storico
catalogatore e attribuzionista, in realtà non ha mai assaporato in pieno la
materia di cui tratta, cosa che invece Stokes ha fatto, accarezzando con le sue
mani, come dirà Longhi, le pietre di Rimini. Le parole di Pound su Berenson
ricordano quelle di Roger Hinks, il recensore per il Criterion dell’aprile del 1930, della prima raccolta in volume
di The Painters of the Italian Renaissance: “Mr. Berenson”, scrive Hinks, “quando descrive un capolavoro ci
ricorda in modo molto vivido un amante che fa l’inventario delle labbra, il
seno, il dorso, le cosce della sua donna; mentre a noi pare che essa sarebbe
più convincente se egli ci avesse detto un po’ di più della sua voce, della
famiglia, i gusti e financo delle sue idee” (Hinks 507). Nel 1930 il regno, o
l’età di Berenson, forse, iniziava a vacillare.
Questa
sequela di visitatori del Tempio avrebbe potuto essere invero anche più
nutrita. Sorprendente è, infatti, l’elenco degli assenti. Viene subito in mente
il nome di John Ruskin, naturalmente, ma è facile pensare anche a Byron e
Shelley, a Henry James, Walter Pater, Oscar Wilde, d’Annunzio, Angelo Conti, W.
B. Yeats, molti di loro celebri descrittori della vicina Ravenna. Sta di fatto
che agli inizi degli anni Venti in realtà il Tempio, con i tesori che contiene,
era, nel suo complesso e nelle sue complessità, un capolavoro perduto: il
fondamentale libro di Corrado Ricci uscirà solo nel 1924, un anno dopo la
pubblicazione dei “Canti Malatestiani” su Criterion, un anno prima l’arrivo di Stokes a Rimini. Perduta
non è tanto la storia d’amore romanticizzata di Sigismondo e Isotta o le turpi
malefatte di Sigismondo o la leggenda della chiesa di San Francesco,
trasformata in Tempio pagano, di cui, per esempio, Symonds è già ben
consapevole, quanto quella del misterioso interno che, ancora Symonds, nel
1874, definisce per primo “a strange medley” (“uno strano guazzabuglio”),
parola che ritroveremo nel nostro percorso. Per Symonds, infatti, il mistero
riguarda l’arcano scolpito dai Maestri del Quattrocento (che gli ricordano
Botticelli e Burne-Jones) con un “bizzarro effetto di incrostazione” --afferma
Symonds incredibilmente alla Stokes (ma il termine “incrustation”, quale
proprietà scultorea, è invenzione di Ruskin[i])
e l’identità degli autori di quelle immagini scolpite: “Chi produsse tutte
queste sculture è difficile dire”, egli aggiunge, mentre butta lì qualche nome
fra i più disparati: “Bernardo Ciuffagni, di cui parla Vasari, qualche allievo
di Donatello e Benedetto da Maiano [...] L’influsso degli scultori di Firenze è ovunque percettibile”
(Symonds 2, 30). Ed egli si prova a capire la fonte di tanta originalità:
Qualsiasi
sia il merito di questi rilievi, non c’è dubbio che essi rappresentano
abbastanza bene uno dei momenti più interessanti dell’arte moderna.
L’ispirazione gotica era fallita; il primo stile toscano dei Pisani s’era
esaurito: Michelangelo era ancora lontano, e la copiosità dei modelli classici
non aveva ancora sopraffatto l’originalità. Gli scultori della scuola di
Ghiberti e Donatello, rappresentati in questa chiesa, erano essenzialmente
pittorici, preferivano il basso all’alto rilievo, e il rilievo in generale alle
figure staccate. Il loro stile, come lo stile di Boiardo in poesia, di
Botticelli in pittura, è specifico dell’Italia della metà del quindicesimo
secolo. I canoni medievali del gusto andavano cedendo il passo al classico, il
sentimento cristiano al pagano; eppure l’imitazione dell’antico non era stata
spinta al punto da obliterare la spontaneità dell’artista, e restava
sufficiente spirito cristiano per colorare la fantasia di un romance dolce e solenne. Lo scultore possedeva l’abilità e la
maestria di esprimere la sua più lieve sfumatura di pensiero con libertà,
spirito e precisione. Eppure la sua opera non mostrava segni di
convenzionalità, nessuna aderenza a regole prescritte. Ogni contorno, ogni
piega di drappeggio, ogni posa, era pregnante, almeno alla mente dell’artista,
di significato. A dispetto del suo simbolismo, ciò che egli intarsiò non fu mai
meccanicamente figurativo, ma dotato dell’autonomia di una sua propria
bellezza, reso vitale da un inspirato spirito della vita. Fu un momento felice,
quando l’arte aveva raggiunto consapevolezza e l’artista non era ancora
divenuto autoconsapevole. La mano e il cervello allora davvero lavoravano
insieme per la procreazione di nuove forme di grazia, non per la ripetizione di
vecchi modelli o l’invenzione dello strano e stupefacente. (Symonds 2, 30)
Bella
l’analisi di Symonds ma non risolutiva e soprattutto “errata”, secondo la tesi
“anti-fiorentina” di Stokes (ovvero: siamo lontani, nelle sculture del Tempio,
dallo stile di Ghiberti e Donatello). Il mistero sulla paternità inizierà a
diradarsi con Yriarte, il primo a individuare e proporre nel 1882 la mano di
Agostino di Duccio (anch’egli un fiorentino ma diverso). Eppure Burckhardt
aveva avuto delle buone intuizioni in La civiltà del Rinascimento in Italia (1860), il trattato pionieristico che fa, fra
l’altro, di Sigismondo Malatesta, pur nell’alone delle sue ombre e
contraddizioni, un esempio di alta “civiltà”. In quell’opera, tradotta nel 1876
in francese, nel 1877 in italiano e solo nel 1886 in inglese, Burckhardt parla
di Sigismondo e Isotta e del tempio d’amore --“Divae Isottae sacrum” (Burckhardt 1909, I, 265)-- anche se, nel 1860, non
aveva ancora visitato Rimini. Lo farà nel 1878, dopo Symonds. I risultati si
vedranno in un’opera postuma, Beitrage zur Kunstgeschichte von Italien, consistente di tre saggi (“La pala d’altare”, “Il
ritratto nella pittura”, “I collezionisti”), pubblicata nel 1898 e nota oggi
come La pittura italiana del Rinascimento. Qui confluiscono molti spunti interessanti a proposito di Piero della
Francesca (c’è una pionieristica, e a tratti imprecisa, descrizione
dell’affresco[ii]), Agostino
di Duccio (indicato come probabile autore dei bassorilievi), le raffigurazioni
di Isotta e la storia della cattedrale di Rimini. Spunti suggeriti magari in
parte dalle indagini, nel frattempo intervenute, di Charles Yriarte?
La
guida alle bellezze e antichità di Rimini, datata 1909, in possesso di Stokes
nel 1925, si rifà a Un condottiere au XVe siècle di Yriarte (che a sua volta contava a tratti sul
Burckhardt del 1860), uno studio documentato, illustrato (c’è una riproduzione
dell’affresco di Piero) ma pieno di errori, errori che traslocano nella guida,
come segnala puntualmente Stokes in Stones of Rimini. In quel baedeker si conferma la vasta paternità di
Agostino di Duccio e la presenza dell’affresco di Piero “restaurato” (malamente[iii]),
datato e firmato, quell’affresco così importante (almeno per la cronologia del
Maestro) che né Vasari né Symonds, e molto probabilmente, neanche il primo
Berenson, avevano visto --chiuso a chiave com’era nella cella delle reliquie--
o di cui sembrano aver avuto sentore. Per esempio, la fosca descrizione del
volto di Sigismondo fatta da Symonds deriva da uno dei profili di marmo: “Il
ritratto di Sigismondo, inciso su medaglie, e scolpito su ogni fregio e punto
privilegiato nella Cattedrale di Rimini, ben denota l’uomo. Il suo volto è
visto di profilo [...]”
(Symonds 2, 19).
Nonostante
il Burckhardt in tedesco del 1898, la responsabilità di tanto mistero resta
forse ancora in Vasari, l’immancabile autorità per i turisti “appassionati” di
quei tempi. Nella sua vita di Leon Battista Alberti egli dedica una pagina
entusiasta all’architettura del Tempio e ai suoi interni ma non menziona (o
trascura?) l’affresco di Piero, cosa che si ripete nella bella “vita” dedicata
a quest’ultimo. Nulla mai ci dice di Agostino di Duccio. Mentre Sigismondo
compare nella “vita” di Giotto che lasciò nella chiesa di San Francesco
“moltissime pitture, le quali poi da Gismondo figliolo di Pandolfo Malatesti,
che rifece tutta la detta chiesa di nuovo, furono gettate per terra e rovinate”
(Vasari 56). Un altro tocco alla cattiva nomea di Sigismondo? Ecco, comunque,
con qualche imprecisione, la sua descrizione della chiesa rinnovata da Alberti:
Dopo,
andato al signor Sigismondo Malatesti d’Arimini, gli fece il modello della
chiesa di S. Francesco, e quello della facciata particolarmente che fu fatta di
marmi, e così la rivolta della banda di verso mezzogiorno, con archi
grandissimi e sepolture per uomini illustri di quella città. Insomma ridusse
quella fabbrica in modo che per cosa sola ell’è de’ più famosa tempii d’Italia.
Dentro ha sei cappelle bellissime, una delle quali, dedicata a San Ieronimo, è
molto ornata, serbandosi in essa molte reliquie venute da Gierusalem. Nella
medesima è la sepoltura del detto signor Sigismondo, e quella della moglie,
fatte di marmi molto riccamente l’anno 1450, e sopra è il ritratto di esso
signore, et in altra parte di quell’opera quello di Leon Battista. (Vasari
390-91)
Sarà
a causa del Vasari che John Ruskin trascura Rimini? Stones of Rimini fa il
verso a The Stones of Venice
(1851-1853) e questo non è “fortuito”, come dirà Pound di altre questioni (non
di questa) sollevate da Stokes a proposito del Tempio, così come non sembra
fortuita quella lieve differenza nel titolo consistente nell’assenza
dell’articolo: anonime e, come sappiamo, da Sigismondo raccattate (anche
“rubate”) qui e là (almeno fra l’Istria, Verona e Ravenna) “pietre di Rimini”
di contro “le pietre di Venezia”, più celebrate e più note come pure più
facilmente leggibili. E’ noto: lo scopo di Ruskin in questa sua opera, la più
famosa e la più letta, è di glorificare il (nordico) Gotico e denunciare la
“pestilente” arte del Rinascimento, attaccando, quest’ultima, nel suo indomito
caposaldo: Venezia. Infatti, nonostante le “mattinate fiorentine”, Firenze
(come per Pound e Stokes) non avrà molto posto nel suo cuore di appassionato
d’arte. L’arte per lui è sì guida estetica ma anche e soprattutto guida morale,
che nulla ha a che vedere con l’estetismo individualistico e paganeggiante del
suo rivale Walter Pater (di gusti decisamente più fiorentini). Quest’ultimo di
quel tipo di estetismo fa “religione secolare”, un atteggiamento che il più
puritano Ruskin non poteva condividere. Per Pater l’arte è superiore alla
natura, per Ruskin è vero il contrario, per Pound e Stokes arte e natura,
artista e paesaggio si compenetrano. Quindi, la gotica Chiesa di San Francesco
trasformata da Alberti e collaboratori in un tempio paganeggiante ricco di
“retorici” ornamenti non poteva attrarre il freddo gusto nordico, cuspidale,
social-religioso, puritano-protestante di Ruskin. Di contro alla purezza della
bizantina San Marco e dei palazzi gotici, la decadenza di Venezia per lui arriva quando si rimodella il Palazzo
Ducale, un misto (o “medley”), come la chiesa di San Francesco di Rimini, di
Gotico e Rinascimento. Anche per Pound la decadenza di Venezia inizia lì, nel
rifacimento rinascimentale, ma le ragioni sono diverse: le ragioni, per Pound,
non sono da attribuire al ritorno del classicismo e del paganesimo o
all’avvento del lusso e dello spreco o ancora al declino della fede quanto
piuttosto al “prezzo”: all’abdicazione del “prezzo giusto” che confluisce
nell’ingrossamento della linea del disegno in pittura come in scultura (e in
poesia). A Rimini, invece, l’ardito “Quattro Cento” descritto da Adrian Stokes
trionfa nonostante qualche eccesso, trionfa --questo il giudizio di Pound nel
1923 come registrato dal c. 9-- nella filigrana rinascimentale: “The filagree
hiding the gothic, / with a touch of rhetoric in the whole” (“Ove la filigrana
asconde il gotico / un po’ retoricamente”). In una prima versione Pound aveva
usato il più comune “filigree” (Rainey 159) in luogo del più raro e più
filologicamente corretto “filagree”: un arcaismo, dunque, quest’ultimo, per
nascondere ciò che resta come solida fondazione.
Il
congedo di Adrian Stokes alla fine di The Quattro Cento pare rivolto proprio a Ruskin, colui cui ammiccherà
la sua impresa successiva: “Ho scritto non solo per gli sfortunati nordici che
amano il Sud, ma anche per coloro che amano il Nord appassionatamente, così che
essi possano conoscere l’essenza che è straniera e pericolosa alla loro arte. O
abbiamo tutti bisogno di luce in luogo di illuminazione...dobbiamo noi sempre
volgerci al Sud?” (QC 230)
2.
la fortuna di Adrian Stokes e delle sue “pietre”
“Io
scrivo della pietra”, afferma Stokes alla fine del primo capitolo di The
Quattro Cento. E quindi aggiunge:
“Pochi nordici e pochi orientali amano la pietra: per i più è un simbolo di
sterilità” (QC 8). E la pietra di
cui Stokes ama scrivere è quella del Sud, e del Sud per antonomasia: l’Italia.
Questa “pietra meridionale non è né sterile né vulcanica, ma il deposito di
fantasie umanistiche, paricolarmente quelle simboleggianti la compulsione
meridionale a proiettare fuori la vita, a oggettivare. Nel grande periodo del quindicesimo
secolo, gli scultori del Rinascimento fecero fiorire la pietra” (QC 7). Ecco il significato dell’espressione “Quattro
Cento”, uno “stile” non necessariamente riferito al secolo da cui sembra
sortire o solo alla scultura: Cézanne, per esempio, per Stokes, è “Quattro
Cento”.
E’
curioso che l’esordio di Stones of Rimini ribadisca il medesimo obiettivo, prendendo le mosse, in questa
circostanza, dalla Venezia di Ruskin: “Io scrivo della pietra. Scrivo
dell’Italia, dove abituale è la pietra. Ogni generazione veneziana maneggia la
pietra d’Istria di cui Venezia è fatta. La scultura veneziana ora procede, non
dallo scalpello e dal martello, ma sotto le mani, i piedi, sotto lo stesso
respiro di ogni abitante e di alcuni gatti, cani e parassiti. Si vedan le teste
sul ponte della Paglia, com’è squisita la loro levigatezza, com’è costantemente
rinnovata la loro finitura manuale” (SR 13). Rinnovando l’esperienza di Ruskin, nella sua seconda impresa
Stokes va alla scoperta del connubio di “pietra e acqua” al di là delle paludi
di Ravenna --limite estremo dello sguardo di Ruskin in The Stones of Venice-- per approdare alla negletta, cenerentola Rimini.
Ma
chi era Adrian Stokes? Un ennesimo giovane inglese amante dell’arte diviso fra
John Ruskin e Walter Pater? O, riduttivamente, un “tardo Ruskin” nell’epoca
della sistematizzazione (anche attribuzionista) di Berenson? O un Ruskin meno
lucido e depurato dei suoi fondamentalismi religiosi e sociali, come vuole
Kenneth Clark in una recensione --non sempre entusiasta-- a The Quattro
Cento? O un Ruskin che scrive e pensa
e si fa “impressionare” alla Walter Pater? O un iconologo alla Warburg, magari
un po’ dilettante come quando propone l’Urania di Pontano per districare il mistero del Tempio? O
forse, ancora, un novello più solido --più pentito di un vacuo estetismo--
“Hugh Selwyn Mauberley”, l’alter ego decadente dello stesso Pound? O, più
chiaramente, grazie a Pound, un autentico figlio del modernismo in campo di
critica d’arte? Forse tutte e nessuna di queste maschere, benché l’ultima
appare la più probabile. E’ certo però che la parentela con l’opera di Ruskin --come pure con lo “stile fiorito” di Pater-- è
stretta e vi si è insistito molto allora (nel 1932 e 1934) come oggi.
Non
si può negare che Stokes abbia alle spalle la lezione di entrambi i maestri del
duplice estetismo vittoriano ed è altrettanto vero che egli riesce, anche
grazie alla sensibilità modernista e alla cultura della psicanalisi, a
esprimere una sua precisa personalità di lettore di opere d’arte e un suo
stile, consistente in quello che Clark (invero poco consapevole nel 1932
dell’ideogramma modernista) vede come un limite, quando afferma che, a
differenza del “chiaro”, rigoroso, spesso “indignato” Ruskin, Stokes “è pronto
a lasciar lavorare un po’ il suo lettore nell’interpretare e co-ordinare le sue
immagini” (Clark 147). Il concetto di “Quattro Cento”, le espressioni
“stone-blossom” (“fior di pietra”),
“incrustation” (“incrostazione”), la differenza fra “carving”
(“intaglio”: maschile) e “modelling” (“modellazione”: femminile), con i loro
riverberi freudiani (“jargon”, dice il recensore), che “Ruskin mai conobbe”
(Clark 147), fanno sorridere Kenneth Clark: “Il libro abbonda di compensazioni,
fissazioni e altre premesse da behaviorismo, incluso un ditirambo sui putti di
Donatello” (Clark 147). Stokes, se è uno storico, è uno storico un po’ lirico,
uno che mescola fatti e fantasia in una prosa piacevole ed evocativa, ricca di
belle immagini, e qualche “ditirambo” o “sacra danza” o “trenodia d’amore e
odio” (Clark 147) dinanzi a un oggetto d’arte. Ma quanto a fondata teoria The
Quattro Cento, insiste Clark,
“promette anche più di quanto non realizzi” (Clark 149). Questa fu la prima
reazione a The Quattro Cento (che
vendette solo 180 copie) su The Criterion, l’influente rivista di T. S. Eliot (e di Pound). Clark sarà più
generoso in seguito quando citerà “lo Stokes con grande estimazione” (Longhi
163) a proposito di Piero della Francesca.
A
Pound The Quattro Cento invece
piace, nonostante un “purple language” che lascia accostare Stokes a Pater ma
in più di Pater, ammette Pound nella sua recensione (1932) su Symposium, Stokes possiede la presa autoritaria di colui che ha
“visto” le sue “pietre” (invero: come Ruskin) e un “concern” per “le forme e i
significati della bellezza lapidea” (VA 222-223). Ciò lo porta a fatti oggettivi da lui comparati e correlati,
attraverso la giustapposizione di “forma contro forma” (un metodo alla
Frobenius, si direbbe). The Quattro Cento è, afferma ancora Pound, “un libro per la ‘vita nella sua interezza’,
è assolutamente un libro per la ‘pietra viva’”, come mostra l’invenzione del
termine “stone bloom”, sorto da una “necessità interiore e da una qualità
manifesta nella materia di cui tratta” (VA 223).
Due
anni dopo arriva Stones of Rimini,
il secondo di una progettata trilogia. Nella sua ricerca della fortuna di Piero
della Francesca, Roberto Longhi è il primo (e sinora unico) italiano a scoprire
Adrian Stokes. Nel 1963 a proposito di Stones of Rimini, un titolo, egli afferma, “di netta ascendenza
ruskiniana” (al punto che vi aggiunge l’articolo), egli parla di estetismo
“post-romantico” mentre rileva che Stokes: “movendo da un’estetica quasi infusa
‘ab alto’ nel materiale (con una specie di ‘semperianismo’ capovolto), tanto
che il primo capitolo ha per impresa: ‘The Pleasures of Limestone’, e cioè ‘i
piaceri della pietra calcarea’, accarezza a lungo i bassorilievi del tempio
Malatestiano, finchè, incontrato l’affresco di Piero, dà dell’artista
un’interpretazione, a suo modo, affascinante” (Longhi 156), riferendosi
probabilmente alla teoria degli intervalli di tono (PR 125). Seguiranno da parte di Longhi altri convinti
giudizi sul Piero di Art and Science
(1949), ampiamente citato, fino a concludere: “Nella storia della critica
d’arte inglese dopo il Ruskin lo Stokes ha probabilmente una sua propria
posizione mentale che desidereremmo gli venisse più comunemente riconosciuta
anche da noi” (Longhi 163)[iv].
Se
a Longhi interessa più Piero dei marmi, a Pound sta a cuore, così sembra giusto
dedurre, l’originalità di Stokes almeno per quanto riguarda The Quattro
Cento. E pertanto nella sua
recensione a Stones of Rimini egli
ignora l’ascendenza ruskiniana --liquidando col silenzio il punto sollevato da
Clark due anni prima-- per confermare piuttosto il fatto che in The Quattro
Cento Stokes aveva dimostrato come,
“a dispetto della superficie della sua scrittura, egli non fosse semplicemente
un altro seguace di Walter Pater. Era andato giù al fondo della ‘solida roccia’
nell’usare la PIETRA come base della sua analisi critica di certe qualità
dell’ornamento architettonico del Quattrocento” (VA 167). L’enfatizzato “bedrock” (parola di Stokes)
naturalmente significa sia “solida roccia”, “fondazione” o “basamento” sia
“principi e fatti basilari” (Webster) ma nel contesto anche “basamento” del
“tempio”[v].
In breve, è la lettura della materia usata dall’artista a fare la differenza
nell’approccio estetico di Stokes. Nel palinsesto (o “medley”) del Tempio
Stokes ha trovato, afferma Pound, “almeno una basilare unità o antitesi: Acqua
e Pietra”. E aggiunge: “Solo per questo il libro è degno di essere stampato.
Per aver sapientemente disarcionato un intero nugolo di
ergo-‘critici’-spacca-logica” (VA
168). Ma vediamo meglio i dettagli.
3. La recensione di Pound
Pound
recensisce Stones of Rimini sul Criterion dell’aprile del 1934. Si tratta di un breve, nutrito
testo, dallo stile un poco teso e affrettato, che non piacque a Stokes al punto
da essere, almeno in parte, così sembra, responsabile della rottura fra i due
(Read 69-92). C’è aria di rivalità, fino a esser tentati di leggere fra le
righe di Pound una tacita polemica (su un debito dimenticato da Stokes?), come
già permette di intuire l’esordio: “Sia che si accetti l’ipotesi di Frobenius come
fatto o come uno strumento di sintesi indiscutibilmente vantaggioso, il senso
della proprietà personale nel campo dell’arte sta, credo, crollando” (VA 167). Comunque, a parte l’affiorare qui e là di
questioni personali fra Pound e Stokes, curiosamente questa densa recensione
(una vera e propria “lezione del Maestro”) è stata trascurata dagli studiosi
dei “Canti Malatestiani” --per esempio da Lawrence S. Rainey nel suo
documentato Ezra Pound and the Monument of Culture (1991)-- nonostante l’uso che già nel 1965 Donald
Davie faceva di Stones of Rimini
in Ezra Pound: Poet as Sculptor.
Anche il biografo Humphrey Carpenter liquida con poche battute la storia di
un’amicizia, la recensione e Stones of Rimini quando afferma: “Tuttavia, benché il libro fosse fondato
su una passione per il Tempio Malatestiano pari alla sua [di Pound], esso riuscì a strappare un apprezzamento
accondiscendente e controllato quando Ezra lo recensì per il Criterion. Il massimo che gli concesse fu di dichiarare
l’autore ‘non semplicemente un altro seguace di Walter Pater’” (Carpenter 445).
Le cose non stanno esattamente così. Al di là della storia di un’amicizia, la
recensione è importante, se non per Stokes, di certo per Pound. Vediamo perché.
Anzitutto
Pound tiene a precisare che già con
The Quattro Cento lo “stile
di un periodo” assume un nuovo significato: le sculture di Rimini (come quelle
di Venezia e Urbino) hanno una loro precisa identità, diversa da quella di
altre opere del primo Rinascimento, soprattutto fiorentine. L’idea di “Quattro
Cento” (in quanto stile e non periodo storico) di Stokes, che si concreta in
alcune espressioni verbali (“fior di pietra”, “incrostazione” e “intaglio” come
contrapposto a “modellazione”), intende esaltare non solo il connubio fra acqua
mediterranea e pietra calcarea (“limestone”: pietra organica) ma anche
l’importanza dell’intaglio. Al di là del valore plastico, scrive infatti
Stokes, “una figura intagliata nella pietra è un bell’intaglio quando si sente
che non la figura, ma la pietra attraverso il mezzo della figura, è venuta alla
vita. La concezione plastica, d’altronde, è più elevata quando il materiale con
cui, o da cui, una figura è stata fatta appare come sostanza adatta non più di
tanto per questa creazione” (SR
95). L’intaglio, sostiene Stokes, è “un’articolazione di qualche cosa che già
esiste nel blocco” (SR 98).
Pertanto, il “fior di pietra” e l’“incrostazione” non sono ornamenti applicati
ma un’espressione di crescita spontanea del marmo sulla sua superficie. Questo
è lo stile “Quattro Cento”.
Pound
si sofferma in modo particolare sull’espressione più importante inventata da
Stokes: “stone blossom” (“fior di pietra”), in luogo, egli sottolinea, di
“emergence”, un termine più ovvio e più poundiano. E’ l’“emersione” a incarnare
uno dei motivi dei Cantos: la
nascita della dea di marmo, Afrodite, dall’acqua[vi],
un motivo che nella teoria di Stokes coincide con la principale qualità della
scultura “Quattro Cento”, capace di suggerire appunto “forme baluginanti viste
sott’acqua” (SR 234), un’immagine
molto poundiana --“il mondo radiante”, “il vetro sott’acqua” (Os 1029)[vii]--
come pure poundiano è il seguente passo:
La luce
rifratta attraverso l’acqua chiara converte il marmo in onde, lo tempera di
numerose profondità dimensionali. Perciò l’acutezza dei templi sommersi, o di
un braccio di marmo d’Afrodite si stagliava sopra i chiari ed oblunghi ciottoli
dalle reti dei pescatori di Cnido.
Ci
avviciniamo ad un aspetto della cultura del Quattro Cento. Perché i rilievi di
Agostino nel Tempio hanno l’apparenza di membra di marmo viste nell’acqua. (SR 84)
Così,
per esempio, nel c. 25, il secondo canto di Venezia, nasce Afrodite:
“<<<> / and saw the waves
taking form as crystal” (“<<<
“Stone
blossom” per Pound è una speciale “verbal manifestation” di Stokes, quasi
costui sia un novello e più autentico Mauberley che, sappiamo, aveva una
“passione” fondamentale, quella di presentare attraverso “manifestazioni
verbali” curiose “teste in medallione” (Os 215). Ma nella presente occasione la “manifestazione verbale” di
Stokes dimostra che, a differenza di altri critici (Berenson?), Stokes i suoi
oggetti prima di descriverli in The Quattro Cento li ha visti: “Qualsiasi possano essere le
reminiscenze mostrate nei modi della sua manifestazione verbale, egli [Stokes] aveva visitato i luoghi, aveva VISTO [LOOKED] la pietra, e l’insieme della sua floridezza verbale
aveva in ogni caso quella fonte unitaria” (VA 167). Sulla necessità di “vedere” dal vero le opere
d’arte --e non attraverso le riproduzioni-- Pound si era già soffermato in ABC
of Reading (1934), un’opera coeva:
“Se volete scoprire qualcosa intorno alla pittura, andate alla National
Gallery, al Salon Carré, a Brera, al Prado, e GUARDATE [LOOK] i dipinti. Per ogni lettore di libri d’arte, 1000
persone vanno a VEDERE i dipinti. Siano rese grazie al cielo” (ABC 18). Anche se, nel caso delle sculture di
Gaudier-Brzeska, egli aveva ammesso nel 1914, talora fotografie “sono meglio di
niente” (GB 19).
E
così l’obiettivo principale della sua recensione di Stones of Rimini è proprio l’apparato iconografico, su cui, invece,
Stokes mette in guardia il lettore perché, egli sostiene, gli effetti
dell’“intaglio” --a differenza di quelli della “modellazione” (la plasticità)--
si perdono nelle fotografie: ecco il punto debole delle sculture “Quattro
Cento”, esse non sono ben comprese da chi le studia solo attraverso le
riproduzioni anzi quest’ultime costituiscono “un ostacolo” (SR 93). Pound, invece, stavolta si compiace delle
fotografie. Stokes, egli dice, “ha contato moltissimo sulle sue riproduzioni a
mezza tinta ma senza dare una guida al lettore più pigro, il che sarebbe stato
un modo di cautelarsi. Non si può confidare così tanto sul fatto che i lettori
capiscano che certi effetti di un libro non sono semplicemente fortuiti” (VA 167). Ecco per ora un punto di tutta la questione: le
fotografie riprodotte da Stokes che nella presente circostanza sono importanti
in quanto non sostituiscono l’oggetto d’arte ma aiutano a capirlo meglio. E lo
comprende meglio anche chi, come Pound, è per l’appunto uno che “conosce il
TEMPIO come forse non più di un’altra dozzina di persone”, quindi come uno che
non avrebbe bisogno delle riproduzioni[viii],
e invece, egli ammette, il recensore, Ezra Pound, “ha imparato un bel po’ dallo
shock di vedere le, come al microscopio, foto dei particolari in questa
specifica giustapposizione. Egli dunque non pensa che ciò sia dovuto a una
casualità senza disegno” (VA 167).
Di qui i risultati che sono fondamentalmente due, entrambi riguardanti “stili”
e “forme” del Tempio governati da uno o più, si vedrà, principi di unità. Al di
là di questi risultati formali ed estetici, Pound aggiunge altre importanti
osservazioni sui possibili significati dell’enigma, sulla fonte del “concetto”.
Il
primo importante risultato è per Pound una sorpresa, la sorpresa del
riconoscimento del fatto che il Tempio è un coraggioso guazzabuglio (“medley”):
“Che guazzzabuglio! Il Tempio di Rimini sarebbe stata una sintesi molto meno
audace se tutti i suoi particolari fossero stati pienamente digeriti e ridotti
a una unità di stile alla Palladio. Come documento umano, come documento di
coraggio, nulla può toccarlo” (VA
167-168). Il termine “medley” è usato da Stokes nel titolo del secondo capitolo
per caratterizzare la pietra calcarea, per definirire la “limestone” come
“geological medley” (una “miscela geologica”, SR 23). Ma il guazzabuglio che ora Pound vede, grazie ai
particolari riprodotti, non è quello geologico di Stokes o quello dell’interno
scultoreo del Tempio rilevato da Symonds cinquant’anni prima, ovvero: “uno
strano guazzabuglio di opera medievale e rinascimentale, un simbolo di quella
scena sparente nella pantomima del mondo: quando lo spirito dell’arte classica,
ancora poco compreso, andava invadendo il gusto cristiano primitivo” (Symonds
2, 29). Un problema che, ancora secondo Symonds, si sarebbe risolto solo un
secolo più tardi: “Scorrerà un secolo prima che Palladio, accostandosi al
problema da un punto di vista diverso, restauri l’antico nella sua purezza”
(Symonds 2, 29). Evidentemente, qui, Pound dimostra di ricordare bene il suo
Symonds! Tuttavia, ora gli preme riconoscere soltanto che il “guazzabuglio” è
di altra natura:
Quanto
al guazzabuglio, guardandolo dritto in faccia: buddismo, l’estremo oriente,
distinto da qualsiasi schema di composizione identificabile con il vicino
oriente. Sempre l’ellenismo perfetto della colonna dritta e tratti non
figurativi. Tardissime goffe forme romane. Nella tavola 33 un senso decorativo
senza pari e insuperato dall’Africa, e come in piena digestione il pimpante
Ercole che s’incammina (a destra in basso). (VA 168)
In
tutto questo “guazzabuglio” di stili --ma anche, si vedrà, un “vortice”-- messo in luce dalle fotografie, diverso
da quello segnalato da Symonds, Stokes, egli afferma, ha trovato un principio
antitetico unitario: “Acqua e Pietra”. E solo ora, dunque, che il recensore può
studiare i particolari e analizzare la porta di Matteo dei Pasti (quella che a
Stokes piace meno ma che è “preferibile” all’altra) con attenzione e
riconoscere in una sola opera del monumento la miscela di culture che ha
elencato: fino a quello strano Ercole, associato a Davide e Gedeone, che,
mettendosi in cammino sulla destra, sembra digerire qualcosa, non tanto il bue
del racconto mitico quanto forse la macedonia di stili. Non sarà allora un caso
che sulla prima pagina di Guide to Kulchur (1938), a esergo, sotto il sigillo di Sallustio Malatesta, nel suo
breve panegirico di Rimini e di Sigismondo, Pound tenga a dire che: “Se il
Tempio è un pasticcio e una bottega di cianfrusaglie, esso tuttavia registra un
concetto”. Il “medley” rivelato dalle fotografie è ora diventato “jumble” e
“junk shop” (di nuovo, più colloquialmente e spregiativamente, “guazzabuglio”,
“bazar”, “cianfrusaglie”, “negozio di paccottiglia”, “trash”), quanto al
“concetto”, questo si chiarisce più avanti.
Anche
il secondo risultato è sorprendente. Pound si sofferma ora sulla copertina del
libro disegnata dall’esordiente scultore Ben Nicholson:
Il
disegno di copertina non mi sembra affatto fortuito, ma la chiave non è
indicata in modo abbastanza chiaro. Un altro principio di unità sembra esistere
per me, ed esso sembra provenire non dall’edificio, ma dalla medaglia
commemorativa di Matteo de’ Pasti. (VA 168)
Se
guardiamo meglio anche noi la copertina dell’edizione originaria vedremo
disegnati tre cerchi o sfere schiacciate apparentemente di rozza pietra.
Perché? Pound ci tiene a dire che queste immagini non sono casuali
(“fortuitous”): sono esse forse una appena abbozzata rappresentazione del
Signore del Tempio, il committente Sigismondo, il cui profilo in medaglione è
ripetuto più volte nell’interno come ripreso dalla medaglia di Matteo de’
Pasti? Ma i cerchi (o “sfere schiacciate”) della copertina servono a Pound per
avanzare una sua proposta:
Credo
che la costruzione abbia una base sferica--fortunatamente camuffata
nell’effetto ma sempre là come principio e come causa di una solidità, una
soddisfazione che nessun altra forma-base avrebbe potuto raggiungere. (VA 168)
E’
questo il suo contributo, l’immagine della sfera, maturato attraverso la
lettura delle fotografie:
Prendiamo
un intero pacchetto di foto del Tempio e iniziamo a contare i CERCHI.
Rovesciamo, per un momento, il criterio fior di pietra di Stokes, o meglio
arricchiamolo con l’idea della sfera appiattita.
Ripetutamente
troviamo la sfera schiacciata. Laddove la scultura greca è fiacca se paragonata
alle migliori opere africane, perché quest’ultime sono concepite come solida
massa e la greca così spesso come un semplice profilo su un perno, o una serie
di profili eseguiti da qualcuno che gira intorno al soggetto, il basso rilievo
di Rimini è concepito in tre dimensioni e poi schiacciato. E intendo al meglio.
Questa
mi pare l’aggiunta ‘formale’ che potrebbe aiutare a spingere oltre l’analisi
del Sig. Stokes. (VA 168)
Ecco il miracolo: le tre dimensioni e poi lo
schiacciamento. E’ un’idea portante di Stokes che i bassorilievi di Agostino di
Duccio siano forme rotonde a tre dimensioni appiattite (“flattened”), talvolta
fino all’“ovale”, la naturale resa della sfera nell’“intaglio”[ix].
Ma, ora Pound non si fa distrarre dall’attraente forma dell’ovale a lui
particolarmente cara (l’ovale è Venere, per esempio) e nella sua perentoria
“lezione del Maestro” insiste sull’importanza della sfera (appiattita o
schiacciata: “flattened”, “squashed down”), alla cui diffusa presenza nel
Tempio solo le fotografie riprodotte da Stokes hanno dato finalmente evidenza e
giustizia ma che, pare di dover intuire, egli aveva forse segnalato a Stokes.
Su tale questione l’epistolario fra i due s’accende, almeno da parte di Stokes,
registrando toni alti, talvolta accorati, di rivendicazione e chiarimenti, per
esempio: “Perché, naturalmente, vorrei quell’unico punto almeno assestato e
cioè che la sfera appiattita sia un tuo suggerimento” (Read 82). Non conosciamo
la risposta di Pound, Stokes distrusse tutte le sue lettere. In ogni modo, qui
preme mettere in luce piuttosto le conclusioni del “Maestro”: la forma segreta
del Tempio (che, sappiamo, Alberti avrebbe completato con una cupola) è la
sfera, la sfera schiacciata, e così mimetizzata, quasi nascosta.
Per
comprendere in pieno tali riflessioni è necessario andare indietro
nell’educazione poundiana, fino al 1914 e al suo incontro con la scultura di
Gaudier-Brzeska e il “Vortex” di quest’ultimo pubblicato su Blast in quell’anno. In quel manifesto Gaudier-Brzeska
analizza vari “vortici” scultorei (il sumero, africano, mediorientale, cinese),
tutti incentrati sulla “sfera”, la sfera “schiacciata” di cui si parla nella
recensione a Stones of Rimini. In
“Vortex” (meno di quattro pagine) la parola “sfera” --in quanto “anima e
oggetto del vortex” (GB 21)--
ricorre in maiuscoletto o in minuscolo ben dieci volte. Ecco, per esempio, la
sfera dei semiti:
Essi
innalzarono la sfera a una splendida schiacciatura e crearono l’ORIZONTALE. (GB 22)
E
quella dei neomongoli:
essi
sottoposero la sfera cinese a trattamento orizzontale, così come avevano fatto
i Semiti. (GB 23)
Fino
a quella dei moderni: Epstein, Brancusi, Archipenko, Dunikowski, Modigliani, e
lo stesso Gaudier-Brzeska (“e io”):
Siamo
stati influenzati da quello che più ci attraeva, ognuno secondo la propria
individualità, abbiamo cristallizzato la sfera nel cubo, abbiamo realizzato una
combinazione di tutte le possibili masse in tutte le loro forme, concentrandole
per esprimere le nostre astratte riflessioni di cosciente superiorità.
La volontà e la coscienza sono il nostro
VORTICE.
(GB 24)
La
sfera di Gaudier-Brzeska era dunque nella mente di Pound sin dalle origini
delle sue riflessioni sulla scultura. Dalla sfera arcaica “in a splendid
squatness” (“in una splendida schiacciatura”) al “cubo” cristallizato dei
moderni. Nel mezzo, grazie alle fotografie di Stokes, egli scopre la “sfera
schiacciata” del “Quattro Cento”: di Agostino e di Sigismondo.
Conviene
tornare, per concludere, allo stile “Quattro Cento”. Pound usa per la prima
volta tale “conio” divulgato da Stokes in una lettera da Venezia del 9 maggio
del 1913 a Dorothy Shakespear, allora a Roma:
Accludo
lo sketch di un tuo ritratto e un ricordo del significato preciso del termine
Quattro cento” (tutto in una c. p.). Ho le basi delle colonne in riproduzioni
più grandi. (EPDS 226)
Ecco
dove nasce il concetto di “Quattro Cento” di Adrian Stokes, forse proprio dalle
conversazioni avute con Pound. Per Pound “Quattro cento” sono le famose (per i
lettori dei Cantos) “sirene”
scolpite da Pietro Lombardo nella chiesa di Santa Maria dei Miracoli a Venezia,
che in cartolina (“tutto in una c. p.”) spedisce separatamente a Dorothy e alla
madre. Qualche giorno dopo, in quel maggio del 1913, trascinerà per le calli
veneziane Hilda Doolittle a vederle. Le “sirene” di Pietro Lombardo --ricordate
anche nella recensione a The Quattro Cento-- sono un’immagine salvifica nei Cantos, quanto quella di Venere, di Leucotea o dei
bassorilievi di Rimini, in particolare la Diana che per Stokes è il vero
demiurgo della scultura del Tempio: Diana quale “luna”, Venere e Isotta[x].
E’, dunque, forse dalle “sirene” veneziane che ha origine il concetto di
“Quattro Cento” di Adrian Stokes[xi].
A
riguardo delle fonti o delle congetture di ciò che era nella mente di
Sigismondo, conclude Pound nella sua recensione, l’Urania di Pontano (come avventatamente suggerisce Stokes)
non c’entra, c’entra invece Gemisto Pletone e i “sette archi laterali” e i “tre
frontali” del progetto architettonico di Alberti “in relazione alla sfera
basilare” (VA 168) e, infine, il
richiamo alla metempsicosi nell’Isottaeus di Basinio. Queste fonti sono indispensabili, “da prendere seriamente”
(VA 168), insiste Pound, per
capire l’enigma. Pregio di Stokes è nell’aver indicato nell’“acqua” una fonte
più che importante anche perché essa è, “sia che [Stokes] lo ricordassse o no,-- in armonia con l’origine di
tutti gli dei, Nettuno, nella teogonia di Gemisto” (VA 169). Di qui al c. 83: “HUDOR et Pax / Gemisto
stemmed all from Neptune / hence the Rimini bas reliefs” (“HUDOR et Pax /
Gemisto trae tutto da Nettuno / onde i bassorilievi di Rimini”).
Quanto
al trionfo di Agostino di Duccio, il suo concetto di “assoluta bellezza fisica,
raggiunta nella sua proporzione”, non ha nulla a che vedere con Milo o la
Grecia ma con “la bellezza e la sanità italica”. Tutto ciò “al suo apice, e giù
fino al semplice raffazzonamento, e a figure fisiche così difettose che non
passerebbero il giudizio di un comitato di Atlantic City o di Ziegfield” (VA 169). Pound pensa forse delle modeste sculture delle
Arti e delle Virtù: si veda la “Retorica” (SR, tav. 10), per esempio, o la “Musica” (SR, tav. 21), siamo davvero lontani dalla magia equorea
--la lucida pietra che si dissolve in acqua o l’acqua che si concreta in
pietra--, dagli “ovali”, le “sfere schiacciate” degli altri capolavori lapidei
del Tempio.
Nel
1934 Pound aveva finito il suo percorso nel Rinascimento italiano e si stava
impegnando contemporaneamente su Jefferson e sulla cultura e “sanità”
mediterranea. La recensione a Stones of Rimini, un’opera che esalta la vita mediterranea, introduce
quest’ultimo concetto mentre punta in avanti in quella direzione: verso il
“paideuma” di Frobenius, la “guida alla kultura”, l’antico “vortice” romano (la
statua della “dea di Terracina”) e forse anche alla finale sfera di cristallo
del c.116 che inizia così: “Came Neptunus / his mind leaping / like dolphins /
These concepts the human mind has attained / To make a Cosmos--” (“Venne
Nettuno / la sua mente guizza / come delfini, / La mente umana questi concetti
ha raggiunto. / Costruire il Cosmo--”). Come non pensare ai delfini di Rimini
sul timpano della porta di Matteo dei Pasti così ben riprodotti da Stokes! Tuttavia, il passo
che ci preme arriva poco dopo quest’inizio: “I have brought the great ball of
crystal; / who can lift it? / Can you enter the great acorn of light? (“Ho portato la grande sfera di cristallo; / chi la
può sollevare? / Puoi tu penetrare la ghianda di luce?”). La sfera di
cristallo--dei sumeri, di Duccio, Alberti e Sigismondo, dei cubisti, di Gaudier
e Brancusi (il Tempio come “sfera”)-- è ora (o è tornata a essere) una
“ghianda”, immagine molto americana (si pensi a Emerson, Thoreau) che, si
ricorderà, con una consapevolezza di rozza, nativa (americana) bellezza si
attribuiva nel 1918 all’agire poetico di “E. P.” in Hugh Selwyn Mauberley: “Wrong from the start - // No, hardly, but seeing he had been born /
In a half savage country, out of date; / Bent resolutely on wringing lilies
from the acorn” (“Ma in errore // Dal principio - no, forse, ma vedendo che era
nato / Fuor di tempo, in un paese semibarbaro; / Teso a spremere gigli dalla
ghianda”, Os 178-179) .
Esattamente cinquant’anni dopo, nel c. 116 dei Drafts and Fragments (1968), quella ghianda (o “sfera di cristallo”),
cresciuta fino a una quercia (i Cantos), restituisce la sua luce al poeta.
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[i] Ecco un
passo di The Stones of Venice: “Tutta
l’architettura di Venezia è un’architettura di incrostazione [...] il
veneziano abitualmente incrostava la sua opera di madreperla: costruiva le sue
case alla maniera di un mollusco, - scabro l’interno, madreperlacea la
superficie [...]. Si
può immaginare la pristina Venezia come una landa di mattone battuta da un mare
pietrificante fino a rivestirla di marmo: inizialmente una città scura -
sbiancata nello scacquio dalla spuma marina” (Ruskin CW 9, 323).
L’eco in Stones of Rimini è
precisa, per esempio: “Venezia stessa è un’incrostazione” (SR 16); e poco oltre: “nella fantasia le pietre di
Venezia appaiono come la pietrificazione delle onde” (SR 17).
[ii] “Pure
Sigismondo Malatesta venne ritratto da Piero in un affresco in San Francesco a
Rimini rigorosamente di profilo e inginocchiato di fronte al suo santo omonimo
in trono, il re Sigismondo di Borgogna; dietro si riposano due cani da caccia,
una mancanza di riguardo questa nei confronti della sacralità del luogo che
peraltro bene si confà a questo signore e che anche il santo sembra percepire”
(Burckhardt 2001, 320).
[iii] Anche
Henry Strater, ingaggiato da Pound per creare le lettere miniate per in “Canti
Malatestiani”, “riproduce l’affresco come esso si mostrava negli anni Venti, e
cioè completamente ridipinto. Tale operazione era avvenuta nel 1820 per mano di
Marco Capizucchi, il quale aveva reinterpretato lo sfondo come una veduta di un
cielo aperto con nubi, e aveva integrato un tappeto orientale ai piedi del
Santo. In tale stato il dipinto fu conosciuto fino alla Seconda guerra
mondiale, quando si riscoprì uno sfondo chiuso imitante un’incrostazione di
marmo e venatura nera” (Ricciardi, 1993 51).
[iv] Vale la
pena ricordare anche il più recente John Pope-Hennessy che considera
l’approccio critico di Stokes “la prima rottura del ghiaccio”, perché “riuscì a
comunicare attraverso la pagina stampata [...]
l’esperienza della tattilità fisica che è al centro della comprensione della
scultura” (Pope-Hennessy 78).
[v] “Il tempio
di pietra alleva una fiamma sacra: la pietra pure protegge la chiara pozza,
giace sotto l’humus, e lo conserva dal logoramento; per l’uomo intaglia la
collina in terrazze di pietra; egli recinge con una staccionata la pecora e le
sue stesse case: e così il perfettamente congiunto e luccicante tempio è il
punto focale per ogni forza elementale. E’ la geometrica organizzazione del
basamento [bedrock]“ (SR 77).
[vii] Le celebri
espressioni sono tratte dal saggio “Cavalcanti” da Stokes citato in nota a p.
224 stranamente depauperato dei sintagmi qui riportati: “Scrivendo sul
Medievalismo egli [Pound] afferma: ‘Sembra che noi abbiamo perduto il mondo
radiante in cui un pensiero intersecava l’altro con un taglio netto, un mondo
di mobili energie...forze magnetiche assumono forma, e diventano visibili, o
che rasentano la visibilità...’” (SR
224).
[viii] A tale
proposito l’epistolario pubblicato da Read registra una tesa discussione. Alle
obiezioni di Stokes, Pound risponderà nell’”Appendice” del 1934 al suo Gaudier-Brzeska: “Il significato di Gaudier è espresso nel suo
lavoro. E’ inutile però pensare che si possa spiegare questo significato solo
parlando del lavoro. Se non potete osservare i veri oggetti tridimensionali, le
fotografie vi daranno un’idea approssimativa del suo ‘significato’, come vi
danno un’idea approssimativa del suo lavoro. E’ persino possibile che un ben
intenzionato spettatore -- dotato di percezioni limitate -- possa studiare una
statua servendosi di fotografie, come potrebbe trovare utile un dizionario
nello studio di una lingua straniera. le foto di Stokes, nel suo Stones
of Rimini, possono aiutare un uomo che ha
già visto l’originale a vedere di ‘più’. Nessuno, però, vedrà tutto dalle foto.
Come anche il lettore d’oggi non arriverà a comprendere la distanza che separa
Brancusi e Gaudier dagli scultori minori guardando solamente le fotografie” (GB 162-163).
[ix] Qualcosa
del genere affermava Walter Pater a proposito della tecnica usata da Luca della
Robbia e dalla sua scuola, una tecnica consistente nel “reprimere tutte quelle
curve tipiche della forma solida per poi tornire l’insieme in basso rilievo”
(Pater 45).
[x] Come risulta
dalle lettere di Stokes, su Isotta fra Pound e Stokes si stabilisce una sorta
di linguaggio privato cui sembra difficile accedere (in assenza, fra l’altro,
delle lettere di Pound). Per esempio, scrive Stokes: “Sospetto che non non sei
d’accordo sul mio resoconto di Sidg e Isotta come espresso nel Tempio e a
prescindere dal Tempio. Naturalmente tornerò a Rimini” (Read 80). E qualche
tempo dopo a proposito della recensione: “So che l’hai fatta di fretta il che,
assieme al disgusto per il volto di Isotta ecc., può spiegare ogni cosa. Lo spero
moltissimo” (Read 83). Il “disgusto per il volto di Isotta” (identificata dagli
storici dell’arte nei ritratti più disparati), nasce forse dal fatto che Stokes
le attribuisce “pig-like features”. Si veda il seguente passo: “Per esempio, si
nota, che sia Diana sia Mercurio in particolare (Tavv. 44, 45) (ed il sesso di
Mercurio è dissimulato) hanno le fattezze estatiche, alquanto porcine che le
medaglie di Pisanello e di Matteo de’ Pasti, le sole autentiche raffigurazioni,
suggeriscono per Isotta: non si può esserne certi, perché il volto su queste
medaglie è di profilo. Queste fattezze maialesche sono comuni a parecchi
bassorilievi del Tempio (Tavv. 18, 29, 30, 43-47): e se consideriamo come i
poeti di Sigismondo presentavano la persona di Isotta (idealizzata nei loro
versi, comunque, oltre il punto che ci avrebbe potuto illuminare) ad ogni
possibile occasione, non sembra inverosimile che lo scultore di corte,
lavorando in ciò che era, in quel tempo, l’arte più virile, riproducesse quelle
fattezze senza eccessiva idealizzazione in tutta la serie dei rilievi, per
abitudine se non per qualche altra ragione: e non v’è dubbio che l’incantesimo
di Isotta restasse anche su Agostino, a tal punto da identificarsi col suo
padrone” (SR 232-233).
[xi] Se in The
Stones of Venice, superando la sua
avversione per il gusto rinascimentale, Ruskin riconosce la grandezza di Pietro Lombardo (citando con
ammirazione la chiesa di Santa Maria dei Miracoli e Palazzo Dario), in The
Quattro Cento Stokes sorvola l’opera di
questo scultore (per Pound, ricordiamolo, autentico “Quattro cento”), se non
quando si espone in una dichiarazione certamente molto antipoundiana: “Ma
Pietro Lombardo sarà, in parte, il ‘villain’ e il fiorentino nel momento in cui giungerò a parlare di
scultura veneziana” (QC 206).
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