venerdì 22 aprile 2011

«Adrian Stokes: “Poeta che mi guida”» di Moreno Neri


Moreno Neri

Adrian Stokes: Poeta che mi guida



Poeta che mi guida: non posso pensare a migliori parole che quelle di Dante su Virgilio per descrivere Stokes come critico d’arte”.

Ha proprio ragione  il filosofo Richard Wollheim a fare tale affermazione[i]. Adrian Stokes (1902-1972), esteta, critico, pittore e poeta londinese, con Stones of Rimini, una chiara eco, nel titolo, di Stones of Venice di John Ruskin, sfida l’accreditata egemonia fiorentina per affermare, al contrario, il valore fondamentale di centri rinascimentali come Venezia e Rimini con il suo Tempio Matestiano e in essi guidarci, per qualche oscura e impervia via. Sarebbero poi venute, nel rimbalzo dell’eco, negli anni Cinquanta, Le pietre di Firenze di Mary McCarthy con il suo incipit clamoroso: “Come si fa a resistere?”. Altrettanto impressionante è l’incipit di Stokes: “I write of stone.”
Stones of Rimini segna un punto d’incrocio e una transizione dall’ultima concezione dell’arte vittoriana a quella modernista, in particolar modo nell’architettura e nella scultura. Stokes riprende, e anzi la estende, l’opinione di Ruskin e di Walter Pater che l’arte sia essenziale al corretto sviluppo psicologico dell’individuo, ma intesse il loro insegnamento in una nuova trama estetica, foggiata dalla psicanalisi kleiniana e dalle recenti innovazioni nella letteratura, danza e arti visive. È , come Le pietre di Venezia di John Ruskin o La Bibbia d’Amiens, sempre di Ruskin e tradotta da Proust, un libro basato sull’esperienza emotiva del viaggiare e che deriva non solo da un profondo studio tecnico, filologico, artistico e letterario, ma da quella suggestione che soltanto il vedere può dare. Questo tipo di creatività – davvero l’affermazione dell’occhio – è la più seducente e quella che può ottenere i risultati migliori.
Tradotto per la prima volta in italiano e con tutte le sue originali illustrazioni fotografiche, come si avrà modo di vedere e leggere, uno degli aspetti affascinanti di questo libro è la distinzione che Stokes fa tra intaglio/modellazione, conducendoci alla scoperta della magia del Tempio Malatestiano a Rimini in una sapiente combinazione tra studio, scrittura di viaggio e atto di osservazione.
Saldato a Ezra Pound nel fascino che il monumento dell’Alberti e le sculture di Agostino di Duccio esercitarono, Pound in The Symposium affermò: “Il libro di Stokes è un libro contro lo squallore, contro la pochezza, è un libro per la vita intera, è veramente un libro per la ‘pietra viva’. Stokes ha inventato il termine ‘fior di pietra’ per una necessità interiore e a causa della manifesta qualità del suo tema[ii].
Pochi scrittori hanno la capacità di evocare la materiale presenza delle opere della storia dell’arte nel modo in cui lo fa Stokes, facendole divenire reali oggetti di ispirazione e deposito delle più profonde fantasie dell’uomo. Stokes è uno di quegli autori capace di aprirci  come un terzo occhio con l’affermazione del suo sguardo antiche, geologiche, eppur dimenticate interpretazioni e tali da apparire nuove attraverso quella suggestione che soltanto una rara quotidiana dimestichezza con il “vedere” può dare.
Nella sua vita Adrian Stokes realizzò un genere di fama che nulla ha a che fare con il successo. Nessuno dei suoi libri fu un best-seller, ma la sua prosa, ferocemente difficile per gli standard del tempo, afferrò l’immaginazione di alcune delle menti più interessanti e creative del suo tempo. Tra cui pittori, poeti, architetti, critici d’arte: Henry Moore, Barbara Hepworth, Ben Nicholson, Henry Reed, Colin St John Wilson, William Coldstream, Elizabeth Bishop, Lawrence Gowing, Andrew Forge; e l’elenco potrebbe continuare a lungo. Ma dopo la sua morte all’età di 70 anni, le cose sono cambiate e il suo nome è molto più noto.
Eppure i suoi libri sono conosciuti più per “sentito dire”: sono dei solitari come fu il loro autore, titoli rari nei cataloghi bibliotecari. Ma il 2002, centenario della sua nascita e trentennale della morte, appare essere il rilancio, verso un pubblico più vasto, della bellezza e dell’acutezza della sua opera: una ristampa, in edizione economica, del Michelangelo da parte delle edizioni Routledge Classics; un convegno di tre giorni a giugno all’Università di Bristol, assieme ad una mostra di suoi quadri; un’altra mostra a New York in una galleria di Manhattan; la stampa negli Stati Uniti, dopo più di trent’anni di assenza, di un nuovo libro di Adrian Stokes The Quattro Cento and Stones of Rimini, ripubblicazione dei due libri in un singolo volume a cura della  Penn State University Press, distribuito in Inghilterra dalla Ashgate Press di Londra; quest’ultima casa editrice londinese annuncia per la fine dell’anno un nuovo libro, con 30 illustrazioni, di Richard Read: Art and its discontents: the early life of Adrian Stokes, biografia di Adrian Stokes, mentre le edizioni Gallimard hanno in corso di stampa la traduzione in francese di Venice.
Stones of Rimini è anche il secondo di due libri di una ideale trilogia che non fu mai portata a termine. Il terzo libro, mai scritto, doveva essere interamente dedicato al Tempio Malatestiano, in maniera più approfondita del precedente ed ispirato ai Cantos Malatestiani di Pound.
Sed tertium non datur. Il terzo libro non ci fu concesso. Ma diciamoci la verità: con tanti studi inutili e vuoti che girano per Rimini sul Tempio, c’è tutto il tempo per andare a recuperare questi eccentrici solitari d’altri tempi e di studiarseli per bene. Stokes, forse coerentemente, scelse di non tentare bilanci ulteriori e proporre prospettive, non adempì la promessa fatta di un completo resoconto sul Tempio. E quella speranza messa a chiusa della nota introduttiva del suo libro, con tutta evidenza, non voleva tracciare la parola “fine”, che nemmeno Sigismondo riuscì a tracciare, ma lasciare aperta una vicenda tuttora in corso.
Infine, non si può non parlare di prosa ferocemente difficile riguardo Stokes. Parlando della pietra del Tempio, ci sarà consentito di toglierci un più misero sassolino dalla scarpa, prima che qualche imbecille locale dal sicuro radioso avvenire nel campo della riminese “pochezza e squallore” degli studi (sic) malatestiani parli di una “traduzione discutibile”. È gia accaduto con la mia traduzione del De differentis, basata sull’originale greco, sulla versione inglese e quella francese, e perciò, forse, il risultato più apprezzabile in italiano di così vari previ addendi.
Nel tradurre c’è qualcosa di perverso? si interrogava Anceschi, come ben sa Luca Cesari a proposito di Eliot, che nel ’29 e ’30 ospitava sul suo Criterion i saggi di Stokes che si sarebbero poi trasfusi in Stones of Rimini. E Anceschi giungeva alla conclusione su una questione così intricata che, si sa, non si traduce mai perfettamente. A smentita di una nuova diceria gratuita, nel presente caso l’editore Raffaelli aveva un obbligo contrattuale con la Penn State Press, divisione della Pennsylvania State University, di una traduzione “fedele e accurata”. Il mio “duro lavoro” di traduzione, come lo ha definito Gloria Kury – direttrice editoriale della Penn  – ha superato il vaglio della revisione durata qualche mese. Ma resta sempre vero che uno scrittore che viene tradotto è uno scrittore in esilio in una lingua straniera. Resta il rischio del fatto che “tradurre è un po’ tradire”: alla fine ho esiliato me stesso quanto più possibile, mi sono schiacciato e scacciato me stesso per primo; e ho scelto, anche se aspramente per il lettore italiano, la resa più letterale del pensiero, della musica, del colore e dei timbri delle pagine stokesiane, a costo di restare stupito e straniato, talora e alle prime letture, di quanto andava svolgendosi ed emergendo nelle mie traduzioni.
Ma così vanno le cose a Rimini. “Una città di ciottoli stravaccata” – come la descrive Stokes – dove di unico, organico, eterno, sta il Tempio. Qualsiasi novità che venga a scardinare il sopito “squallore” di cui parlava Pound è accolta con sfavore e dispetto dall’asservimento del pensiero e della cultura e dalla generale imperante decadenza. Quello con Stokes – siete avvisati – è un incontro pericoloso. È  un autore irriducibile. Come Sigismondo era “di misura più grande del normale, era l’elefante intrappolato nelle piccole giungle della politica italiana” e “gli equilibristi conobbero subito il loro naturale antagonista”. Allo stesso modo, si ha l’impressione, Stokes è stato temuto, non perché di minaccia all’esistenza di altri studiosi del Tempio, ma perché la umiliano con la loro presenza. A simili esseri si adatta la Massima di Goethe:

La maggioranza degli uomini non può fare a meno degli individui superiori, eppure questi finiscono sempre per esserle d’insopportabile peso.[iii]

Così si spiega l’assenza di una traduzione in italiano di Stokes per quasi settant’anni. Il suo libro andava verso la vita quando i più andavano, e vanno, verso la pochezza. È un elemento perturbatore, il miglior attestato di qualità, dalle dimensione inadeguate e dalle direzioni inaspettate. Uomini come lui, come Pound, liberi, autonomi, capaci di osservazione e governo delle idee sono davvero grandezze “elefantiache”, incommensurabili, superbamente irriducibili alle grandezze note, non assimilabili e di conseguenza solitari e solari.
Stokes, a grandi falcate, ripercorre la storia della critica del Tempio. Da Charles Yriarte, con il suo “gran colpo maestro”, a Corrado Ricci, un libro notevole ed esauriente ma “prosaic” – prosaico, banale – alla “fissazione maniacale” di Del Piano. Se oggi Stokes potesse vedere i vacui libri sul Tempio Malatestiano, cui fa velo al vuoto pneumatico il bel packaging e le belle illustrazioni a colori, morirebbe una seconda volta. Dalla vergogna.
Belle illustrazioni? Non facciamoci ingannare dall’avvento del colore. Ho il forte timore che un’attenta lettura di Stokes, metterà nuovamente in discussione il risultato dei restauri della scultura del Tempio. Faremo fatica oggi a riconoscere nei marmi lo splendore dell’incarnato, i bagliori e i colori di cui parla Stokes. La pietra intagliata richiede l’arida pomice, un duro lavoro manuale di levigatura – ricorda Stokes–. Potremmo aggiungere: non la rapidità meccanica del flessibile. Lo diciamo con il maggior garbo possibile, ma con sconsolatezza. Cosi è nel restauro, così è nella critica. Il Tempio richiede l’affermazione dello sguardo, l’espressione del profondo del cuore e il lavoro della mano, non l’ovvietà, la soluzione più semplice e meno faticosa, quella pre-confezionata di chi la sa lunga su tutto e in una vacanza interiore nulla vede. Rispetto a tale atteggiamento, anche noi, come Stokes, preferiremmo tenerci in disparte ed esser di dispetto, personali, singolari, irripetibili. Così fu Pound, così fu Stokes. Metafisici, eccentrici, magici, irrudicibili e indicibili se non da rari omologhi. Smesse le sembianze del traduttore, schiacciato come la confettura di frutta bronzea tra le fette di pane della massa del Tempio e della prosa di Stokes, ne esco dilavato lettore a rimirare il “fior di pietra”.
Il carattere fortemente “conscio”, cioè sapiente nel senso più forte della parola, della critica di Stokes spiega ancora la sua rimozione. Non sono un critico d’arte – ma credo di aver raggiunto un certa competenza sul Tempio. Ho la felice illusione di non considerarmi di esso uno studioso bensì uno studente. La cui somma, e insieme minima aspirazione, è quella di continuare a studiare dandovi conto, ogni tanto, in momenti come questo, del risultato, ma con un lavoro a specchio che non deve limitare sebbene meglio definire il vostro personale, libero punto di vista e itinerario di ricerca. Virgilio che mi guida, appunto. Mi accorgo dunque di cercare di utilizzare il metodo di Stokes. Uso la prima persona come fa Stokes – Io scrivo della pietra – perché l’autentico, la coscienza personale, la presa di posizione non generica non mi fa paura. Alla mia età, dove qualche consuntivo mi sarà autorizzato, mi considero ancora una promessa anche se non del tutto sicura, considerato lo sfondo e il fondo di letterame, millanteria e vacuità che va (e come va). Comincio ad avere qualche medaglia da nascondere – e magari sono delle “patacche” che solo per me hanno un valore “affettivo” – se è vero che studiosi del Warburg Institute come Yuri Stoyanov – forse uno dei massimi esperti di zoroastrismo nel mondo – mi ha voluto qualche mese fa nella duplice veste di suo Cicerone e Virgilio in una visita al Tempio. Diceva Stokes: Siamo ricondotti alla notte babilonese e come il Caldeo allora ho battuto lo spazio attraversato dalle stelle del Tempio.
Dunque qualcosa sulle grandi intuizioni di Stokes sul Tempio mi preme dirla. La prima che gli studi di Charles Mitchell gli sono, pur senza nominarlo, enormemente in debito. Il collegamento col Somnium Scipionis e e la ora citatissima frase di Valturio sull’esoterismo delle raffigurazioni del Tempio delicatamente appaiono per la prima volta in Stokes. Resta ancora assolutamente da indagare il collegamento tra Tempio e l’Urania del Pontano. Una strada che Stokes indica ed è ancora tutta da battere, mentre già segnalva la delusione che in tale ricerca procura l’Astronomicon di Basinio. Si vada a vedere chi l’ha pubblicato, qualche anno fa, con dovizia di edizione – si badi bene: nulla da eccepire –, ma testimonianza di come si preferisca battere gagliardamente i vicoli ciechi. E intanto Stokes era meglio rimanesse “titolo raro”. Sorretto da una robusta e raffinata architettura, “muratoria” direbbe Stokes, il libro di Stokes restava unità dispersa, remota come stella nello spazio siderale.
Davvero colpevole questa disattenzione verso Stokes. Soprattutto se si pensa, per rimaner su un piano eminentemente pratico, che Stokes, Ezra Pound e Bernard Berenson[iv], negli anni Venti, visitavano ripetutamente la città di Rimini e il suo Tempio, facendoli conoscere nel mondo internazionale della storia dell’arte. Di fronte a tale mancanza di riconoscimenti e di riconoscenza, non mi stancherò di ripetere: a loro tre va il merito morale e intellettuale se nel dopoguerra, in una Rimini rasa al 90% dai bombardamenti, riminesi stupiti videro ricostruire pietra per pietra il Tempio con i 65.000 dollari della Fondazione Samuel Kress. Come bollare questa mancanza, tale elusione? Se pensiamo che Stokes, come ricorda Pound[v] si permetteva di dire al più anziano Berenson in una mitica conferenza, nel Tempio Malatestiano, su Piero della Francesca, ad un manipolo di ricche signore americane impellicciate, la seguente frase  “where to git off at,”. Una frase che Caterina Ricciardi ricorda in una delle ultime pagine del suo splendido libro ΕΙΚΟΝΕΣ Ezra Pound e il Rinascimento[vi], una frase intorno alla quale ho interrogato Mary de Rachewiltz – e la ringrazio pubblicamente per le sue parole e il suo dono porta-fortuna. Bene se un divertito e insieme compiaciuto Berenson, che comunque è stato il più notevole storico dell’arte perché ha girato tutta l’Italia per fare i suoi cataloghi, – i suoi elenchi ferroviari dei pittori, come li si definisce – doveva scendere e far posto al più preparato Stokes, cosa si dovrà dire a chi in questi anni si è occupato del Tempio con amene futilità e circospette omissioni. Solo scendere? Meglio: sprofondare… Pound ce l’aveva con gli usurai, ma cosa dire, oggi in questo caso, dei velinari di professione, complici e quinte colonne, calabrache censori per vocazione. Non dubito che questo libro darà fastidio ai gestori trionfanti dei tempi presenti e del loro monotono borborigma dell’inutilità di una lettura del Tempio. Innanzitutto perché è uno di quei bei libri che non rivelano i loro segreti tutti una volta e poi perché, ancora chiosando l’efficace frase di Pound, ci si rende conto che confrontandolo con altri libri sullo stesso tema, pare come se questi ultimi riescano a vedere le sculture di Agostino di Duccio ma non il Tempio, al modo di quegli osservatori che vedono gli alberi ma non il bosco, figuriamoci la radura e la sacra fonte zampillante. Diversamente da chi, con occhio pigro e pensiero arido, trae solo scorie di miraggi, Stokes nella sua visione sa corteggiare nella terza parte del suo prezioso libro – “Acqua, Pietra e Stelle” – il sacro mondo degli dei e il loro ‘influsso’
So bene che siffatti “eroici furori” per la bellezza hanno condotto spesso al rogo o al carcere ma gli dei, diceva Pound, in un annunciato ritorno all’età dell’oro

Guarda, ritornano uno per uno,
Con paura, solo a metà svegli[vii]


E rimarcava Stokes:

addirittura ora a Rimini, proprio come il glorioso, brillantissimo sole che disperde il buio, Febo dei più antichi giorni sorge dall’Adriatico,[viii]

Di Stokes ci sarebbe da dire molto altro e c’è da augurarsi che ci si lavori a lungo intorno. Un’opera non dunque perduta, ma solo rimandata. Davvero come diceva Pound il suo è un libro per l’intera vita, è un continuum incalzante. Leggerlo è un antidoto alla pochezza, alla scoperta di quel Tempio che è “una mistura di letteratura e di pietra”. Ma l’ho gia detto, con altre parole, in questa stessa sala un anno fa, quando si celebravano Ezra Pound e Sigismondo[ix]. L’ha detto, smisuratamente meglio di me, Ezra Pound nei suoi Cantos Malatestiani. Insomma non ci sono conclusioni: il Tempio non è stato terminato, i Cantos non sono terminati, la trilogia di Stokes neppure. Le parole su di essi rimarrano a cielo aperto perché le parole che scambiamo con loro non sono nostre, ci sovrastano, ci trascendono quasi. E noi lo sentiamo. Sentiamo questa tensione ad ‘sollevare’, a ‘elevare’, a ‘ristabilire’, ma non propriamente a ‘completare’, a ‘terminare’, a ‘concludere’.
Lo dice Stokes con Pietra, Acqua e Stelle. La natura e l’intensità di quella luce che emana dall’oggetto-Tempio evocato generano significato. È la visione di cosa è stato e torna sempre ad essere, perché possibile.
In ciò, riconosco in Walter Raffaelli una caparbia volontà di far rivivere il sentimento del bello che tanti, troppi vorrebbero negletto e cancellato; di dare “durata”, quella sensazione di una frazione di eternità, cui Peter Handke ha dedicato un canto. Così attraverso questa volontà di Walter anche Rimini, distratta, sviata ma non del tutto, con questa traduzione rende omaggio ad Adrian Stokes e lo toglie dall’esilio in cui fu seppellito. “Nothing in writing is easier than to raise the dead”, – niente è più facile nello scrivere che resuscitare i morti – come afferma Adrian Stokes in Stones of Rimini. Con la medesima mera magia del segreto ripetersi che già l’editore Walter Raffaelli – cui vanno invero gli applausi di prammatica che tra poco scatteranno – applicò prima a Mitchell, poi a Giorgio Gemisto Pletone –, sorge, ora, dai recessi del Tempio di Malatesta, un altro Lazzaro, Adrian Stokes. Il segreto della magia ce lo spiega Stokes ed è simboleggiato in Isotta, la dea che influenzò Sigismondo… Il potere, la magia che esercita è, come ogni seduzione femminile, quel magnetismo che anima l’uomo che vuol dirsi tale e che ha il segno della necessità e di una vita da vivere, quella magia erotica, quell’influsso connesso all’acqua… Hudor Et Pax… … l’influsso di tutta una vita …, un simbolo talmente intenso quale mai fu concepito della vita, del rinnovamento, dell’amore…[x].



Montefiore, 3 agosto 2002                                                                                       Moreno Neri





[i] In The Image in Form: Selected Writings of Adrian Stokes, Icon Editions. New York: Harper & Row, 1972; Harmondsworth, Penguin Books, 1972.
[ii] In realtà l’affermazione, con più precisione, è dedicata a The Quattro Cento, primo libro della prevista trilogia di Adrian Stokes, e non già a Stones of Rimini.
[iii] Johann Wolfgang Goethe, Massime.
[iv] Nè andrebbero dimenticate, nello stesso periodo, le visite di Aldous Huxley, ma anche sulle visite dell’autore della Filosofia perenne al Tempio Malatestiano, modello esemplare del nunc eterno, è calata una coltre di colpevole e provinciale silenzio. Ma quella religiosità chic che T. S. Eliot osservava in Huxley è del tutto aliena agli odierni aristotelici, campioni dell’antimetafisica.
[v] Cfr. Ezra Pound and The Visual Arts, a cura di Harriet Zinnes, New York, New Directions, 1980, p. 225
[vi] CATERINA RICCIARDI, ΕΙΚΟΝΕΣ – Ezra Pound e il Rinascimento, Liguori, Napoli, 1991, pp. 321-22.
[vii] Cfr. Ezra Pound, “The Return” in Personae: The Collected Shorter Poems of Ezra Pound , I ed. 1926, New Directions, New York, 1971.
[viii] Adrian Stokes, Stones of Rimini, Raffaelli Editore, Rinini, 2002, p. 241.
[ix]  Cfr. AA. VV., LA CONCA DEL TEMPIO – Ezra Pound e Sigismondo Malatesta – Atti della Tavola rotonda, Castello di Montefiore Conca, 16 giugno 2001, Raffaelli Editore, Rimini, 2001, pp. 39-50.
[x] Adrian Stokes, Op. cit., p. 231

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