Il testo della mia comunicazione Il sogno di Gemisto Pletone è da tempo su internet.
Ospitato dal sito web dell'Associazione Culturale Bisanzio www.imperobizantino.it/
può essere scaricato in pdf a questo link e - scopro solo ora - anche a quest'altro link
e ancora in alcuni altri siti che non vale la pena menzionare.
Ad ogni buon conto lo ripropongo in questo post.
Il sogno di Gemisto Pletone
(testo e immagini* della comunicazione del 13 ottobre 2001 svolta al Convegno di Studi “SIMBOLI TRATTI DAI PIU’ OCCULTI PENETRALI DELLA FILOSOFIA…”: IL TEMPIO DEI MALATESTA: ERMETISMO E PLATONISMO NEL RINASCIMENTO – Sala del Giudizio – Museo della Città di Rimini, promosso dal Circolo Culturale "Giovanni Venerucci")
* Le immagini che seguono sono le stesse proiettate durante la
comunicazione
La
storia di una cultura è la storia di idee che diventano azione. Qualunque cosa
i platonici o altri mistici abbiano sentito, hanno potuto sporadicamente
disporre di energie misurabili in parole e azioni, assai prima che i medici
moderni misurassero le onde elettriche del cervello di soggetti patologici.
Essi svilupparono anche terminologie e comunicarono fra di loro. E non vi è
campo in cui lo storico accurato possa più facilmente prendere cantonate che
nel cercare di trattare di simili fenomeni, sia per magnificarli che per
negarli. Non vi è neppure alcun dubbio che i Platonici, tutti i Platonici e
ogni Platonico, disturbino o disturbi persone dall’intelletto cauto e ordinato.
Gemisto portò in Italia una varietà di Platonismo, e si reputa che abbia dato
inizio a una rinascenza.
Ezra Pound
Mi si
scuserà se, anch’io, ho dato inizio a questa relazione con una citazione di
Ezra Pound, tratta dalla sua Guida alla Cultura, ma il tema che oggi affronto è, in un certo modo,
un’ideale continuazione di quanto ho già detto nella tavola rotonda su “Ezra
Pound e Sigismondo Malatesta”, svoltasi a Montefiore Conca il 16 giugno scorso.
Attenti a
non prendere le cantonate che paventava Pound, dietro l’angolo anche per lo
storico accurato, quel che è certo è che il platonismo ha sempre avuto il
ruolo, nella storia delle idee, di far rinascere una trasfigurazione di senso e si può ragionevolmente
affermare che esso, correttamente inteso, ha sempre avuto il compito, spesso
silenzioso, di trasmettere taluni sistemi di sapere in via d’estinzione, non
solo per imporre il semplice risarcimento della memoria del mito e del simbolo,
ma per ri-orientare il sapere.
Proprio nel momento in cui da un lato la spinta dell’Islam minacciava di
seppellire un sapere tradizionale, dall’altro la mancanza di libertà propugnata
dalla Chiesa Cattolica collegata ad un sempre più atroce potere temporale,
dall’altro lato ancora la rapacità latifondista della Chiesa Ortodossa che fu
tra le non ultime ragioni della disfatta di Costantinopoli, quello di Pletone
di trasferire in Italia, e quindi in Europa, e via via nell’intero Occidente,
il modello dell’Accademia platonica e della sua Accademia di Mistrà è stato
allora l’ultimo lucido tentativo della Grecia di affrancare l’uomo dal rispetto
dell’ordine sclerotizzato, pesante, materiale, dal vecchiume della Scolastica e
di sperimentare la libertà, sciogliendo l’anima dalle domande troppo chiare,
dalle risposte troppo facili, dalle soluzioni troppo semplici ed evidenti.
Un nuovo
mondo rinasce con le parole di Pletone nel 1438. Quello di Pitagora e Platone,
quello degli antichi dei che ne fanno un iniziato e lo ispirano, facendolo
comunicare con altri mondi. Per oltre venticinque secoli, le comunità
iniziatiche sono vissute all’ombra di Maestri come lui che hanno insegnato a
coniugare le idee con l’azione e la ricerca appassionata del Vero, del Giusto e
del Bello, del Sommo Bene, dell’Uno, del Sole. Accademie greche e latine hanno
conservato e continuato questo lascito. Le Accademie italiane ed europee del XV
e XVI secolo, suscitate da Pletone, e quindi le sapienti comunità dell’Età dei
lumi e della Rivoluzione americana e francese hanno tentato di mantenere,
cercando in comune una verità, almeno un barlume di quella luce. Col
Risorgimento rinasce quella spinta nazionalista propugnata da Pletone in Grecia
e da Machiavelli in Italia. Dove c’è RI, c’è dunque quella rivoluzione astrologica, quella
palingenesi pitagorica che Pletone ben conosceva.
Non vorrei
che quelle di Pound fossero considerate fantasie, cosi come quelle di Del Piano
e di Mitchell. Ma non ci si potrà sottrarre dall’impressione che di quei
cercatori di splendore, restino timide ed elusive apparizioni di una comunità
che vive nella Tradizione come fosse il suo presente. Certo meno percettibili,
oggi che al tempo di Pound, ancora vivono quei gruppi esoterici di poeti, di
artisti e di veggenti che ancora nel secolo scorso ispiravano la letteratura e
le arti. E forse mentre ci affliggiamo per la loro scomparsa, in questo
medesimo tempo riprendono vigore a poco a poco nel silenzio. Il tema del RI, —si
diceva—, della renovatio è
prettamente legato alla cultura astrologica. Forse non ci sono distanti le
epoche in cui si credeva che il passato rinascesse in esse e che i greci
rivivessero nelle pietre, nei dipinti e nelle parole degli artefici del
Rinascimento. Ancora, per taluno, quelle terminologie hanno un senso, esse
comunicano, entrano in rapporto con noi, vivono con noi, abitano il tempo che
ci è concesso e rivolgiamo loro le domande che vorremmo rivolgere a noi stessi.
Se la mente dello storico si allarga, se non si incaglia nelle secche degli
angoli senza uscita, se sa intrecciare le dimensioni dello spazio e del tempo
apparentemente più disparate, ritroverà l’unità nel molteplice, l’identico nel
dissimile, e cancellerà una volta per tutte l’opposizione tra futuro e passato.
Pletone credeva nell’armonia del mondo. A determinate ore del giorno e della
notte i suoi occhi si alzavano verso l’invisibile città celeste e l’Olimpo
degli dei. Mentre altri vi scorgevano un informe tappeto blu punteggiato di
barlumi, Pletone e i suoi discepoli vi scorgevano un altro spettacolo. Intorno
al Sole, come ci informa Macrobio, “che sta in trono sopra gli altri e li regge e li guida”, astri e costellazioni formano un tessuto dal quale derivano tutti i
tessuti terreni.
Per quanto
possa sembrare assurdo, ancor oggi c’è qualcuno che vive come se credesse
nell’armonia del mondo. Sono viandanti, ospiti che ancora abitano il mondo di
quaggiù e che ancora non cedono. Malgrado tutto, il sogno resiste.
Piero della Francesca, San Sigismondo e Sigismondo Pandolfo Malatesta, Tempio Malatestiano, Rimini.
Certamente
Sigismondo gli è stato l’uomo più devoto. Sigismondo, certamente, come dice
Adrian Stokes era “oversize” fuor
di misura, ma nella Città seppe mantenere le proporzioni. A Rimini dopo Arco e
Ponte, dell’età d’oro romana di Virgilio, sotto il solare Granchio pose il
Castello e il Tempio. Realizza, non con la meditazione ma con l’opera, il Sé
spirituale in un concreto e totale esercizio di psicosintesi. Roberto Assaggioli
ci insegna: “Titurel trova e sceglie i
suoi collaboratori e crea così il Gruppo e ne dirige le attività. Questo è un
simbolo della psicosintesi interindividuale. In collaborazione, i Cavalieri
costruiscono il Castello e il Tempio; il Castello è un simbolo di potenza,
mentre il Tempio è il simbolo dell’aspetto religioso, dell’Amore, il luogo di
comunione con lo Spirito…il Castello viene costruito a difesa contro gli
attacchi ostili dell’intero territorio scelto quale dimora dei Cavalieri;
mentre il Tempio è il luogo dove essi compiono le loro cerimonie… Il Castello
rappresenta l’aspetto umano ed il rapporto col mondo esterno, e il Tempio
rappresenta la vita interiore e la sorgente dell’ispirazione per le attività
esterne.”
Quando
Sigismondo dispera di poter portare a termine la sua sala di meditazione, il
Tempio – e quale Tempio, del resto è terminato?— vi pone come sigillo all’opera
inconclusa il simbolo del Maestro, dell’Iniziatore: vi ospita le ceneri del
Principe dei Filosofi, dell’altro Platone.
Resti di Giorgio Gemisto Pletone, nel 1756 (dal Campione del Righini)
Pletone, dunque, iniziatore del Rinascimento: è vero. Tutto questo è vero, ma il diretto contributo di
Pletone allo sviluppo della nostra cultura occidentale europea, anche in
superficie, fu molto più di questo. La sua presenza, infatti, pervade
enormemente ed insieme sottilmente i più potenti impulsi creativi di cultura
che il nostro Rinascimento è riuscito a trasmetterci. Pletone pare aver davvero
operato un sortilegio, una magia. Dovremmo averne la visione oltremodo
platonica di un sole benefico che con la sua radiosità ogni cosa che tocca
trasforma, muta, fa crescere, cambia. Effettivamente è come se con il suo breve
passaggio in Occidente, Pletone, come un Dio umano o un tessitore divino, abbia
intrecciato i fili di un modello di idee che gradualmente potessero, come un
enzima, penetrare e trasformare la nostra coscienza, la coscienza dell’Europa e
quella dell’Occidente. Queste idee sono come dettagli ricordati del suo sogno:
suggestivo, ma non necessariamente comprensibile come una totalità. Forse
perché l’Idea di Pletone, come quella di Platone e come l’Uno di Pitagora,
sotto un certo aspetto, è un sogno, è la ragione per cui si è scordato Pletone.
Forse perché il suo destino era quello di rimanere un’ombra, come nell’apologo
della caverna di Platone, per il volgo di cui ci parla Valturio, ed esser di
luce solo per pochi. Quelli che appena svegliati sanno ritenere il sogno, se lo
appuntano e ne sanno fruttare gli insegnamenti contenuti, l’Idea, quegli
archetipi che rinviano all’unicità di Dio, alla sua cura per l’Umanità,
all’immortalità dell’anima.
Piero della Francesca, Flagellazione (particolare). L’uomo in primo piano a sinistra è Bessarione.
L’elenco dei protagonisti del
Rinascimento, toccati da Pletone, direttamente o indirettamente, e che ne
seppero ritenere i particolari del sogno, è sterminato ed ognuna di queste
feconde relazioni richiederebbe una conferenza di per sé. S’accennava a Machiavelli
il cui disegno di nazione italiana ha notevoli punti di contatto con
l’aspirazione ad una nazione greca del filosofo di Mistrà. Tocca Paolo
Toscanelli Del Pozzo e di conseguenza Cristoforo Colombo: si superano le
colonne d’Ercole della Scolastica e si scopre l’America; da allora l’Uomo non
navigherà più sotto costa, ma sarà capace di slanciarsi nell’oceano
sconosciuto. Illustra il segreto pitagorico dell’eliocentrismo, già
doviziosamente scritto nel Commento al Sogno di Scipione di Macrobio e replicato in
pietra nella Cappella dei Pianeti del Tempio: sarà la volta dopo poco più d’un
secolo e meno di due, di Copernico, Keplero e Giordano Bruno. Tocca
direttamente Cosimo De’ Medici ed indirettamente Marsilio Ficino, Pico della
Mirandola, Campanella fino a Giordano Bruno. Lorenzo Valla viene toccato quantomeno dal De differentiis e non scrive solo le Dialecticae Disputationes, ma anzi arriva a denunciare l’illegittimità del
potere temporale del Papato basato su di una falsa “Donazione di Costantino”. Straordinario come l’effetto di un opus alchemico è l’incontro con Nicola da Cusa: il
Cusano, già platonista profondo ed amico degli umanisti italiani, è sulla
stessa nave della flotta della delegazione Orientale in viaggio al Concilio di
Ferrara-Firenze. Cosa si dissero Gemisto e Nicola non è conosciuto. Ma per
stessa ammissione del Cusano fu allora che ricevette l’ispirazione per il suo
grande lavoro, De Docta Ignorantia, e pure per il resto della sua opera. Sulla nave con Pletone intuì
l’onnipresenza della trascendenza, la coincidenza degli opposti, la
riconciliazione di mondi diversi (religioni diverse, filosofie diverse), e
così, attraverso le idee implicite e centrali nella prospettiva di Pletone,
scardinò il chiuso mondo aristotelico con un influenza che tocca Bruno,
Copernico e poi ancora Leibniz. Nascono Accademie, simili a quelle di
Mistrà, a Rimini subito – anzi in contemporanea nello stesso 1406, ma questo non è il nostro soggetto—, e
poi a Firenze a Careggi, a Napoli la Pontaniana, a Roma la Romana con Pomponio
Leto e il Platina, amico degli ultimi giorni di Sigismondo, e poi la
Vitruviana, che emigrerà a Vicenza, e quella di Bessarione, prima a Roma e poi
a Venezia, da cui scenderà quella di Aldo Manuzio, il nostro primo grande
editore a stampa.
Benozzo
Gozzoli. Il corteo dei magi (particolare), 1459. Palazzo Medici-Riccardi., Firenze.
La figura in basso a sinistra è identificata con Sigismondo Pandolfo Malatesta. La figura barbuta al centro non identificata potrebbe essere verosimilmente Giorgio Gemisto.
Quanti nomi nell’arte si potrebbero fare: direttamente
da Leon Battista Alberti a Piero della Francesca che non si spiega senza
Bessarione e quindi senza Pletone, indirettamente da Benozzo Gozzoli a
Botticelli, da Leonardo a Giorgione fino a Dürer, dal Palladio arrivando fino a
Christopher Wren in Inghilterra. Basterebbe chiuder gli occhi, puntare un dito
sull’indice dei nomi d’un tomo sul Rinascimento e a colpo quasi sicuro si potrà
dire: era dell’Accademia. Arriva Pletone ed è tutto un fiorire di corsa ai
libri—Platone, Plotino, Porfirio, Giamblico, Plutarco, Psello e via andare —,
di copie passate di mano in mano, prestate, tradotte, prima ricopiate a mano e
poi stampate con i torchi marchiati col delfino di Manuzio – gli stessi gioiosi
delfini che già eran nel Tempio. Con i lasciti a Firenze dei Medici e a Venezia
di Bessarione, prendon vita le prime biblioteche pubbliche, la Laurenziana e la
Marciana. Davvero nel sogno di Pletone esiste la promessa di migliaia di
manifestazioni. I frammenti del suo sogno sono come i semi d’un frutto, ne
possiamo contare il numero, ma faticheremo a contare il numero dei frutti
d’ogni seme, perché in ognuno esiste la potenza di molteplici manifestazioni.
Davvero l’arrivo di Gemisto in Italia per il Concilio ha un carattere, come lo
definisce Garin, “epocale”, ma della sua trasmissione d’idee possiamo coglierne
solo innumerevoli e svariati riflessi.
Cristofano
dell’Altissimo (di Papi): “Giorgio Gemisto Pletone” olio su tavola, 61x45, 1570
ca. - Firenze, Galleria degli
Uffizi. (archiviato con la seguente nota: “Scritta: in alto ‘Plato’. Filosofo
greco, consigliere di Giovanni VIII Paleologo durante il Concilio di Firenze
(1439). Egli vagheggiava l’unità universale delle chiese.”)
Dopo questo compendio non vi
parlerò della vita e delle opere di Pletone. Pletone non merita un ‘bignamino’.
Lo si deve accostare, per quanto s’è detto, con devozione. E comunque in ogni
caso non avremo la totalità del suo pensiero, perché la sua più importante
opera, le Leggi, fu messa al rogo dalla furia religiosa. Dietro ogni libro c’è un uomo,
ma l’escandescenza intermittente inaugurata da quell’oltranzista
antiscientifico di Paolo ad Efeso con il primo minaccioso rogo di libri, fu la
luce nera a Bisanzio come a Roma. Per lenire il Fahrenheit 451, la temperatura
alla quale come ci hanno insegnato Bradbury e Truffaut brucia la carta, intanto
vanno letti i suoi libri, quelli che ci restano, che l’editore Walter Raffaelli
ha cominciato a pubblicare, magari preceduti a mo’ d’introduzione dalle
“Raffigurazioni del Tempio” di Charles Mitchell, uno studioso del Warburg
Institute. Di Pletone parleremo ancora in questa stessa sala il 10 novembre con
Walter in occasione della presentazione alla Città del De differentiis, ed ancora il 22 giugno a
Montefiore in un convegno di studi organizzato dal Rito Simbolico. Come ho
scritto nell’esergo estrapolando una frase di Edgar Wind, un altro studioso del
Warburg: I misteri pagani rinascimentali furono concepiti per iniziati: richiedono quindi
un’iniziazione.
Questo esige Pletone, più volte definito mistagogo, maestro di iniziati. E ci
saranno forse altre occasioni, se l’Assessorato alla Cultura di Rimini, la
Biblioteca vorranno adeguatamente ricordarlo nel 2002 in occasione del 550°
della sua morte. Vi saranno, infine, altre opportunità da qui al 2004, in
occasioni delle Olimpiadi della Cultura in Grecia, se avrà seguito l’ipotizzato
gemellaggio con Mistrà.
Dunque, se è sorprendente
l’accurata visione di Pound, l’intuizione ben assai precedente al Mitchell,
esposta nei versi dei Cantos: Gemisto faceva nascere tutto da Nettuno/ da qui i
bassorievi del Tempio, resteremo il prossimo anno altrettanto colpiti dalla prima traduzione
di Stones of
Rimini di
Adrian Stokes, sempre edita da Walter Raffaelli, dove tornerà il tema
dell’acqua associato a quello della pietra, nel modo volutamente criptico del
dispiegare dei simboli del Tempio. Adrian Stokes, assieme a Bernard Berenson e
Ezra Pound, i tre grandi nomi che negli anni venti del Novecento visitavano il
Tempio. A loro tre va attribuita la conoscenza internazionale del Tempio. A
loro il merito se nel dopoguerra, in una Rimini rasa al 90% dai bombardamenti,
riminesi stupiti videro ricostruire pietra per pietra il Tempio con i 65.000 dollari
della Fondazione Samuel Kress.
Il
Tempio Malatestiano dopo i bombardamenti subiti tra il dicembre 1943 e il
giugno 1944. Foto D. Minghini
Vi erano venuti sulla scorta del
libro del 1882 di Charles Yriarte, in una Rimini che continuava ad essere
ignara del tesoro d’arte e di simboli che ospitava. Quell’Yriarte che definiva,
senza peli sulla lingua, Pletone “una delle fiaccole dell’umanità”. Come si sia perduta la vista
di questa fiaccola , perché resti nascosta –avrebbe detto Valturio — è forse
proprio perché la maggioranza è ancora aristotelica, sofista – avrebbe detto
Pletone —, e, in ultima analisi, anche laddove cristiana, porta in sé – avrebbe
ancora detto Pletone – i germi del materialismo ateo.
Bisogna essere dei poeti con occhi
siderei come Pound, avere lo sguardo di Stokes, la precisione di studi di
Giovanni Gentile, di Bohdan Kieskowski, di François Masai, di Cristopher
Montague Woodhouse, di Eugenio Garin, di Bernadette Lagarde, di Steven Runciman
e di James Hankins. Necessitano anche gli strumenti dell’interpretazione
iconologica per capire qualcosa del Tempio: quindi Aby Warburg, Jean Seznec, i
già citati Charles Mitchell ed Edgar Wind, l’indimenticata Frances Amelia Yates
per cominciare a capire e a carpire qualche tratto dell’Idea del Tempio e di
Pletone. Occorrerà la raffinatezza interpretativa di André Chastel, di Maurizio
Calvesi. Bisogna avere la diuturna costanza dei particolari studi sul
bizantinismo e su Bessarione di Silvia Ronchey e nell’intervallo intervistare
James Hillman. Ci vorrebbe davvero l’epistrophè invocata da Hillman, per
cogliere il nesso tra i simboli antichi del tempio e l’immaginazione per
dimostrare quanto sia vana la fuga dagli dei e invece “camminare con gli dei”
come già ci insegnava Walter Friedrich Otto. Dal furore quasi maniacale, à la
manière de Edouard Schuré di Giuseppe Del Piano si passerà all’eleganza fin
troppo accurata di Elémire Zolla per uscire dallo spazio che su di noi hanno
incurvato secoli di aristotelismo, si giungerà alla meraviglia della natura
nelle pietre intagliate nel Tempio, tra essi vi s’incontrerà l’androgino e
l’esperienza della completezza erotica sintetizzata simbolicamente nella sigla
malatestiana.
Scrive Stokes: Sigismondo aveva bisogno di questi simboli di questo santuario,
forse perché cercava e non sapeva trovare una stella guida o un amore degno del
suo senso istrionico e dei suoi antenati; o più probabilmente, in parte a causa
di ciò, e, in parte, perché amava sinceramente Isotta e avvertiva la dea in
lei. In ogni caso la scultura del Tempio magnifica il vincolo tra essi, un
lodato scudo per fermare il mondo esterno come pure un marchio per provocare il
suo brutto orrore religioso.
Pedro Burruguete (1450-1504). Il rogo dei libri.
Quell’orrore che provocava la distruzione del libro di
Pletone e la scomunica di Sigismondo. Pari fu lo scandalo nel 1478 quando un
frate camaldolese entrato in Santa Maria degli Angeli, a Firenze trovò Marsilio
Ficino, che dava pubblica lettura della prima traduzione di Plotino—la stessa
introdotta dall’omaggio a Pletone come ispiratore dell’Accademia fiorentina—, a
testimonianza che il platonismo era penetrato nella vita di un’epoca con tutta
la carica rivoluzionaria della sua ispirazione.
Come annotava Yriarte nell’Ottocento:
l’impressione di paganesimo è
l’impressione dominante entrando
nell’edificio. Ma come non mi
stancherò di spiegare circa l’orrore, tuttora latente e permanente per gli
spiriti meno liberi e più bloccati, per i “navigatori sotto costa”, riguardo le
“opere gentili”, come le chiamava Pio II, nel Rinascimento gentili o pagani
erano i seguaci del platonismo— o del neoplatonismo come diremmo oggi. E le
opere gentili sono sculture simboliche, e quindi esoteriche, esotiche ed
erotiche nelle misura in cui sono platoniche. Sull’esoterismo della filosofia
platonica credo che con gli studi della scuola di Tubinga e di Giovanni Reale
si sia oramai giunti a punti fermi. Nel Rinascimento col sacro cristiano
convive un altro sacro, nel senso che quest’epoca, grazie a Gemisto, accoglie
anche tutte le forme del sacro che si sono manifestate nella storia al di fuori
della Bibbia. Sigismondo “che era molto innanzi nella Filosofia”,
a detta dello stesso Pio II, non poteva non porre come suggello alla sua opera
incompiuta le ossa di Pletone, il principe dei filosofi del suo Tempo, l’altro
Platone, il quasi Platone, la reincarnazione di Platone. Anziché restringersi,
la dimensione religiosa dunque si amplia. E ci si consentirà ancor oggi che il
sacro non sia monopolio della chiesa, o domani di una moschea? Che non sia
perpetrata la lobotomia mentale e sacrale con l’abrasione della “memoria”
platonica? Che il Tempio malatestiano sia interpretato con modi non banali,
corrivi, comuni, ordinari e con tutti gli altri sinonimi di volgare, ma anche
in altro e perciò ulteriore senso? Un po’ come un tempo appunto in Grecia
c’erano due modi d’esprimersi, il dimotiki, volgare, e il katharévousa,
riservato a un’élite. Davvero bisogna avere la lingua non impastoiata dai peli,
il cervello non bloccato, la mente non cauta e fuori dall’ordinario. Per capire
platonicamente bisogna avere quella “visione”, quella “sapienza folgorante” di
cui ci parla Giorgio Colli, l’estasi di Plotino. E non a tutti è data questa
visione. Nec sutor ultra crepidam,
diceva lo scultore Apelle -che il calzolaio non giudichi più in su della
scarpa. E ciò senza negar nulla a critici e storici ‘ciabattini’, altra
versione dei nostri “navigatori sotto costa”, che nell’affrontare il Tempio
hanno profuso a piene mani nuove ed utili conoscenze e anzi ad essi deve andare
la nostra gratitudine, a cominciare dal Ricci fino ai suoi epigoni
contemporanei. Ma questi appunto come osservava Stokes a proposito del Ricci
sono “pedestrians”, pedestri, prosaici. E parafrasando Pletone se dobbiamo
chiederci se le opere dei nostri storiografi locali non meritano d’essere
studiate, risponderemo allo stesso
modo di Pletone: proprio il contrario, a causa di quel che vi è di utile in
esse, a condizione tuttavia di sapere che innumerevoli e grossolani errori vi
si trovano mescolati. Quindi ben
diversamente da chi coltiva gli aut aut dottrinali, gli integralismi dogmatici,
il monopolio del sacro e della sua interpretazione, la cultura del sospetto.
Non sarà perciò sufficiente il logos
senza il mythos per chi voglia
tentare di ascendere per la via della conoscenza. Altrimenti l’ultra continuerà a permaner nascosto. Non si sarà
intagliatori della pietra come Agostino di Duccio, non si comprenderanno
appieno le pietre del Tempio nelle loro virtù simboliche. Come diceva Pound: “Ciò
che ancor oggi neppure le persone più irrudicibilmente obiettive possono negare
è che un gran numero di uomini abbia provato un certo tipo di emozioni e, magari, di estasi. Costoro hanno lasciato resoconti
indelebili delle idee scaturite da, o associate a, tale estasi”. Naturalmente i resoconti cui si riferisce sono le
opere d’arte e, in primis, il Tempio, del tutto opaco per i profani. Non
chiedeteci dunque un codice cifrato, una ‘garzantina’ dei simboli del Tempio,
cercate invece un modo un po’ arcano per capire da soli il Tempio, siate
“matematici dell’anima” e non contabili. Grazie alle pietre scolpite del Tempio
il cercatore della verità è attratto e come condotto per mano sul retto
sentiero. Sul concetto di “visione estetica” in Guida alla Cultura, laddove parla di “contemplazione dell’amore divino”
e di “tradizione celeste”, Pound non è cauto, è esplicito quanto lo è Valturio.
Agostino di Duccio. Mercurio. Cappella dei Pianeti. Tempio Malatestiano, Rimini.
Tradizione celeste: ecco, il primo indizio del sogno
di Pletone: è certo che va attribuita a
lui—come fa Kristeller— la preminente e rivoluzionaria nozione della “Prisca
Sapientia”, vale a dire quella genealogia di antichi teologi e legislatori che
conduce direttamente dai maestri primordiali diritto fino ai giorni nostri. Fu
Pletone il primo a presentare quest’idea di “lignaggio”, di Tradizione. È
importante qui comprendere che è Pletone a gettare il seme di quell’idea di una
Tradizione continua e perenne della verità così influente e potente, ad
esempio, nell’istituzione della Massoneria e di ogni dottrina esoterica in
genere, di quel ritorno all’unità originaria di ogni sapere che trova la sua
espressione in pochi e comuni princìpi e simboli che restano necessariamente
esoterici.
La genealogia di Pletone, come osserva la Yates, è leggermente diversa da
quella successivamente descritta da Marsilio Ficino, che v’inserisce Ermete
Trismesgisto.
Bisogna
infatti precisare che anche lo stesso Tempio Malatestiano ha poco a che fare
con l’ermetismo, salvo che non s’intenda tale concezione in senso lato ed ampio
così come la s’intende oggi: è infatti difficile non trovar parentele tra testi
ermetici e quelli gnostici, neoplatonici, alchemici, tanto che Umberto Eco
definisce questo generale “modo di pensare” “semiosi ermetica”. Ma sarebbe
forse meglio utilizzare il termine “ermesismo”, sistematizzato da Antoine
Faivre ed includente la maggior parte delle forme di esoterismo. Comunque, nel Tempio riminese non
campeggia come sul pavimento del Duomo di Siena, edificato qualche anno dopo,
la figura del “tre volte grandissimo”. E’ assai problematico, direi
impossibile, che i testi ermetici fossero sconosciuti a Pletone. Eppure non vi
troviamo nessun riferimento negli scritti sopravissuti del filosofo di Mistrà.
Ci sono note le sue preferenze per oracoli caldaici, inni orfici, versi aurei
pitagorici, Platone e i platonici. Avrà dunque tenuto presente i timori
espressi da Platone nel Cratìlo
(407e), in cui l’invenzione della scrittura, attribuita a Thoth-Ermete, è
produttrice dell’oblio e foriera di trascurare la memoria, contenuta nei riti e
nella Parola, necessari ad ogni comunità iniziatica e che soli consentono la
trasmissione del senso dei princìpi primi ed il risveglio dell’anima. Avrà
ritenuto di uno sciovinismo inaccettabile, ellenico e cosmopolita al tempo
stesso com’era, l’attribuzione che nel Corpo Ermetico
(XVI, 1-2) vien fatta della lingua egiziana come centrale ed originale e la
contestuale critica alla filosofia greca, definita “un rumore di parole”. E difatti per contro riteneva che le dottrine
egiziane di Menes non andassero pigliate seriamente, essendo i rituali
egiziani, come afferma, “senza valore… e resi ridicoli”.
Dunque una fonte rivale ed inesatta rispetto allo zoroastrismo, al pitagorismo
e al platonismo, cui accordava spiccate preferenze, è perciò, per i motivi
descritti, passibile di non essere nemmeno menzionata. Come sia avvenuto nel
volgere d’una generazione con Marsilio Ficino l’inserimento di Ermete
Trismegisto e nel volgere di due generazioni con Pico della Mirandola il
successivo inserimento nella Tradizione di Mosè e, conseguentemente lo studio
della Cabala ebraica, attiene da un lato a quella libertà di ricerca che è
patrimonio insostituibile di ogni esoterismo, dall’altro forse a quelle
motivazioni di velamento cui accenneremo in seguito.
E dato che abbiam parlato di cabala ebraica, non
potremo esimerci dal fare un accenno alla misteriosa figura dell’ebreo Elisseo,
o Elisha, l’iniziatore di Pletone, con il quale egli trascorse gli anni dalla
gioventù alla maturità a Brusa e ad Adrianopoli alla corte del sultano turco
Murad I. Nel mio saggio ho ipotizzato che l’ebreo Elisha fosse in realtà un
sufi, un Ishrâqî, essendosi il deposito platonico dopo il decreto di chiusura
dell’imperatore Giustiniano nel 529 d.C. della Scuola di Atene, fondata da
Platone nel 387 a. C., trasferitosi e conservatosi in Siria e in Persia e
quindi ben presto nel mondo arabo. Mi era
noto, come Henry Corbin ripetutamente indica, che almeno tre secoli prima che
Gemisto effettuasse la congiunzione di Zoroastro e Platone, un rinnovamento
simile era stato tentato in Iran dal sufi Sohrawardî e dai “teosofi della luce”— gli Ishrâqîyûn appunto—cioè i “Platonici di Persia”—che
cercarono di rinnovare la visione de “l’antica comunità della verità”—gli
antichi fedeli d’amore, l’oriente delle luci—all’interno del contesto shita
dell’Islam del dodicesimo secolo. Dopo aver scritto il mio primo saggio,
proseguendo negli studi su Pletone ho rinvenuto con sorpresa che Corbin, senza
dubbio il maggior studioso di filosofia islamica, già confermava questa ipotesi
scrivendo: “Possiamo anche chiederci se il maestro di Pletone, il misterioso
ebreo, Elisseo che gli insegnò il nome di Zoroastro e passava come un discepolo
di Averroè non fosse forse un Ishrâqî errante che aveva deviato in Anatolia...”. La vicenda è interessante
perché dimostra che ebrei, mussulmani ed occidente sono forse meno distanti di
quanto si crede.
Ezra Pound con la figlia Mary.
Siamo su un terreno difficile,
ipotetico, ma prezioso. Continuiamo ad addentrarci su un terreno ancora più
infido. Meno d’un mese fa in uno scambio epistolare con Mary De Rachewiltz, la
figlia di Ezra Pound nonché sua grandissima traduttrice in italiano dei Cantos e delle altre opere, ci
divertivamo ad ironizzare come Pletone, per una serie di circostanze, stesse
ritornando “dopo un oblio plurisecolare… ‘very fashionable’” . Ma in questa
gran moda e voga di parlare di Pletone, ci si guarda bene dal parlare di Pound.
Per fortuna, s’erge come un monumento l’opera di Demetres Tryphonopoulos “Pound
e l’occulto - le radici esoteriche dei Cantos”, edita nella sua versione italiana
grazie a Gianfranco De Turris e Luca Gallesi per i tipi delle “Ed.
Mediterranee”. Si potrebbe ancora citare il precedente saggio di Caterina
Ricciardi “ΕΙΚΟΝΕΣ - Ezra Pound e il Rinascimento” (Liguori Editore). In esse
emerge chiaramente come Pound considerasse Gemisto Pletone un importantissimo
anello di quella catena ininterrotta che egli chiama della “Tradizione
celeste”. Nel parlare e straparlare di Pletone come si annulla Pound con pari
cura si evita di nominare l’editore che sta pubblicando le opere di Pletone in
italiano, salvo trarne i contenuti per piegarli ai propri fini di bottega –
vero esempio di “usura intellettuale” potremmo esclamare con Pound! Ma tant’è:
il falò dei libri era un metodo efficiente prima di Manuzio, ora ve sono altri per sopire le coscienze, livellare le intelligenze,
travisare la realtà. Con altrettanta
simmetrica ed opposta cura ed attenzione – ah, l’orrore dei sofisti e degli
scolastici d’oggigiorno per la Tradizione con la T maiuscola— si giunge a
temere, addirittura, un utilizzo troppo spigliato, per giunta asservito a
qualche non specificato scopo di nefasta influenza, di Pletone come precursore
della Massoneria. Ora, posto che lo scopo di ogni platonico, non è che quello
della conoscenza, del Vero, del Bello, del Buono e del Giusto, in questo
percorso continuiamo imperterriti sul terreno delle ipotesi e congetture.
Certo, non è un’ipotesi ma un assioma che in Grecia la seconda Loggia Massonica
per importanza, quella di Salonicco, sia intitolata a Giorgio Gemisto Pletone.
Viene dunque da sé l’equazione Giordano Bruno sta alla Massoneria Italiana come
Pletone sta alla Massoneria Greca. Certo ancora, ed è un altro assioma: non c’è
nessuno storico della Massoneria e dell’esoterismo occidentale, serio o meno
serio e non necessariamente massone – si pensi ad Introvigne-, che non reputi
il reticolo delle Accademie rinascimentali - basta leggere le pagine che vi
dedica Masai- quantomeno come una sorta di fase pre-istituzionale della
Massoneria moderna, risorta ufficialmente nel 1717 a Londra. Passiamo ora al
terreno molle delle ipotesi.
Righe autografe di Jean-Baptiste Marie Ragon in cui si descrive il trasferimento a Londra dei circoli pitagorici.
L’inserimento di Pletone
nell’album della Massoneria non è cosa dei nostri giorni, né tantomeno mia.
Jean-Baptiste Marie Ragon, “autore sacro” della Massoneria francese
dell’Ottocento, in un suo articolo apparso nell’aprile 1859, traccia la storia
segreta dell’ordine pitagorico, sulla base di documenti dei quali dichiara di
aver avuto conoscenza. La storia va dalla chiusura della Scuola disposta da
Giustiniano, fino al rifiorire nel Rinascimento italiano, al suo trasferimento
in seguito alle persecuzioni all’estero e in particolare in Inghilterra e ne
segue la tracce fino al suo tempo, con una puntuale genealogia. Sono molte le
cose degne di nota in questo scritto ai più ignoto: che il capo supremo
dell’Ordine nel Rinascimento fosse Gemisto, che lasciò la protezione degli
istituti a Cosimo de’ Medici e Borso d’Este, che fu proprio in quest’epoca che
le donne furono escluse dai misteri, che quindi sotto la direzione di Ciriaco
Strozzi nella vicina Forlì fu iniziato un inglese, Thomas Bodley, e che verso
il 1550 l’ordine fu installato, come ultimo rifugio, a Londra da Francesco
Pizzellati. Il futuro Sir Thomas Bodley che donò 80.000 volumi ad Oxford, il
fondatore della Bodleyan Library che ci rammenta la consuetudine di Bessarione
e dei Medici. Ancora di notevole, la strutturazione dell’Ordine in tre gradi
cui nel 1670 fu aggiunta una sorta di quarto grado per conservare la purezza
originaria dell’istituzione a fronte delle alterazioni che vi sovrapponevano le
varie branche della Massoneria, man mano che si allontanavano dall’impronta
originaria sotto diverse scorze. Per quanto sia preferibile dubitare della
veridicità di tale documento – non sono pochi i falsi documenti storici in
ambiente esoterico e massonico o pseudo tale– tuttavia vi sono alcuni indizi
che potrebbero far propendere per una genuinità del contenuto. Salvo qualche
imprecisione risulta oltremodo dettagliata e puntuale la conoscenza degli
ambienti accademici del Rinascimento italiano e i riferimenti al mondo
bizantino, conoscenza che è difficile far risalire a fonti alternative diverse
da quelle segrete cui dichiara di aver avuto accesso Ragon, giacché la maggior parte
degli studi sul Rinascimento e ai suoi rapporti col mondo bizantino risale alla
fine dell’Ottocento e ai primi del Novecento. Significativa inoltre è l’assenza
di personaggi che sarebbe stato fin troppo facile per qualsiasi “falsario”
inserire, come il “pagano” Pomponio Leto e il “neopitagorico” Bruno ad esempio.
Questi indizi fanno ipotizzare che le fonti cui Ragon ha attinto siano in certa
misura autentiche, simili a quelle che pochi anni prima il massone Dante
Gabriele Rossetti e qualche decennio dopo il massone Giovanni Pascoli
utilizzarono per l’interpretazione dei misteri pitagorico-platonici di Dante.
Ma, a prescindere da quali siano state le precise forme e canali con i quali si
realizzò la sostanziale sopravvivenza segreta della tradizione pitagorico-platonica
pagana, nell’ambito della cultura bizantina, è un fatto che pare sostenuto
anche da qualche studioso greco moderno, come Polymnia Athanassiadi nel suo L’imperatore
Giuliano. La
Docente di Storia antica all’Università di Atene, nel suo saggio del 1981,
afferma: L’ellenismo di Giuliano non scomparve con la fine della scuola
filosofica di Atene. Attraversò come un fiume carsico l’era bizantina e
riemerse nel momento esatto della disgregazione politica dell’Impero d’Oriente.
La reazione di Pletone di fronte alla fine dell’Impero, il suo sogno di far
rivivere l’ellenismo, esposto nel libro delle Leggi, presentano sorprendenti
analogie con il progetto di Giuliano. …Condannata dalla Chiesa e dallo Stato,
non di rado perseguitata, la progenie spirituale di Giuliano è riuscita in
qualche modo a sopravvivere da Bisanzio all’era moderna....
Ma in ogni caso il Pitagorismo è
una rosa iniziatica per eccellenza e Pletone come anello di trasmissione è
un’ipotesi necessaria. Pur senza negare legittimità ad altre Tradizioni, il
pitagorismo costituisce, senza dubbio, il retaggio, il deposito vivente e
vivificatore, di un Rito della Massoneria italiana. Qui dunque siamo tornati
sul solido terreno.
L’elevazione del Tempio, dal codice Hesperis di Basinio da Parma, Bibliothèque de l’Arsenal, Parigi.
Credo sia utile a questo punto
circa la sopravvivenza della tradizione esoterica pitagorico-platonica, di cui
il Tempio malatestiano è il mirabile monumento in pietra, e circa la presenza
all’interno della Tradizione di differenti linee d’azione ricordare quanto John
G. Bennett, uno degli allievi di Gurdjeff, c’indica in merito alle modalità
d’azione messe in atto da centri esoterici depositari delle tradizioni
sapienziali per preservare queste ultime dalla distruzione durante
sconvolgimenti storici: e cioè la procedura sufi attuata sia durante la
conquista maomettana nel VII e VIII secolo d.C., sia durante la minaccia
mongola nel XIV e XV secolo. Secondo Bennet che fu in contatto, nei suoi viaggi
in Asia con diverse organizzazioni sufi “i guardiani della tradizione” hanno il
compito di dividersi in tre ramificazioni: la prima emigra, la seconda si
assimila al nuovo regime, la terza si dà alla macchia, pur mantenendo tra esse
i contatti. Per quanto non essendo comprovabile storicamente e
scientificamente, ciò conferma quanto sostenuto da Arturo Reghini nei suoi
studi sulla tradizione occidentale.
Esempi possibili di attuazione
di questa linea di difesa? Taluni ne abbiamo già fatti, esplicitamente o per rinvio. Il primo: chiusura della Scuola di
Atene e sua tripartizione: una parte si rifugia in Persia, una parte da vita a
quei cenacoli occulti descritti da Ragon e che toccheranno anche i Templari
dopo il loro contatto in Oriente, un’ultima parte s’infiltra nella Chiesa
grazie all’attività di filosofi come Sinesio e Boezio. Analogamente nel
Rinascimento una parte preserva nella sua purezza la sapienza del paganesimo
(l’Accademia Romana ad esempio), una parte dei filosofi (l’Accademia
Fiorentina, quella di Bessarione) tenta l’integrazione con la Chiesa Cattolica
o assume altri veli (cabalistici, alchemici, egiziaci, ecc.) in grado di
mantenere i princìpi, una terza infine si rifugia in Inghilterra (e non solo).
Ipotesi, ma non è un mistero che lo stesso meccanismo difensivo potrebbe essere
stato attuato dalla Massoneria durante il Fascismo. Non credo, infine di
svelare un altro mistero, anche perché lo si può leggere in diversi libri
dedicati alla Massoneria e persino su Internet, che il Rito Simbolico Italiano,
che dichiara di conservare appunto il deposito pitagorico, ha come impegno il
mantenimento del suo contenuto iniziatico, tanto da definirsi “sentinella
dell’Ordine” ed è perciò chiaro, come chiaro lo fu durante il fascismo, quale
delle tre direttrici esso dovrebbe assumere in caso di pericolo per l’Ordine.
Agostino di Duccio. Cappella di Isotta, putti musicanti. Tempio Malatestiano, Rimini.
Parliamo di pericoli. In questi
giorni di crociati e jihad il barlume più vivido che ci resta del sogno di
Pletone era che Maometto e Cristo fossero dimenticati e che la verità vera
splendesse su tutte le terre del mondo, che il mondo non assumesse una sola, globale
religione, quella cristiana-occidentale o quella mussulmana, ma che fosse
portato ad esito l’ultimo tentativo di Giuliano imperatore, un mondo di gentili
dove ogni varietà di culto fosse ammessa nel reciproco rispetto e in armonica
pace. L’eco del sogno di Pletone si sente risuonare nel magistero del Gran
Maestro Gustavo Raffi: “Libere Chiese in Libero Stato”. Quell’utopico
comunismo-aristocratico di Pletone si rinviene — e così sogniamo con lui che sia
un giorno anche sotto il cielo al di sopra della terra — sotto la volta del
Tempio, dove fratellanza, rispetto e amore convivono con una gerarchia di
spirito, di conoscenza, di bene e di virtù, i prodotti dei quali ciascuno può
godere e non soltanto il 10% degli esseri viventi. Dove ancora, se non dalla
Massoneria, risuona l’indignazione di Giuliano e la preoccupazione di Pletone
che la formazione, l’educazione, la scuola, la ‘paideia’, non fossero monopolio
di una singola fede o di una singola etnia, ma fossero l’arcobaleno della
scuola della Repubblica? Vien quasi da pensare che anche quegli aspetti della
Libera Muratoria che da taluni vengono frettolosamente giudicati come moderni,
antitradizionali, illuministi e perciò contrapposti all’esoterismo e alla
Tradizione, in realtà siano il deposito, il riflesso, il “recto” di una stessa
medaglia, i due volti di un Giano bifronte, il pezzo del ‘symbolon’ da
ricongiungere. Del resto l’eco del sogno di Pletone la si ascolta nella musica
e nel profumo d’incensi, nelle figure degli dei antichi e dello zodiaco che
accompagnavano i suoi rituali a Mistrà e ancora accompagnano i segreti riti
d’oggi.
Dal tempio massonico al
tempio malatestiano. Nella “spaventosa povertà di simboli”— come osservava
Jung— di cui soffre il mondo contemporaneo c’è un monumento che impone grazia
alla sua città. Questa è l’Italia segreta, che forma il nascosto tessuto
connettivo. Non ha importanza che questa musica, dopo Leon Battista Alberti, la
sentano in pochi. Non ha importanza che per i più il nome di Pletone, “principe
dei filosofi del suo tempo”, sia obliato. Basta che in taluni la memoria ci
sia. Che qualcuno ricordi la sua orazione funebre per Cleope Malatesta,
recitata con il futuro Cardinale Bessarione, unico cardinale che invece di
rosso vestiva il nero. Quella stessa orazione in cui Pletone si felicitava che
la principessa italiana “avesse abbracciato i riti e le abitudini dei Greci”. Che
qualcuno ricordi la musica di Dufay per le nozze della principessa dei
Malatesta con Teodoro II, despota di Mistrà. Basta che ci sia e che qualcuno
indichi di scovarla, che qualcuno la suoni e che qualcuno sappia ascoltarla.
Come dice
Plutarco”nella distesa dei tempi, gli oracoli riacquistano voce, a
somiglianza di strumenti allorché i musici esperti sono lì per suonarli”. E dunque che qualche musico esperto faccia
riacquistare voce al sogno di Pletone.
Rimini, 13 ottobre 2001
Moreno Neri
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