Moreno Neri
Adrian Stokes: “Poeta che mi guida”
“Poeta che mi guida: non posso pensare a migliori parole che quelle di
Dante su Virgilio per descrivere Stokes come critico d’arte”.
Ha
proprio ragione il filosofo Richard Wollheim a fare tale
affermazione[i].
Adrian Stokes (1902-1972), esteta, critico, pittore e poeta londinese, con Stones
of Rimini, una chiara eco, nel titolo, di Stones of
Venice di John
Ruskin, sfida l’accreditata egemonia fiorentina per affermare, al
contrario, il valore fondamentale di centri rinascimentali come Venezia e
Rimini con il suo Tempio Matestiano e in essi guidarci, per qualche oscura e
impervia via. Sarebbero poi venute, nel
rimbalzo dell’eco, negli anni Cinquanta, Le pietre di Firenze di Mary McCarthy con il suo incipit clamoroso: “Come si fa a resistere?”. Altrettanto impressionante è l’incipit di Stokes: “I write of stone.”
Stones
of Rimini segna un
punto d’incrocio e una transizione dall’ultima concezione dell’arte vittoriana
a quella modernista, in particolar modo nell’architettura e nella scultura.
Stokes riprende, e anzi la estende, l’opinione di Ruskin e di Walter Pater che
l’arte sia essenziale al corretto sviluppo psicologico dell’individuo, ma
intesse il loro insegnamento in una nuova trama estetica, foggiata dalla
psicanalisi kleiniana e dalle recenti innovazioni nella letteratura, danza e
arti visive. È , come Le pietre di Venezia di John Ruskin o La Bibbia d’Amiens, sempre di Ruskin e tradotta da Proust, un libro basato
sull’esperienza emotiva del viaggiare e che deriva non solo da un profondo
studio tecnico, filologico, artistico e letterario, ma da quella suggestione
che soltanto il vedere può dare. Questo tipo di creatività – davvero l’affermazione
dell’occhio – è la più seducente e quella
che può ottenere i risultati migliori.
Tradotto
per la prima volta in italiano e con tutte le sue originali illustrazioni
fotografiche, come si avrà modo di vedere e leggere, uno degli aspetti
affascinanti di questo libro è la distinzione che Stokes fa tra
intaglio/modellazione, conducendoci alla scoperta della magia del Tempio
Malatestiano a Rimini in una sapiente combinazione tra studio, scrittura di
viaggio e atto di osservazione.
Saldato
a Ezra Pound nel fascino che il monumento dell’Alberti e le sculture di
Agostino di Duccio esercitarono, Pound in The Symposium affermò: “Il libro di
Stokes è un libro contro lo squallore, contro la pochezza, è un libro per la
vita intera, è veramente un libro per la ‘pietra viva’. Stokes ha inventato il
termine ‘fior di pietra’ per una necessità interiore e a causa della manifesta
qualità del suo tema”[ii].
Pochi scrittori hanno la capacità
di evocare la materiale presenza delle opere della storia dell’arte nel modo in
cui lo fa Stokes, facendole divenire reali oggetti di ispirazione e deposito
delle più profonde fantasie dell’uomo. Stokes è uno di quegli
autori capace di aprirci come un
terzo occhio con l’affermazione del suo sguardo antiche, geologiche, eppur
dimenticate interpretazioni e tali da apparire nuove attraverso quella suggestione
che soltanto una rara quotidiana dimestichezza con il “vedere” può dare.
Nella sua vita Adrian Stokes
realizzò un genere di fama che nulla ha a che fare con il successo. Nessuno dei
suoi libri fu un best-seller, ma la sua prosa, ferocemente difficile per gli
standard del tempo, afferrò l’immaginazione di alcune delle menti più
interessanti e creative del suo tempo. Tra cui pittori, poeti, architetti,
critici d’arte: Henry Moore, Barbara Hepworth, Ben Nicholson, Henry Reed, Colin
St John Wilson, William Coldstream, Elizabeth Bishop, Lawrence Gowing, Andrew
Forge; e l’elenco potrebbe continuare a lungo. Ma dopo la sua morte all’età di
70 anni, le cose sono cambiate e il suo nome è molto più noto.
Eppure i suoi libri sono conosciuti
più per “sentito dire”: sono dei solitari come fu il loro autore, titoli rari
nei cataloghi bibliotecari. Ma il 2002, centenario della sua nascita e
trentennale della morte, appare essere il rilancio, verso un pubblico più
vasto, della bellezza e dell’acutezza della sua opera: una ristampa, in edizione
economica, del Michelangelo da parte
delle edizioni Routledge Classics; un convegno di tre giorni a giugno all’Università
di Bristol, assieme ad una mostra di suoi quadri; un’altra mostra a New York in
una galleria di Manhattan; la stampa negli Stati Uniti, dopo più di trent’anni
di assenza, di un nuovo libro di Adrian Stokes The Quattro Cento
and Stones of Rimini,
ripubblicazione dei due libri in un singolo volume a cura della Penn State University Press,
distribuito in Inghilterra dalla Ashgate Press di Londra; quest’ultima casa
editrice londinese annuncia per la fine dell’anno un nuovo libro, con 30
illustrazioni, di Richard Read: Art and its discontents: the early
life of Adrian Stokes,
biografia di Adrian Stokes, mentre le edizioni Gallimard hanno in corso di
stampa la traduzione in francese di Venice.
Stones of
Rimini è anche il secondo di due libri di una ideale trilogia che
non fu mai portata a termine. Il terzo libro, mai scritto, doveva essere
interamente dedicato al Tempio Malatestiano, in maniera più approfondita del
precedente ed ispirato ai Cantos Malatestiani di Pound.
Sed tertium non datur. Il terzo libro non ci fu concesso. Ma diciamoci la
verità: con tanti studi inutili e vuoti che girano per Rimini sul Tempio, c’è
tutto il tempo per andare a recuperare questi eccentrici solitari d’altri tempi
e di studiarseli per bene. Stokes, forse coerentemente, scelse di non tentare
bilanci ulteriori e proporre prospettive, non adempì la promessa fatta di un
completo resoconto sul Tempio. E quella speranza messa a chiusa della nota
introduttiva del suo libro, con tutta evidenza, non voleva tracciare la parola
“fine”, che nemmeno Sigismondo riuscì a tracciare, ma lasciare aperta una
vicenda tuttora in corso.
Infine, non si può non parlare di prosa
ferocemente difficile riguardo Stokes. Parlando della pietra del Tempio, ci
sarà consentito di toglierci un più misero sassolino dalla scarpa, prima che
qualche imbecille locale dal sicuro radioso avvenire nel campo della riminese
“pochezza e squallore” degli studi (sic) malatestiani parli di una “traduzione
discutibile”. È gia accaduto con la mia traduzione del De differentis, basata sull’originale greco, sulla versione inglese
e quella francese, e perciò, forse, il risultato più apprezzabile in italiano
di così vari previ addendi.
Nel tradurre c’è qualcosa di perverso?
si interrogava Anceschi, come ben sa Luca Cesari a proposito di Eliot, che nel
’29 e ’30 ospitava sul suo Criterion
i saggi di Stokes che si sarebbero poi trasfusi in Stones of Rimini. E Anceschi giungeva alla conclusione su una
questione così intricata che, si sa, non si traduce mai perfettamente. A
smentita di una nuova diceria gratuita, nel presente caso l’editore Raffaelli
aveva un obbligo contrattuale con la Penn State Press, divisione della Pennsylvania State University, di
una traduzione “fedele e accurata”. Il mio “duro lavoro” di traduzione, come lo
ha definito Gloria Kury – direttrice editoriale della Penn – ha superato il vaglio della revisione
durata qualche mese. Ma resta sempre vero che uno scrittore che viene tradotto
è uno scrittore in esilio in una lingua straniera. Resta il rischio del fatto
che “tradurre è un po’ tradire”: alla fine ho esiliato me stesso quanto più
possibile, mi sono schiacciato e scacciato me stesso per primo; e ho scelto,
anche se aspramente per il lettore italiano, la resa più letterale del pensiero,
della musica, del colore e dei timbri delle pagine stokesiane, a costo di
restare stupito e straniato, talora e alle prime letture, di quanto andava
svolgendosi ed emergendo nelle mie traduzioni.
Ma così vanno le cose a Rimini. “Una
città di ciottoli stravaccata” – come la descrive Stokes – dove di unico, organico, eterno, sta il Tempio. Qualsiasi novità che venga a scardinare il
sopito “squallore” di cui parlava Pound è accolta con sfavore e dispetto
dall’asservimento del pensiero e della cultura e dalla generale imperante
decadenza. Quello con Stokes – siete avvisati – è un incontro pericoloso.
È un autore irriducibile. Come
Sigismondo era “di misura più grande del normale, era l’elefante
intrappolato nelle piccole giungle della politica italiana” e “gli equilibristi conobbero subito il loro
naturale antagonista”. Allo stesso
modo, si ha l’impressione, Stokes è stato temuto, non perché di minaccia
all’esistenza di altri studiosi del Tempio, ma perché la umiliano con la loro
presenza. A simili esseri si adatta la Massima di Goethe:
La maggioranza degli uomini non può fare a meno
degli individui superiori, eppure questi finiscono sempre per esserle d’insopportabile
peso.[iii]
Così si spiega l’assenza di una
traduzione in italiano di Stokes per quasi settant’anni. Il suo libro andava
verso la vita quando i più andavano, e vanno, verso la pochezza. È un elemento
perturbatore, il miglior attestato di qualità, dalle dimensione inadeguate e
dalle direzioni inaspettate. Uomini come lui, come Pound, liberi, autonomi,
capaci di osservazione e governo delle idee sono davvero grandezze
“elefantiache”, incommensurabili, superbamente irriducibili alle grandezze
note, non assimilabili e di conseguenza solitari e solari.
Stokes, a grandi falcate, ripercorre la
storia della critica del Tempio. Da Charles Yriarte, con il suo “gran colpo
maestro”, a Corrado Ricci, un libro
notevole ed esauriente ma “prosaic”
– prosaico, banale – alla “fissazione maniacale” di Del Piano. Se oggi Stokes potesse vedere i vacui
libri sul Tempio Malatestiano, cui fa velo al vuoto pneumatico il bel packaging e le belle illustrazioni a colori, morirebbe una
seconda volta. Dalla vergogna.
Belle illustrazioni? Non facciamoci
ingannare dall’avvento del colore. Ho il forte timore che un’attenta lettura di
Stokes, metterà nuovamente in discussione il risultato dei restauri della
scultura del Tempio. Faremo fatica oggi a riconoscere nei marmi lo splendore
dell’incarnato, i bagliori e i colori di cui parla Stokes. La pietra intagliata
richiede l’arida pomice, un duro lavoro manuale di levigatura – ricorda Stokes–. Potremmo aggiungere: non la rapidità meccanica del
flessibile. Lo diciamo con il maggior garbo possibile, ma con sconsolatezza.
Cosi è nel restauro, così è nella critica. Il Tempio richiede l’affermazione
dello sguardo, l’espressione del profondo del cuore e il lavoro della mano, non
l’ovvietà, la soluzione più semplice e meno faticosa, quella pre-confezionata
di chi la sa lunga su tutto e in una vacanza interiore nulla vede. Rispetto a
tale atteggiamento, anche noi, come Stokes, preferiremmo tenerci in disparte ed
esser di dispetto, personali, singolari, irripetibili. Così fu Pound, così fu
Stokes. Metafisici, eccentrici, magici, irrudicibili e indicibili se non da
rari omologhi. Smesse le sembianze del traduttore, schiacciato come la
confettura di frutta bronzea tra le fette di pane della massa del Tempio e
della prosa di Stokes, ne esco dilavato lettore a rimirare il “fior di pietra”.
Il carattere fortemente “conscio”, cioè
sapiente nel senso più forte della parola, della critica di Stokes spiega
ancora la sua rimozione. Non sono un critico d’arte – ma credo di aver
raggiunto un certa competenza sul Tempio. Ho la felice illusione di non
considerarmi di esso uno studioso bensì uno studente. La cui somma, e insieme
minima aspirazione, è quella di continuare a studiare dandovi conto, ogni
tanto, in momenti come questo, del risultato, ma con un lavoro a specchio che
non deve limitare sebbene meglio definire il vostro personale, libero punto di
vista e itinerario di ricerca. Virgilio che mi guida, appunto. Mi accorgo dunque di cercare di utilizzare
il metodo di Stokes. Uso la prima persona come fa Stokes – Io scrivo della
pietra – perché l’autentico, la coscienza personale, la presa di posizione non
generica non mi fa paura. Alla mia età, dove qualche consuntivo mi sarà
autorizzato, mi considero ancora una promessa anche se non del tutto sicura,
considerato lo sfondo e il fondo di letterame, millanteria e vacuità che va (e
come va). Comincio ad avere qualche medaglia da nascondere – e magari sono delle “patacche” che solo per me hanno
un valore “affettivo” – se è vero che
studiosi del Warburg Institute come Yuri Stoyanov – forse uno dei massimi
esperti di zoroastrismo nel mondo – mi ha voluto qualche mese fa nella duplice
veste di suo Cicerone e Virgilio in una visita al Tempio. Diceva Stokes: Siamo
ricondotti alla notte babilonese e
come il Caldeo allora ho battuto lo spazio attraversato dalle stelle del
Tempio.
Dunque qualcosa sulle grandi intuizioni
di Stokes sul Tempio mi preme dirla. La prima che gli studi di Charles Mitchell
gli sono, pur senza nominarlo, enormemente in debito. Il collegamento col Somnium
Scipionis e e la ora citatissima
frase di Valturio sull’esoterismo delle raffigurazioni del Tempio delicatamente
appaiono per la prima volta in Stokes. Resta ancora assolutamente da indagare
il collegamento tra Tempio e l’Urania
del Pontano. Una strada che Stokes indica ed è ancora tutta da battere, mentre
già segnalva la delusione che in tale ricerca procura l’Astronomicon di Basinio. Si vada a vedere chi l’ha pubblicato,
qualche anno fa, con dovizia di edizione – si badi bene: nulla da eccepire –,
ma testimonianza di come si preferisca battere gagliardamente i vicoli ciechi.
E intanto Stokes era meglio rimanesse “titolo raro”. Sorretto da una robusta e
raffinata architettura, “muratoria” direbbe Stokes, il libro di Stokes restava
unità dispersa, remota come stella nello spazio siderale.
Davvero
colpevole questa disattenzione verso Stokes. Soprattutto se si pensa, per
rimaner su un piano eminentemente pratico, che Stokes, Ezra Pound e Bernard
Berenson[iv],
negli anni Venti, visitavano ripetutamente la città di Rimini e il suo Tempio,
facendoli conoscere nel mondo internazionale della storia dell’arte. Di fronte
a tale mancanza di riconoscimenti e di riconoscenza, non mi stancherò di
ripetere: a loro tre va il merito morale e
intellettuale se nel dopoguerra, in una Rimini rasa al 90% dai bombardamenti,
riminesi stupiti videro ricostruire pietra per pietra il Tempio con i 65.000
dollari della Fondazione Samuel Kress. Come bollare questa mancanza, tale
elusione? Se pensiamo che Stokes, come ricorda Pound[v]
si permetteva di dire al più anziano Berenson in una mitica conferenza, nel
Tempio Malatestiano, su Piero della Francesca, ad un manipolo di ricche signore
americane impellicciate, la seguente frase “where to git off at,”. Una frase che Caterina Ricciardi ricorda in una delle ultime pagine
del suo splendido libro ΕΙΚΟΝΕΣ
– Ezra
Pound e il Rinascimento[vi], una frase
intorno alla quale ho interrogato Mary de Rachewiltz – e la ringrazio
pubblicamente per le sue parole e il suo dono porta-fortuna. Bene se un
divertito e insieme compiaciuto Berenson, che comunque è stato il più notevole
storico dell’arte perché ha girato tutta l’Italia per fare i suoi cataloghi, –
i suoi elenchi ferroviari dei pittori, come li si definisce – doveva scendere e
far posto al più preparato Stokes, cosa si dovrà dire a chi in questi anni si è
occupato del Tempio con amene futilità e circospette omissioni. Solo scendere?
Meglio: sprofondare… Pound ce l’aveva con gli usurai, ma cosa dire, oggi in
questo caso, dei velinari di professione, complici e quinte colonne, calabrache
censori per vocazione. Non dubito che questo libro darà fastidio ai gestori
trionfanti dei tempi presenti e del loro monotono borborigma dell’inutilità di
una lettura del Tempio. Innanzitutto perché è uno di quei bei libri che non
rivelano i loro segreti tutti una volta e poi perché, ancora chiosando
l’efficace frase di Pound, ci si rende conto che confrontandolo con altri libri
sullo stesso tema, pare come se questi ultimi riescano a vedere le sculture di
Agostino di Duccio ma non il Tempio, al modo di quegli osservatori che vedono
gli alberi ma non il bosco, figuriamoci la radura e la sacra fonte zampillante.
Diversamente da chi, con occhio pigro e pensiero arido, trae solo scorie di
miraggi, Stokes nella sua visione sa corteggiare nella terza parte del suo
prezioso libro – “Acqua, Pietra e Stelle” – il sacro mondo degli dei e il loro
‘influsso’
So
bene che siffatti “eroici furori” per la bellezza hanno condotto spesso al rogo
o al carcere ma gli dei, diceva Pound, in un annunciato ritorno all’età
dell’oro
Guarda,
ritornano uno per uno,
Con paura, solo a metà svegli[vii]
E rimarcava Stokes:
addirittura
ora a Rimini, proprio come il glorioso, brillantissimo sole che disperde il
buio, Febo dei più antichi giorni sorge dall’Adriatico,[viii]
Di Stokes ci sarebbe da dire molto
altro e c’è da augurarsi che ci si lavori a lungo intorno. Un’opera non dunque
perduta, ma solo rimandata. Davvero come diceva Pound il suo è un libro per
l’intera vita, è un continuum incalzante.
Leggerlo è un antidoto alla pochezza, alla scoperta di quel Tempio che è “una
mistura di letteratura e di pietra”. Ma l’ho gia detto, con altre parole, in
questa stessa sala un anno fa, quando si celebravano Ezra Pound e Sigismondo[ix].
L’ha detto, smisuratamente meglio di me, Ezra Pound nei suoi Cantos
Malatestiani. Insomma non ci sono
conclusioni: il Tempio non è stato terminato, i Cantos non sono terminati, la trilogia di Stokes neppure. Le
parole su di essi rimarrano a cielo aperto perché le parole che scambiamo con
loro non sono nostre, ci sovrastano, ci trascendono quasi. E noi lo sentiamo.
Sentiamo questa tensione ad ‘sollevare’, a ‘elevare’, a ‘ristabilire’, ma non
propriamente a ‘completare’, a ‘terminare’, a ‘concludere’.
Lo dice Stokes con Pietra, Acqua e
Stelle. La natura e l’intensità di quella luce che emana dall’oggetto-Tempio
evocato generano significato. È la visione di cosa è stato e torna sempre ad
essere, perché possibile.
In ciò, riconosco in Walter
Raffaelli una caparbia volontà di far rivivere il sentimento del bello che
tanti, troppi vorrebbero negletto e cancellato; di dare “durata”, quella
sensazione di una frazione di eternità, cui Peter Handke ha dedicato un canto.
Così attraverso questa volontà di Walter anche Rimini, distratta, sviata ma non
del tutto, con questa traduzione rende omaggio ad Adrian Stokes e lo toglie
dall’esilio in cui fu seppellito. “Nothing in writing is easier than to
raise the dead”, – niente è più
facile nello scrivere che resuscitare i morti
– come afferma Adrian Stokes in Stones of Rimini. Con la medesima mera magia del
segreto ripetersi che già l’editore Walter Raffaelli – cui vanno invero gli
applausi di prammatica che tra poco scatteranno – applicò prima a Mitchell, poi
a Giorgio Gemisto Pletone –, sorge, ora, dai recessi del Tempio di Malatesta,
un altro Lazzaro, Adrian Stokes. Il segreto della magia ce lo spiega Stokes ed
è simboleggiato in Isotta, la dea che influenzò Sigismondo… Il potere, la magia che esercita è, come ogni
seduzione femminile, quel magnetismo che anima l’uomo che vuol dirsi
tale e che ha il segno della necessità e di una vita da vivere, quella magia
erotica, quell’influsso connesso all’acqua… Hudor Et Pax… “ … l’influsso di tutta una vita …, un
simbolo talmente intenso quale mai fu concepito della vita, del rinnovamento,
dell’amore…”[x].
Montefiore, 3 agosto
2002 Moreno
Neri
[i] In The
Image in Form: Selected Writings of Adrian Stokes, Icon Editions. New
York: Harper & Row, 1972; Harmondsworth, Penguin Books, 1972.
[ii]
In realtà l’affermazione, con più precisione, è dedicata a The Quattro Cento, primo libro della prevista trilogia di Adrian
Stokes, e non già a Stones of Rimini.
[iv]
Nè andrebbero dimenticate, nello stesso periodo, le visite di Aldous Huxley, ma
anche sulle visite dell’autore della Filosofia perenne al Tempio Malatestiano, modello esemplare del nunc
eterno, è calata una coltre di colpevole e
provinciale silenzio. Ma quella religiosità chic che T. S. Eliot osservava in Huxley è del tutto
aliena agli odierni aristotelici, campioni dell’antimetafisica.
[v] Cfr. Ezra Pound and The Visual Arts, a cura di Harriet Zinnes, New York, New Directions, 1980, p. 225
[vi] CATERINA RICCIARDI, ΕΙΚΟΝΕΣ – Ezra Pound e il Rinascimento, Liguori, Napoli, 1991, pp. 321-22.
[vii] Cfr. Ezra Pound, “The Return”
in Personae: The Collected Shorter Poems of Ezra Pound , I ed. 1926, New Directions, New York, 1971.
[viii]
Adrian Stokes, Stones of Rimini,
Raffaelli Editore, Rinini, 2002, p. 241.
[ix] Cfr. AA. VV., LA CONCA DEL TEMPIO –
Ezra Pound e Sigismondo Malatesta – Atti della Tavola rotonda, Castello di
Montefiore Conca, 16 giugno 2001, Raffaelli
Editore, Rimini, 2001, pp. 39-50.
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